Powered By Blogger

mercoledì 27 dicembre 2017

VI PRESENTO CHRISTOPHER ROBIN

di Matteo Marescalco

In seguito ai traumi fisici e psichici causati dalla Prima Guerra Mondiale, lo scrittore teatrale A. A. Milne decide di trasferirsi in campagna e di acquistare una casa nel Sussex, dove va a vivere con la moglie ed il piccolo figlio. Tuttavia, quella di cercare la tranquillità nella campagna inglese è una scelta che va stretta alla moglie che torna in città e lascia soli marito e figlio. In questa rinnovata atmosfera di condivisione tra padre e figlio, Milne inventa le storie di Winnie the Pooh e dei suoi amici e le dà alle stampe grazie all'aiuto di un amico illustratore. L'improvviso successo che lo investe supera anche la più rosea aspettativa. Purtroppo, però, insieme al successo, arriverà anche la cattiva reazione del piccolo Christopher Robin, che non accetta bene il fatto che quel gioco privato con il padre si sia trasformato in un fenomeno mondiale.

Chi ha amato (e continua ad amare) il dolce orsacchiotto portato sullo schermo da Walt Disney difficilmente crederebbe ad una tale fiaba dell'orrore qual è Vi presento Christopher Robin. Dietro il sorriso di Christopher Robin si annida l'amarezza del padre scrittore, sopravvissuto ad una guerra che lo ha segnato fisicamente e, soprattutto, mentalmente, incapace di dare amore al figlio e di rapportarsi normalmente con lui. Tutt'altra realtà, a sua volta, si cela dietro il successo planetario di Winnie the Pooh ed è quella dell'infanzia di un bambino divorata dalla paura di non esistere e di essere ricondotto a vita al personaggio che appare nelle storie del padre.

La costruzione di questa fiaba oscura è assai didascalica e priva di punti di svolta degni di nota. La narrazione procede spedita ma sottotono senza essere mai in grado di evolversi e di catturare l'attenzione dello spettatore che, per tutta la durata del film, sembra assistere semplicemente ad una seduta dallo psicoterapeuta. La struttura del racconto è divisa in due parti: una dedicata al ritorno di Milne dalla guerra e alle difficoltà dello scrittore nel recuperare la sua vita sociale e familiare ed una incentrata sulla collisione tra il mondo immaginario creato da padre e figlio ed il gelo materno e paterno che avvolgono il piccolo Christopher Robin nei rapporti quotidiani.

Dietro le quinte sul successo di Winnie the Pooh, Vi presento Christopher Robin pone l'attenzione
sulle difficoltà incontrate da Milne jr. nel corso della sua vita, alle prese con uno dei primi fenomeni massmediatici della storia, facendo pressione sul versante drammatico della vicenda. Il problema di cui risente il film risiede in una certa programmaticità di fondo. Ogni cosa è mostrata e spiegata nel corso di un racconto che fatica a muoversi tra i vari generi che abbraccia e che finisce per essere una grossa occasione persa.

domenica 24 dicembre 2017

COCO

di Matteo Marescalco

L'obbligo di questo Natale sarà quello di portare i più piccoli al cinema a vedere Coco, l'ultima fatica Pixar. Una robusta narrazione è più che sufficiente a conquistare completamente la fiducia degli spettatori più giovani. Un racconto intessuto di colpi di scena e dotato della straordinaria capacità di far commuovere, e quindi di smuovere l'animo della platea, sottolinea tutta la propria competenza a coinvolgere l'emotività e ad innestare quanto narrato nella mente e, soprattutto, nel cuore. 

Nel Messico contemporaneo, Miguel è un ragazzino con il grande sogno di diventare musicista. Tuttavia, fa parte di una famiglia che, da svariate generazioni, si occupa della produzione di scarpe. E quello sarà anche il destino di Miguel, ostacolato dai suoi cari anche perchè la musica è stata bandita dalla sua famiglia, da quando la trisavola Imelda fu abbandonata dal marito chitarrista e costretta a crescere da sola la piccola Coco, adesso anziana ed inferma nonna di Miguel. Durante il Dia de Los Muertos, però, il ragazzino, stanco di dover rispettare quel divieto, ruba una chitarra da un sepolcro e si ritrova ad oltrepassare magicamente il ponte tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Miguel sarà catapultato in un universo parallelo di colori arancionati ed organizzato come la mente di Inside Out. L'incontro con il truffaldino Hector lo porterà a stretto contatto con un'impensabile verità sulla sua famiglia. 

Il fatto che Coco esplori il grande rimosso della cultura occidentale, ovvero l'idea della morte, si aggiunge al coraggio che ha portato la Pixar ad "uccidere" uno dei personaggi principali già nel prologo di Up e a realizzare un film animato principalmente per bambini praticamente muto come WALL-E. A differenza del villaggio cui appartiene, Miguel, nel suo viaggio reale, compie un percorso attingibile all'interno del mondo dei morti, dove a narrare di ricordi e di memoria sarà proprio l'oltretomba coloratissimo. Coco parla di vita e di morte, dell'importanza del ricordo e della memoria ma anche della necessaria esigenza di bilanciare passioni individuale ed organizzazione collettiva, nell'ambito di tradizioni ed usi che non vengano mai trattati come semplici legacci ed imposizioni ma semplicemente come background all'interno del quale crescere e sviluppare il rispetto per gli altri. Insomma, tenendo quindi in considerazione millenari costumi e spinta alla modernizzazione culturale. 

E, ancora una volta, come in Up e in Toy Story, a farla da padrone è soprattutto il mistero del tempo che passa, la necessità di evolversi e di cambiare, grazie alla forza di amore e sentimenti che, nel caso della Pixar, non sono mai deboli ricette astratte ma sentimenti puri da cercare e conquistare affrontando un percorso classico irto di difficoltà e traumi. Con la certezza, però, dell'affetto delle persone a noi più care.

L'ORA PIU' BUIA

di Matteo Marescalco

*recensione pubblicata su Point Blank: http://www.pointblank.it/recensione//lora-piu-buia/

Movimenti rozzi ai limiti della goffaggine, Hamburg in feltro, sigaro e panciotto. Indubbiamente, Winston Churchill è stata una delle figure preminenti nella storia dell'iconografia europea del Novecento. Caratteri che, con l'ausilio dei continui mumble mumble e di una voce profonda ed aggressiva che graffia i timpani, hanno inevitabilmente attirato l'attenzione di un attore consumato e spesso sottovalutato come Gary Oldman, chiamato a (ri)portare in vita le vicende del primo ministro del Regno Unito nel Maggio 1940, l'ora più buia che il popolo inglese dovette affrontare in vista di una riscossa che avrebbe poi provocato la disfatta dei regimi totalitari.

Joe Wright pone il suo stile gonfio di classicità al servizio di un prologo teatrale: come il pubblico a teatro, lo spettatore cinematografico assiste allo schiudersi delle tende della privacy sulla vita di Churchill, accecato dalla luce di Londra, in preda ad un'abbondante colazione e a tessere la tela di innumerevoli trame diplomatiche. E noi, con il favore di una luce di caravaggesca memoria, perquisiamo gli oscuri anfratti percorsi dal primo ministro, il dedalo di uffici sotterranei, osserviamo i processi in Parlamento animati da drammi e sotterfugi e compiamo in metropolitana un viaggio verso Buckingham Palace con lo stesso stupore causato dalla vista di Churchill in mezzo ai pendolari.

*continua a leggere su Point Blank: http://www.pointblank.it/recensione//lora-piu-buia/

venerdì 22 dicembre 2017

TOP 10+1 DEL 2017

di Matteo Marescalco

Fine anno. Ancora una volta, tempo di classifiche. La Top 10+1 include film la cui prima proiezione italiana (nell'ambito di festival o rassegne) è avvenuta nel corso del 2017 e non implica che il film sia effettivamente uscito in Italia durante l'anno. I titoli in classifica sono in ordine sparso.

THE SHAPE OF WATER di Guillermo del Toro
Opera della maturità per Guillermo del Toro, vincitore del Leone d'Oro all'ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia con questa straordinaria fiaba sulla principessa senza voce. Dopo Il labirinto del fauno, del Toro fonde nuovamente fiaba e realtà regalando agli spettatori un dramma d'amore di rara potenza. Omaggio al dispositivo cinematografico, ai monster movies della Universal, fuga da una realtà ordinaria che uccide e che colpisce per i segreti che nasconde, The Shape of Water spinge lo sguardo verso un universo soltanto immaginato, ma non per questo privo della possibilità di esistere. Senza dubbio, è stato il nostro film preferito del 2017. Arriverà nelle sale italiane il 14 Febbraio 2018. 

BORG MCENROE di Janus Metz
Finale di Wimbledon del 5 Luglio 1980. A sfidarsi sono Bjorn Borg e John McEnroe. L'iceberg svedese e il ragazzaccio americano. Il più archetipico dualismo western infiamma il campo da tennis e restituisce agli spettatori una delle partite più iconiche di tutti i tempi. Durante l'arco del racconto, lo sport rimane un elemento marginale che, piuttosto, scandisce la forma del film: un magistrale gioco di diritti e di rovesci che mantiene con il fiato sospeso e restituisce l'intensità di una costruzione in tre atti da manuale. Niente di particolarmente sofisticato ma soltanto l'attenta struttura di un film dallo svolgimento classico che ha saggiamente puntato tutto sullo sviluppo di un'ottima sceneggiatura.

RYUICHI SAKAMOTO: CODA di Stephen Schible
Compositore multiforme e dagli interessi svariatissimi, Ryuichi Sakamoto è l'assoluto protagonista di questo documentario presentato all'ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Suggestivo e ricco di spunti, Coda riesce a cogliere il momento dell'atto creativo del compositore orientale. Pur non avendo uno schema drammaturgico netto, il documentario colpisce per la propria delicatezza nell'evitare ogni agiografia. Una perla da non lasciarsi scappare!

AUTOPSY di Andrè Ovredal
Efficace thriller presentato a Toronto nel 2016 ed arrivato in Italia a Marzo 2017, osannato da Stephen King e Guillermo del Toro. Il cadavere di una ragazza sconosciuta viene ritrovato in un seminterrato in seguito ad un omicidio. Il corpo della donna è perfettamente conservato all'esterno ma all'interno presenta una serie di elementi che farebbero pensare a torture e ad indicibili violenze. Costruito in un unico ambiente chiuso e nel corso di una notte, Autopsy è un ottimo esercizio di stile sulla costruzione del terrore. La presenza di numerosi jumpscares non inficia mai la coesione del racconto e le veloci dinamiche della narrazione.

THE WAR-IL PIANETA DELLE SCIMMIE di Matt Reeves
Terzo episodio della trilogia reboot dedicata al mondo del pianeta delle scimmie. Al timone, questa volta, c'è Matt Reeves, padre di Cloverfield. Vero homecoming dell'anno, The War compie un viaggio lungo il cinema, alla ricerca di un futuro (e di una nuova casa/dispositivo) da garantire ai suoi corpi iconici, regalando una storia di ammaliante potenza archetipica. Raccontando tenebre e fantasmi di ogni cuore, senza mai dimenticare la forza che le emozioni rivestono nell'ambito delle narrazioni popolari condivise. 

GET OUT di Jordan Peele
I nomi di James Wan e Jason Blum hanno caratterizzato pressochè ogni prodotto horror che negli ultimi anni è riuscito ad attirare l'attenzione di critica e di pubblico, portando a casa eccellenti consensi. Ancora una volta, nel caso di Get Out tocca a Jason Blum. Piccolo film indipendente, diretto da un noto attore comico americano, Get Out si sviluppa sul binario della satira horror. Una ragazza bianca presenta il proprio fidanzato nero alla famiglia dalla mentalità progressista (che vota Obama). Ne accadranno delle belle. Tutti ne hanno parlato e lo hanno lodato. E' decisamente arrivato il momento di (ri)vederlo!

FAST AND FURIOUS 8 di F. Gary Gray
L'ottavo episodio di una delle maggiori saghe del cinema americano contemporaneo è anche il miglior blockbuster dell'anno. Adrenalinico e totalizzante, in grado di prendere per il collo lo spettatore e trasportarlo in un vortice di dinamismo senza pari. Già il settimo capitolo (diretto da James Wan) dimostrava una consapevolezza di sè che è totalmente sconosciuta a molti film mainstream e riusciva a riflettere sulle modalità attraverso cui le tecnologie digitali hanno mutato la percezione dello spettacolo analogico. Non lasciatevi traviare dall'idea di spettacolo becero del brand Fast & Furious. Il settimo e l'ottavo capitolo meritano davvero la vostra attenzione!

Al netto della straordinaria bellezza di Coco di Lee Unkrich, in uscita nelle sale nei prossimi giorni, la nostra attenzione è stata stuzzicata da altri due prodotti di animazione. Baby Boss della Dreamworks e Lego Batman. Il primo è una commedia dirompente che alterna sequenze classiche in CGI a scene bidimensionali che rappresentano gli slanci immaginativi di uno dei personaggi protagonisti. Ottimo per qualità e dettagli dell'animazione ma anche per trovate narrative. Il secondo narra le avventure di un Batman triste e solitario, all'interno di un racconto che pullula di richiami ad altre pellicole. Prodotto geniale da gustare sotto le feste!

SPIELBERG di Susan Lacy
Presentato all'ultima edizione della Festa del Cinema di Roma, Spielberg è un documentario targato HBO e dedicato al maggiore storyteller del cinema americano contemporaneo. Che dire? Nulla di nuovo sul fronte Spielberg. Si tratta di un lungo percorso di 2 ore e mezza che catapultano lo spettatore nell'immaginario spielberghiano, che analizza il suo narrare per immagini e le tematiche dei suoi film, spingendo verso un loro inevitabile rewatch. 

RITRATTO DI FAMIGLIA CON TEMPESTA di Hirokazu Kore'eda
Presentato a Cannes 2016 ma arrivato in Italia a Maggio 2017. Lo scorrere del tempo al cinema non è mai stato così dolce e malinconico come in questo film di Hirokazu Kore'eda. Due ore di vita sviluppate con la naturalezza di un qualsiasi evento quotidiano che coinvolge e stupisce. Ritratto di famiglia con tempesta è un film alle prese con lo scarto tra illusioni e sogni infantili e cambiamenti irreversibili dell'età adulta, quando si fa i conti con il proprio passato sperando di non restare delusi ma consapevoli del fatto che è quasi impossibile realizzare le aspettative della propria fanciullezza.

MASTER OF NONE 2/MINDHUNTER di Aziz Ansari/David Fincher
Dev Shah è un master of none: capace in tutto, maestro di niente. L'oggetto della serie tv di Aziz Ansari è la vita di un ragazzo di una trentina d'anni che cerca di trovare un equilibrio tra la vita sentimentale, le amicizie, l'ambizione, la famiglia e il proprio lavoro. Ansari laura sulle debolezze, le paure e i punti di forza della sua generazione. E lo fa costruendo un forte discorso che fa leva sulle questione di genere e razza, sempre con grazia e leggerezza, attraverso una scrittura simile a quella di Woody Allen. Di sicuro, la seconda stagione è stata il nostro colpo di fulmine dell'anno insieme a Mindhunter di David Fincher. In questo caso, è meglio parlare poco. Vi resterà più tempo per fiondarvi su Netflix e guardare la serie!

giovedì 21 dicembre 2017

I 10 FILM PIU' ATTESI DEL 2018

 di Matteo Marescalco

GLI INCREDIBILI 2 di Brad Bird
A distanza di 14 anni dal primo episodio, il prossimo 19 Settembre arriverà nelle sale italiane il sequel de Gli Incredibili, titolo di punta del 2018. Come saranno cambiati i membri familiari durante questo periodo di assenza? E, soprattutto, durante un periodo in cui i film dedicati ai supereroi hanno totalmente invaso le sale cinematografiche? La risposta ci incuriosisce tantissimo. La Pixar è alle prese con l'ennesimo sequel: otterrà lo stesso risultato di Cars 2 o, piuttosto, di Monsters University? A Settembre 2018 ne sapremo di più!

GLASS di M. Night Shyamalan
A voler essere rigorosi, il prossimo film del regista de Il sesto senso vedrà il buio della sala a Gennaio 2019. Ma noi siamo fiduciosi e speriamo di poterlo vedere in occasione di qualche anteprima festivaliera o semplicemente stampa a Dicembre 2018. Il livello di attesa nei confronti di Glass è elevatissimo e, quindi, inserirlo nella top 10 dei film più attesi del 2018 ci dà la sensazione che la sua data di uscita sia più vicina di quanto sembri. Split, come scritto e letto abbondantemente nel corso dell'ultimo anno, è la origin story del villain che si scontrerà contro David Dunn (la cui origin story è narrata in Unbreakable) proprio in Glass, in cui tornerà anche Elijah Price (Mr. Glass). Quindi, Glass sarà il terzo episodio della trilogia composta da Unbreakable e Split, che ha sancito il grande ritorno sulle scene mondiali di M. Night Shyamalan, colpevolmente relegato nel dimenticatoio dopo i fallimenti commerciali di L'ultimo dominatore dell'aria ed After earth. Sarà dura arrivare a Dicembre 2018 senza lasciarsi andare ad attacchi isterici causati dall'uscita dei primi materiali promozionali del film. 

ISLE OF DOGS di Wes Anderson
Film d'apertura della prossima edizione della Berlinale, Isle of Dogs di Wes Anderson ha già catturato tutta la nostra attenzione. Cast di primissimo ordine, ritorno alla stop-motion e materiali promozionali strepitosi si uniscono ad una trama ambiziosa e, come al solito per Anderson, ricca di dettagli molto strani: nel Giappone del 2037, tutti i cani vengono messi in quarantena su un'isola di rifiuti a seguito di un'influenza canina. Stufi della loro esistenza, cinque cani incontrano un ragazzino, giunto sull'isola per salvare il suo cagnolino. Per il ragazzo inizierà una lunga odissea. Il film non ha ancora una data d'uscita italiana. 
 
AVENGERS: INFINITY WAR di Anthony e Joe Russo
Ragazzi, dico io...avete mica visto che bomba assurda è il primo trailer del terzo film sugli Avengers? Epicità allo stato puro! Ecco, direi che potrebbe bastare anche solo quello.  

AQUAMAN di James Wan
Altro blockbuster nella nostra classifica. Stavolta, tocca ad Aquaman, supereroe di casa DC, portato sullo schermo da uno dei grandi innovatori dell'horror degli ultimi dieci anni: James Wan. Batman vs Superman ha presentato al pubblico il team della Justice League, la lega formata da Batman, Superman, Wonder Woman, Cyborg, Flash e proprio Aquaman. Il personaggio è uno dei più fighi dell'universo DC e il tocco di Wan potrebbe trasformare un semplice film di supereroi in qualcosa di diverso. Arriverà in sala a Dicembre 2018. 

DOGMAN di Matteo Garrone
L'interruzione forzata di Pinocchio (causata dall'assenza di Toni Servillo, alle prese con Loro di Paolo Sorrentino) ha spostato l'attenzione di Matteo Garrone verso un altro progetto: Dogman, ritorno alle atmosfere noir e promiscue de L'imbalsamatore. Il film sarà un western urbano ispirato alle cronache criminali su Pietro De Negri, l'efferato canaro della Magliana che, nel 1988, torturò fino alla morte un piccolo ras di quartiere. Ovvia la presenza in concorso alla prossima edizione del Festival di Cannes.

READY PLAYER ONE di Steven Spielberg
Grande annata per il più grande storyteller contemporaneo, che arriverà sugli schermi con The Post (cast straordinario con Tom Hanks e Meryl Streep) e con questo Ready Player One. Nel 20145, la Terra è diventata un luogo inquinato, funestato da guerre, povertà e crisi energetica. Gli abitanti vivono in container senz'altra evasione che il nostalgico mondo virtuale di OASIS. L'universo in realtà virtuale basato sull'immaginario degli anni '80 conta milioni di login al giorno, grazie alla facilità d'accesso. Quando il creatore del sistema muore, viene indetta una caccia al tesoro da miliardi di dollari. Un adolescente, attraverso il suo avatar, proverà ad aggiudicarsi il premio in palio, sfidando tantissimi nemici. Niente di più tradizionale immerso nel futuro dei media, la realtà virtuale. Ragazzi, inutile dirlo, l'attesa è alle stelle!

LORO di Paolo Sorrentino
Altro candidato ideale per il concorso della prossima edizione del Festival di Cannes è Loro di Paolo Sorrentino, che rinnova la collaborazione con Toni Servillo, qui nelle vesti di Silvio Berlusconi. Secondo Sorrentino, Berlusconi è un archetipico dell'italianità attraverso cui poter raccontare il popolo italiano. Grande attesa per questo film che non si pone unicamente l'arduo compito di raccontare una delle figure emblematiche della recente storia italiana ma anche quello di narrare la storia del suo "circolo magico". Riuscirà Sorrentino a replicare il grande successo critico e di pubblico de Il divo?

THE HOUSE THAT JACK BUILT di Lars von Trier
Secondo von Trier, si tratta del film più brutale della sua carriera. Ambientato nell'arco di 12 anni, il film sarà incentrato sulle vicende di un serial killer (Jack, ricalcato su Jack lo Squartatore) alle prese con cinque vittime. Probabile la partecipazione alla prossima edizione del Festival di Cannes (altrimenti, Venezia sarebbe in agguato).

LOVE di Judd Apatow
E' recente la notizia secondo cui la terza stagione di Love (l'ultima della serie) sarà anche l'ultima. E' un vero peccato. La serie-tv, creata da Judd Apatow, Paul Rust e Lesley Arfin, è riuscita, negli ultimi anni, a raccogliere una quantità assai elevata di consensi critici e del pubblico. La serie è un viaggio romantico al vetriolo incentrato sulla relazione tra Mickey, ragazza sfrontata e con problemi di alcolismo, e Gus, un giovane timido ed insicuro. In attesa della terza stagione di Master of None di Aziz Ansari, Love 3 è il modo giusto per riempire il vostro tempo libero e per studiare l'evoluzione della rom-com!

sabato 16 dicembre 2017

JUMANJI: BENVENUTI NELLA GIUNGLA

di Matteo Marescalco

Che Jumanji abbia segnato indelebilmente la seconda metà degli anni '90 è una verità ineludibile. Per il suo mix di azione e commedia, dramma ed elementi da mind-game movie; per un cast in stato di grazia che annovera Robin Williams e Bonnie Hunt, la giovane Kirsten Dunst ed il nostalgico volto di Bradley Pierce, e ancora Jonathan Hyde e David Alan Grier; per le tematiche archetipiche che innervano lo sviluppo del racconto e che hanno consentito al film di andare incontro ad un buon invecchiamento.

Jumanji: Benvenuti nella giungla trova la sua genesi nella conclusione del primo episodio. Il gioco da tavolo lanciato da Alan Parrish e Sarah Whittle nelle acque di un fiume nel 1969 viene ritrovato in riva al mare da un adolescente nel 1996. Il giovane, dopo un attimo di curiosità, non è interessato al gioco da tavolo che, nel frattempo, nell'ambito della cultura giovanile, è stato sostituito dai videogame. Così, nel corso della notte, il gioco si trasforma nella cartuccia di una console e risucchia il ragazzo al suo interno. Jumanji è rinato. Un salto temporale sposta l'arco del racconto ai giorni nostri, quando quattro ragazzi liceali in punizione trovano la console nel magazzino del college ed iniziano a giocare, scegliendo quattro avatar tra i cinque a disposizione. Inutile dire che anche loro finiranno trasportati nel mondo di Jumanji.

Benvenuti nella giungla si sviluppa in modo indipendente rispetto all'ingombrante capostipite, omaggiandolo ma provando ad evitare di portare sulle proprie spalle un peso che ne avrebbe potuto minare la riuscita. Il suo tentativo è piuttosto quello di risemantizzare l'universo narrativo originario e di trasportarlo in epoca contemporanea. Ecco quindi l'innesto della console e degli avatar che consentono ai quattro adolescenti di muoversi in corpi completamente differenti rispetto ai propri: il nerd si muoverà nel fisico statuario di Dwayne Johnson, la ragazza timida assumerà le vesti di una sorta di Lara Croft, la più bella della scuola, sempre alle prese con il suo account Instagram, si trasformerà nell'archeologo curvy interpretato da Jack Black. Da questo nucleo di trasformazioni si dipanerà la maggiorparte delle gag fisiche legate alle identità dei personaggi, giovani adolescenti che dovranno superare gli stereotipi che li etichettano e scegliere cosa diventare, affrontando le proprie paure.

Tra Personaggi Non Giocanti, flashback vissuti dai protagonisti come scene non interattive e tre sole
vite disponibili per completare il percorso verso la liberazione di Jumanji (e, quindi, verso il compimento del proprio arco di trasformazione), il film mette in scena il meccanismo che lo caratterizza e riflette sul proprio funzionamento, perdendo quell'aura di autentico stupore e di malinconia che animava l'episodio con Robin Williams. Non troveremo bambini alle prese con le difficoltà della vita e con i rapporti problematici con i propri genitori né tanto meno adulti irrisolti ma soltanto il target di mezzo, quello degli adolescenti alle prese con un difficile momento della loro vita. Quindi, il materiale di partenza è meno dinamitardo e più “rilassato” ed il target subisce un lieve slittamento. Ciò non toglie, tuttavia, che questo Jumanji: Benvenuti nella giungla sia un buon prodotto di intrattenimento per famiglie in un periodo in cui i cinema realizzano la maggior quota annuale di incassi.

venerdì 15 dicembre 2017

FERDINAND

di Matteo Marescalco

Ferdinand è un toro pacifico ed amante dei fiori che non ne vuole sapere di scendere in arena ad affrontare un torero. Qualcosa gli suggerisce che, nonostante tutto, sia sempre il matador a vincere sul toro. In barba alle convenzioni culturali del genere cui appartiene, Ferdinand fugge dall'allevamento di tori da corrida in cui è rinchiuso per cercare una via diversa da quella che le usanze vorrebbero che lui percorresse. Ma il destino gli remerà contro.
 
Al giorno d'oggi, il cinema di animazione si è speso all'interno di ogni genere e le case di produzione specializzate hanno riempito il mercato, provando a garantire un'adeguata stratificazione di prodotti adatti ai diversi tipi di target. Il regista di Ferdinand è Carlos Saldanha, già autore de L'era glaciale e di Rio, entrambi della Blue Sky Animation. Il film è tratto da La storia del toro Ferdinando di Munroe Leaf e Robert Lawson (già trasformato in cortometraggio da Disney nel 1938), racconto illustrato che all'epoca venne messo al bando perchè, in un periodo del genere, veniva visto come un pericoloso inno all'autodeterminazione. In effetti, il concetto di fare della propria vita ciò che si vuole, nonostante i retaggi culturali che dominano la nostra società, è la tematica principale di Ferdinand (curiosamente presente anche in Coco, ultimo film Pixar). 

Vista l'importanza e la difficoltà tematica, l'intera narrazione è costruita su diversi punti di vista che mirano a dialogare con target di pubblico differenziati. Lo spazio alle gag divertenti e alla volontà di Ferdinand di abbandonare una vita che non gli piace non sottrae importanza all'impianto metaforico che restituisce la descrizione del mondo dei toreri e dei mattatoi. Il problema risiede, piuttosto, nell'assenza di equilibrio tra first storyline e l'accumulazione snervante di gag che mirano unicamente a strappare le risate dei più piccoli ma che lasciano completamente attoniti i più grandi. Il ritmo complessivo della narrazione è altalenante ed è accompagnato da un'animazione che si attesta sulla creazione di ambienti cromaticamente saturi e ridotti ai minimi dettagli (caratteristiche che finiscono per stridere con il racconto). 

Con un regista del genere, ci si aspettava una riflessione differente o, quanto meno, un'elaborazione più brillante sul racconto portato in scena, sulla scorta di quanto fatto da Gli eroi del Natale, piccola gemma delle festività in corso.

STAR WARS VIII-GLI ULTIMI JEDI

di Matteo Marescalco

Celluloid heroes never really die?, ci si chiedeva in occasione dell'uscita de Il Risveglio della Forza, rilancio in pompa magna del franchise di Star Wars, affidato a J.J. Abrams, probabilmente il regista che, meglio di tutti, ha saputo emulare la logica di entertainment, sentimenti e narrazione tipica dei film di Steven Spielberg. Il risultato è consistito nella realizzazione di un prodotto che guardava con sguardo nostalgico all'universo di George Lucas, proponendosi l'inevitabile obiettivo di svecchiarlo (e di introdurre nuovi membri nel cast) per puntare alle più ampie masse di giovani.
 
Più e più volte viene dichiarata durante Gli ultimi Jedi la necessità di un rinnovamento. I Padri vanno rispettati ma ucciderli per cercare il nuovo è un bisogno ineludibile. L'intero conflitto che dilania il personaggio di Kylo Ren è basato su quest'assunto: come distinguersi dai propri padri per dar corso ad una nuova era? E, più di ogni altra cosa, come resistere al Lato Chiaro della Forza? Tutto ciò avviene in un contesto in cui le situazioni narrative si affastellano una dietro l'altra (Luke Skywalker non ne vuole sapere di tornare in campo per aiutare i membri della resistenza e rifiuta di dare ascolto a Rey; il Primo Ordine si prepara a lanciare l'ultimo attacco agli ultimi partecipanti alla resistenza; un manipolo di eroi cerca un personaggio fondamentale per un attacco a sorpresa alle navi imperiali) e non lasciano un attimo di respiro allo spettatore. 

Tuttavia, se i pensieri e i dialoghi tra i personaggi spingono verso la direzione della rifondazione e del rinnovamento, viceversa, le immagini dicono esattamente l'opposto. Se Il Risveglio della Forza omaggiava e recuperava con nostalgia un universo che questo secondo episodio avrebbe dovuto rifondare, Gli Ultimi Jedi non riesce a creare un minimo scarto nei confronti dell'immaginario di partenza, adagiandosi su scelte visive piatte ed obsolete, superando di slancio il fervore nostalgico dell'episodio di partenza per abbracciare un mood stantio. La contraddizione visibile è tra ciò che viene dichiarato e quanto viene, invece, mostrato, mai in grado di rimuovere la patina industriale (nell'accezione negativa del termine) della filiera di Star Wars. Le battute a raffica e l'ironia scalfiscono l'epica del mito, avvicinando l'universo di George Lucas a quello degli eroi Marvel.
 
L'operazione di Rian Johnson non è da buttare e può considerarsi riuscita a metà. Da un lato, può
definirsi pienamente consapevole del nuovo corso da intraprendere. Dall'altro, non sa bene che forma attribuirgli. Attendiamo con trepidazione il terzo episodio, in uscita tra due anni. Allora, tireremo le somme con maggiore consapevolezza. 

mercoledì 29 novembre 2017

GLI EROI DEL NATALE

di Matteo Marescalco

Il periodo natalizio è alle porte e, puntuali, arrivano i numerosi film che allieteranno le nostre feste. Un posto di particolare importanza spetta a Gli eroi del Natale, prodotto della Sony Pictures Animation che rilegge, dal punto di vista degli animali co-protagonisti, la nascita di Gesù. 
Bo è un asinello che sogna di liberarsi dalla stalla in cui è rinchiuso e condannato a far girare la macina di un mugnaio pieno di sè; il suo migliore amico, la colomba Dave, gli dà una mano a fuggire e gli consiglia di seguire il corteo reale che passerà da Nazareth; Maria è una giovane donna alle prese con la propria gravidanza divina. A completare il quadro dei personaggi, Giuseppe, neo-marito di Maria e dubbioso sul proprio ruolo in relazione alla nascita di Gesù. Sullo sfondo della narrazione tradizionale si aggiunge la miriade di personaggi secondari legati all'evento che, in questa rilettura animata, assurgeranno al ruolo di protagonisti assoluti. 

L'idea di rifondare e raccontare diversamente quella che, a ragione, viene definita la più grande storia del mondo (ovviamente, per un target di piccoli) è originale e porta con sè un buon livello di sviluppo e di cura, sul versante narrativo ed animato. Ogni personaggio ha un conflitto e lotta contro qualcosa: l'idea di sè che hanno gli altri, il desiderio di uscire dalle quattro mura domestiche e di mettersi davvero in gioco e contribuire a quello che viene percepito come un evento determinante, l'inadeguatezza nel crescere il re dei re. La tradizionale struttura del viaggio dell'eroe presenta varie sfaccettature e si sviluppa in relazione a tutti gli animali che entrano in gioco. 

Ovviamente, le storyline troveranno il loro punto di detonazione in corrispondenza dell'evento finale, suggellato dalla comparsa della stella cometa che guida il cammino degli eroi. Il film offre una serie di valori su cui poter riflettere, in relazione al comportamento degli animali del presepe: coraggio, dedizione, redenzione e libertà di scelta. Questo interessante backstage della nascita di Cristo riduce al minimo i riferimenti divini. Nella sua semplificazione risiede una delle chiavi del successo del film che si attesta come un piacevole modo per trascorrere un pomeriggio all'insegna del divertimento familiare.

venerdì 24 novembre 2017

ASSASSINIO SULL'ORIENT EXPRESS

di Matteo Marescalco

Un lussuoso treno attraversa un freddo scenario invernale dominato dalla neve e dalle montagne. Dentro il treno l'atmosfera è soffusa ed il cibo è ottimo. Peccato che la calma che regna sovrana venga improvvisamente sconvolta da un omicidio. Ad essere ucciso è Ratchett, un losco individuo dal passato poco chiaro, colpito al petto da svariate coltellate di forte intensità. Chi dei distinti passeggeri è il colpevole? Il compito di condurre le indagini spetta ad Hercule Poirot, celebre invenzione letteraria di Agatha Christie.

Il baffuto personaggio, questa volta, è interpretato da Kenneth Branagh, che ha curato anche la regia dell'adattamento, caratterizzato dalla presenza di un cast che farebbe invidia a tutti: Johnny Depp, Judi Dench, Michelle Pfeiffer, Penelope Cruz, Willem Dafoe, Derek Jacobi e Daisy Ridley ci prendono per mano e ci accompagnano lungo questo estenuante viaggio.

Basterebbe il solo incipit di una decina di minuti a contestualizzare l'operazione produttiva di Branagh, regista ed attore di forte stampo teatrale. Quella mise en abyme delle metodologie di indagine di Poirot restituiscono un personaggio che difficilmente si limiterà ad orchestrare il dramma e a traghettare i personaggi. Branagh pone costantemente sé stesso al centro di ogni scena, dimostrando un egocentrismo di notevole intensità. Ogni sequenza è perfettamente orchestrata e girata, l'attenzione ai dettagli ed ai dialoghi è notevole ma quello che sembra mancare è una certa naturalezza cinematografica. Si ha l'impressione che ogni gesto sia fin troppo teatrale, finendo per restituire allo spettatore un senso di oppressione. I personaggi entrano in scena dopo un lungo piano sequenza che ricerca la spettacolarizzazione chiedendo in sacrificio l'approfondimento psicologico dei caratteri portati sullo schermo.

Il senso veicolato dal racconto passa attraverso le scelte di regia (i movimenti di macchina) piuttosto che attraverso la scrittura. Questa trasposizione di Kenneth Branagh è uno di quei casi in cui la regia non è al servizio della sceneggiatura (che, per quanto riguarda la collocazione dei turning point si mostra anche abbastanza imprecisa). Il rischio di inserire la prima svolta narrativa in corrispondenza del 45esimo minuto è quello di perdere completamente l'interesse dello spettatore. Al termine della visione, rimane ben poco in mente (e peggio ancora, ancorato al cuore). L'unico personaggio a presentare un arco narrativo compiuto è il solo Hercule Poirot (a dimostrazione di quanto sia lui il centro focale del film, anche in vista di una serializzazione del prodotto). I delitti, le passioni, i tormenti e le sofferenze dei personaggi secondari rimangono nel dimenticatoio o, comunque, sono assolutamente insufficienti per delineare la loro trasformazione e la risoluzione di un conflitto.

Ben poco si salva di questa operazione, mero divertissment posticcio ed artificioso, insincero ed incapace di trasformarsi in qualcosa di davvero interessante.

SMETTO QUANDO VOGLIO-AD HONOREM

di Matteo Marescalco

Nel 2014, il primo capitolo di Smetto quando voglio, che avrebbe poi dato inizio alla trilogia realizzata grazie al favore positivo del pubblico, è stato accolto con entusiasmo da critici e spettatori. Il secondo capitolo, Masterclass, uscito a Febbraio, è stato preceduto da un battage pubblicitario senza eguali per un film italiano: Roberto Recchioni, Zerocalcare, Giacomo Bevilacqua e Riccardo Torti hanno realizzato le quattro copertine da collezione dedicate ad un fumetto su Smetto quando voglio in vendita in edicola. La partnership con la Sapienza (in cui sono stati girati i due sequel) ha attivato l'attenzione della città universitaria. Insomma, il pubblico cinematografico italiano ha avuto il suo fenomeno popolare. Gli incassi, nonostante questo, sono stati inferiori al primo episodio (e quindi alle aspettative).

Smetto quando voglio-Ad Honorem è stato accompagnato dal lancio sui vari canali social di un filmato che rilegge in chiave ironica i video americani che, nell'ampio spettro del marketing di un prodotto, utilizzano un linguaggio scientifico e forbito per sottolinearne i pregi. Il breve filmato parte dal concetto che questo terzo episodio è molto più divertente dei precedenti due; poi analizza il volto di Luigi Lo Cascio, villain del film, molto più cattivo di Pennywise, Joker e persino del Geometra Calboni. Il fatto che uno strumento di marketing faccia ironia su sé stesso e sul prodotto che presenta, con una scrittura certosina e millimetrica, riflette alla perfezione lo spirito della saga di Smetto quando voglio, che ha fatto del precariato un pretesto per la commedia e l'action.

Il primo episodio portava in scena la vicenda di Pietro Zinni e della sua banda di ricercatori che, sulla scia di Walter White di Breaking Bad, sintetizzavano una sostanza stupefacente non ancora messa al bando dal ministero. In Masterclass, con la premessa di uno sconto di pena e la ripulitura della fedina penale, la banda collabora con le forze di polizia all'arresto dei principali trafficanti di smart drugs romani. Peccato che le cose prendano, ancora una volta, una piega inaspettata. Zinni e co. se la dovranno vedere con un nuovo personaggio che li mette in serie difficoltà. Questo nuovo villain, il principale generatore di conflitto in Ad Honorem, è Walter Mercurio, il cui passato è oscuro e coinvolge anche il Murena.

La chiusura della trilogia di Sydney Sibilia compatta quanto visto finora e getta una luce su alcune zone d'ombra del passato. Se i precedenti episodi cercavano l'effetto sorpresa (il primo nel territorio “sicuro” della commedia, il secondo invadendo la rischiosa palude dell'action movie), questo Ad Honorem chiude il cerchio e regala inaspettati approfondimenti umani che costituiscono un solido background su cui innervare la vicenda di momenti ironici. Smetto quando voglio esiste e sancisce la nascita di un'epica popolare nel cinema di genere italiano che annovera, dopo Enzo Ceccotti di Lo chiamavano Jeeg Robot, una nuova banda di supereroi. Sibilia e la Groenlandia (la società di Matteo Rovere, regista di Veloce come il vento) hanno dimostrato che è possibile, in Italia, progettare un cinema diverso, che riesca ad echeggiare la grande organizzazione industriale hollywoodiana, fatta di high concept, struttura narrativa rigida e costruita sulla base di predeterminati modelli narrativi, effetti speciali funzionali alla storia narrata che si configura come un prodotto medio frutto di un enorme ed intelligente sforzo produttivo. Quando un film è ben scritto e presenta conflitti pienamente strutturati e sviluppati, il risultato non può che essere questo.

lunedì 20 novembre 2017

CONFERENZA STAMPA COCO

di Matteo Marescalco

Due anni dopo l'arrivo di Pete Docter a Roma in occasione della presentazione stampa di Inside Out, giunge nella capitale un altro membro dei Pixar Studios. Stiamo parlando di Lee Unkrich, regista di Toy Story 3 e produttore esecutivo e co-regista di molti altri film dello studio di animazione digitale americano. In questo suo tour europeo, Unkrich è stato accompagnato da Darla K. Anderson, produttrice ed addetta alla supervisione dei film Pixar.

In un variopinto villaggio messicano fervono i preperativi in occasione del Dia de los muertos, una particolare forma di celebrazione tipica della cultura sudamericana che si colloca tra l'1 ed il 2 Novembre. Il dodicenne Miguel si getta a capofitto nei festeggiamenti, strimpellando la sua chitarra e coltivando il sogno di poter suonare, un giorno, dinnanzi a platee ben più ampie. La famiglia, tuttavia, a causa di un'antica maledizione, gli impedisce di suonare e di seguire la sua passione. Proprio nel giorno della festa che celebra i morti, Miguel trafuga la chitarra del suo cantante preferito. Questo atto lo trasporterà in un universo magico dalle tinte orrorifiche: il ragazzino si troverà catapultato nel mondo dei morti. Come uscirne?

La prima domanda in conferenza rimarca la somiglianza tra Coco, La sposa cadavere di Tim Burton (e, in genere, l'intero immaginario burtoniano) e Il libro della vita di Jorge R. Gutierrez (che annovera Guillermo del Toro tra i produttori). «Su Tim Burton, sapevamo benissimo quando abbiamo iniziato a lavorare su questo film, che, avendo a che fare con scheletri, automaticamente saremmo stati correlati a lui. Noi abbiamo provato a differenziarci, creando personaggi belli da guardare ed interessanti. E abbiamo aggiunto gli occhi che sono una sorta di finestra sulla loro anima. Per quanto riguarda Il libro della vita, si è trattato di una mera coincidenza. Abbiamo iniziato a lavorare su Coco ben sei anni fa, ovvero due anni prima dell'uscita del film di Gutierrez. In giro ci sono tantissimi film sul Natale quindi non capisco perché non ci possano essere più film dedicati al Dia de los muertos. Noi abbiamo visto e apprezzato il suo film e lui ha visto e apprezzato il nostro. La storia è completamente diversa».

«Voi della Pixar avete girato un film su un evento fondamentale della cultura messicana e lo avete presentato in anteprima mondiale proprio in Messico. Considerando il fatto che avete un presidente che vuole costruire un muro con il Messico, mi sembra una bella dichiarazione di intenti». Secondo il regista: «Abbiamo lavorato su Coco per sei anni. Ed il mondo, sei anni fa, era ben diverso da quello che è oggi. Sin dall'inizio, l'idea era quella di lavorare su un film che fosse prova del nostro profondo amore nei confronti del popolo messicano e della sua cultura. Ci auguriamo che possa contribuire a costruire un ponte. L'obiettivo era mostrare la ricchezza di questa cultura, sperando che si possano dissolvere le molte barriere artificiali frapposte».

Per quanto riguarda i dettagli dell'animazione, mai così fotorealistica (in molte scene, l'impressione è quella di assistere ad un film in live action), l'attenzione si è concentrata sul personaggio di Dante, il cane di Miguel: «La lingua di Dante è completamente incontrollabile, indipendente dal suo volere. Si tratta di una razza particolare e specifica del Messico. Risale a migliaia di anni fa ed è parte della cultura azteca. Il gene del dna di questa razza controlla crescita del pelo e crescita di denti. Per questo motivo, in Messico ci sono parecchi cani senza pelo e senza denti. Non avendo denti, la lingua non riesce ad essere trattenuta. Per quanto riguarda la tecnologia usata, è la stessa che abbiamo utilizzato per la realizzazione dei tentacoli di Hank di Alla ricerca di Dory».

Nel 2013, Coco fu al centro di una controversia relativa alla registrazione, come marchio commerciale, da parte della Walt Disney Company della frase Dia de los Muertos. La comunità messicana negli Stati Uniti non tardò a manifestare il disaccordo, convinta che si trattasse di appropriazione indebita, da parte della Disney, di usi e tradizioni messicane. Lee Unkrich ha ricordato l'accaduto: «Dia de los Muertos è stato uno dei primi titoli che abbiamo preso in considerazione per il film. Poi, a seguito dell'episodio con la comunità latina, ci siamo affranti molto e abbiamo cercato altre strade da percorrere. Tutto ciò, però, ha finito per dare un effetto positivo alla realizzazione. Abbiamo ingaggiati altri esperti e consulenti che, alla fine, probabilmente, ci hanno reso possibile realizzare un film migliore di quello che avevamo in mente».

Coco, diretto da Lee Unkrich e distribuito da Walt Disney Studios Motion Pictures, arriverà nelle sale italiane dal 28 Dicembre. Il nostro consiglio è quello di affollare completamente i cinema!

sabato 18 novembre 2017

GLI SDRAIATI

di Matteo Marescalco

Chi sono gli sdraiati? Adolescenti che guardano il mondo dal punto di vista del divano di casa loro, alternando lo sguardo su smartphone, diventato a tutti gli effetti un prolungamento corporeo, e tv. Tito, il figlio di Giorgio Selva, è uno sdraiato. Lui e i suoi amici (la banda dei froci) sono alti, grassi, puzzano, si raccontano balle e stanno sempre insieme, da scuola al divano fino al letto. Finchè non irrompe Alice, la nuova compagna di classe, che spezza la quotidianità dei ragazzi e di cui Tito finisce per innamorasi. Giorgio Selva è uno stimato volto della tv pubblica, conduce un programma di approfondimento e vive con il figlio in un'area ipermoderna di Milano, all'interno di un grattacielo che è un po' il suo rifugio in cui nascondersi. Ha un suocero che adora, un figlio che non lo considera (Tito), una ex moglie giornalista che non incontra da anni, una ex domestica con cui, 17 anni prima, ha avuto una relazione extraconiugale e la banda dei froci che, insieme a Tito, gli rende le giornate infernali.

Gli sdraiati è anche il titolo del libro di Michele Serra, pubblicato nel 2013 da Feltrinelli Editore, da cui Francesca Archibugi e Francesco Piccolo hanno tratto questo film. Lo sguardo della regista alterna punti di vista diversi, osservando le ragioni che spingono Giorgio Selva a sentirsi un padre escluso dalla vita del figlio e quelle che caratterizzano l'atteggiamento di Tito, in cerca di maggiore libertà ed indipendenza. Il problema nel rapporto tra i gruppi di personaggi di età diversa risiede nella povertà di immaginario e di soluzioni creative che la regista e lo sceneggiatore propongono. Gli adulti sono tutti pezzi grossi dei media o della vita intellettuale italiana (la vita dei pochi proletari presenti viene trattata in modo esageratamente didascalico); i ragazzi, dal canto loro, si muovono tutti in bici e presentano atteggiamenti ai limiti della sopportabilità, all'interno di quel cantuccio sicuro che è offerto loro dalla ricchezza dei genitori. Tutto sommato, si poteva cercare un approccio che si allontanasse dalla superficie opaca dello stereotipo e che attingesse al materiale di partenza in modo diverso.

Nel mosaico di personaggi che popolano Gli sdraiati, un gigantesco punto interrogativo riguarda
Antonia Truppo, costantemente sopra le righe nell'interpretare la domestica trapiantata al nord che riveste un ruolo fondamentale nell'economia dello sviluppo narrativo del film. Il mondo in cui si muove la Archibugi è un ben preciso universo radical chic popolato da ragazzini menefreghisti e genitori che consentono loro ogni comportamento, anche il più esagerato, tra appartamenti affollati di libri, piscine al coperto, vigneti e ville vista mare. Il ritratto generazionale non funziona perché ogni elemento portato in scena è spinto al parossismo finendo per privare il pubblico del piacere della condivisione di sensazioni con i personaggi, figurine monodimensionali prive di umanità e che stancano dopo pochi minuti.

mercoledì 15 novembre 2017

JUSTICE LEAGUE: LA TRISTE PERFEZIONE DEL BATMAN DI BEN AFFLECK

di Matteo Marescalco

*recensione pubblicata per Sensi di Cinema

Chi vi scrive ha trascorso la propria giovane vita alle prese con una mamma innamorata di Ben Affleck. E come criticarla?! Mascella volitiva e fisico da quarterback, Affleck ha attraversato da protagonista, nel bene e nel male, gli anni 2000. Armageddon, Shakespeare in Love, Bounce, Pearl Harbor, Daredevil, Amore estremo, Hollywoodland sono le tessere che hanno contribuito a costruire quel gigantesco mosaico fatto di odio e amore/fallimenti e vittorie nei confronti di un attore che ha sempre dato l'impressione di avere un talento particolare nell'inimicarsi i pareri della critica che, a sua volta, gli ha spesso riservato il fondo di un oceano viscoso e particolarmente oscuro difficile da risalire. Come non provare affetto per quel mascellone dalla stazza titanica che incappava in film il più delle volte dalla discutibile qualità? Sguardo perso nel vuoto e bocca semiaperta, Ben Affleck ha sempre dato l'impressione di mettercela tutta ma di non riuscire a raggiungere esiti soddisfacenti nell'arte della recitazione.
Fino alla rinascita del 2007 con Gone baby gone e i successivi The Town e Argo che lo porta al secondo Oscar (La legge della notte è stato un totale flop nel mondo, emblema chiarissimo dello sfortunato destino del suo autore). E giù con complimenti, processi di redenzione ed il «Ma quindi non era lui lo scemo della coppia Ben Affleck-Matt Damon!».

Tutto questo preambolo dalla parvenza inutile, in realtà, serve per giustificare l'affetto smisurato che chi scrive prova per il regista/attore americano ed un concetto che innerva il pezzo critico: non esiste miglior Batman di Ben Affleck.
Nessuno meglio di lui è stato in grado di portare sulle sue spalle il peso di un progetto (il DC
Extended Universe) nato nel 2013 con Man of Steel (lo stesso anno in cui è stato dato l'annuncio che il Batman post-Christian Bale sarebbe stato interpretato proprio da Affleck) per rincorrere i successi al botteghino del Marvel Cinematic Universe (omologato su un unico tono ma, quanto meno, ben più solido sul versante produttivo rispetto al colpo di coda finale del team DC). Zack Snyder è stato garante di un'operazione sbilenca, una corsa contro il tempo che ha dato linfa vitale ad un nuovo modo di concepire il blockbuster supereroistico, lontano dal mediocre appiattimento della Marvel, e più vicino ad una concezione autoriale dell'operazione: lo sguardo di Snyder è totalitario sui primi quattro film alla base dell'universo condiviso, rispecchia il suo modo di concepire il cinema come assalto multisensoriale allo spettatore volto a destrutturare l'epica classica di supereroe (e a mettere in scena persino la sua morte). Tutto è andato a buon fine? Non troppo. E quest'ultimo Justice League, primo film totalmente corale del team DC, è la perfetta sintesi degli aspetti più problematici che pendono come una spada di Damocle sul suo capo nonché emblema di ciò che il futuro, molto probabilmente, ci riserverà.

La trama è più che mai lineare: dopo la morte di Superman, la Terra è presa di mira dalla più malvagia forza aliena di sempre, Steppenwolf, che approfitta della sua vulnerabilità provocata dalla fine del figlio di Krypton (la vicenda è lievemente più complessa e tira in ballo concetti quali speranza e paura ma, al momento, non è necessario approfondire). Batman, sempre più stanco del proprio ruolo, mette insieme una straordinaria Lega per contrastare il Male. Wonder Woman, Aquaman, The Flash e Cyborg si uniranno e combatteranno insieme in difesa dell'umanità. 

Il progetto di Justice League è da tempo nell'occhio del ciclone: pochi mesi fa, Zack Snyder, a seguito di un lutto familiare, ha abbandonato la regia del film e ha lasciato la post-produzione e la regia delle riprese aggiuntive a Joss Whedon, celebre papà degli Avengers cinematografici (insomma, JL è passato al nemico). Il film, inizialmente, sarebbe dovuto constare di due parti, ridotte ad una, abbondantemente superiore alla durata di due ore, ulteriormente limate alle due ore. Abbandono di Snyder ed ingresso repentino di Whedon hanno complicato ulteriormente i piani, finendo per rendere Justice League un prodotto ben più omologato dei suoi fratelli maggiori al panorama del blockbuster contemporaneo e manchevole di una compattezza, nonostante la breve durata. Le atmosfere narrative cupe e la magniloquenza tematica sono state abbandonate per cercare un'ibridazione (i punti di vista di Snyder e Whedon sono diversi) che mina la tenuta complessiva del film.

Tuttavia, a maggior ragione, un film così martoriato, con un Ben Affleck in piena terapia riabilitativa
per dipendenza da alcool e reduce dal clamoroso insuccesso di La legge della notte, che  dice, insieme al suo Batman, di non essere più in grado di tenere le redini del gruppo (l'abisso della sua solitudine, del senso di colpa e del rancore non è mai stato così profondo), crea un incredibile cortocircuito tra finzione e realtà ed attesta la perfezione dell'attore americano per quel ruolo. E se il cuore del progetto DC risiedesse proprio nelle crepe che rendono la sua struttura traballante? Nella goffaggine quasi infantile che caratterizza l'ammissione di colpevolezza di Batman? Se fossero proprio i deragliamenti del tessuto produttivo a far tremare l'ossatura ma a mantenerla, allo stesso tempo, viva? Una clamorosa deflagrazione, nella sua imperfezione ben più perfetta di quella dei precedenti episodi, che porta ad una piena coincidenza tra vicende private e pubbliche e dota Justice League di un cuore gigantesco (lo stesso che, a tempi alterni, abbatte Ben Affleck e gli dona nuova vita) difficilmente ravvisabile altrove.

lunedì 13 novembre 2017

BORG MCENROE

di Matteo Marescalco

*recensione pubblicata su Point Blank

«(…) I live my life for the stars that shine. (…) Tonight I'm a rock 'n' roll star. Tonight I'm a rock 'n' roll star», canta, con un certo piacere, dal 1994 Liam Gallagher, co-fondatore degli Oasis, i cattivi ragazzi per eccellenza della musica inglese degli anni '90. 

Per restituire il fulgore della finale di Wimbledon del 5 Luglio 1980, il regista Janus Metz concentra la sua attenzione sul concetto di rock star, un concentrato immortale di demoni interiori e di volontà di apparire e di donarsi ai media, una celebrità “sporca” che detta la moda di un ben preciso tempo storico. Da un lato, c'è Björn Borg, l'iceborg svedese, fascia alla fluente chioma vichinga, sguardo da duro e collanina ad incorniciare il collo e a sfiorare il colletto aperto della polo. Dall'altro, John McEnroe, il super brat americano del tennis, genietto ribelle e precoce, carattere irascibile, carnagione chiara e massa di capelli ricci.  

*continua a leggere su Point Blank: http://www.pointblank.it/recensione/borg-mcenroe/ 

NEMESI

di Matteo Marescalco

*recensione pubblicata su Point Blank

(…) and I always sleep with my guns when you're gone
(…) when I'm all alone the dreaming stops
and I just can't stand


Nel cinema come atto di resistenza e di reincarnazione quale è Nemesi, un fondamentale punto di vibrazione del testo filmico è costituito dalla sequenza (auto-)ripresa dalla microcamera dello smartphone in cui (il fu) Frank Kitchen si rivolge allo spettatore e gli punta contro la pistola, poco prima di abbandonarsi ad un futuro tutto da costruire. «Change is gonna come!». Quindi, probabilmente, non abbiamo ancora sentito/visto niente? 

Tra le nebbie notturne di una luna che non lascia mai posto al sole, Frank Kitchen è un terribile killer a pagamento (incarnato dal corpo di Michelle Rodriguez, sacrificio in difesa dell'universo digitale di Pandora) che popola le confessioni della dottoressa Rachel Jane, ricoverata in un centro psichiatrico ed immobilizzata da una camicia di forza, a cui presta il volto Sigourney Weaver, madre per eccellenza delle contaminazioni post-moderne. Kitchen si aggira come uno spettro. È un fantasma che non lascia tracce e che nessuno ha visto, tanto da far credere all'analista Ralph Galen che si tratti di un mero parto immaginario di Rachel Jane, un semplice transfert delle sue insicurezze private. In realtà, il serial killer ha ucciso il fratello della dottoressa che, per vendicarsi, lo ha sottoposto ad un'operazione di cambiamento di sesso, ri-assegnando il suo ghost ad un nuovo supporto fisico.

*continua a leggere su Point Blank: http://www.pointblank.it/recensione/nemesi/

mercoledì 8 novembre 2017

OGNI TUO RESPIRO

di Matteo Marescalco

Breathe: il costante rumore di sottofondo della narrazione.

Campagna inglese del 1957, campi lunghissimi, la visuale si restringe su una partita di cricket e, progressivamente, sui volti di due giovani: Robin Cavendish e Diana Blacker. Lui è impegnato nel gioco ma la sua attenzione è concentrata più su Diana che su altro; dal canto suo, la giovane Blacker viene descritta da un compagno di gioco di Robin come un'amante scatenata che cambia sempre uomo, una preda decisamente non alla sua portata. I piani sempre più stretti sui volti dei due personaggi principali delineano l'itinerario che sarà intrapreso dal film e che trova perfetto compimento nei rapidi minuti successivi. 

Come in Up, anche in Ogni tuo respiro la relazione tra Cavendish e Blacker viene presentata tramite il montaggio di alcuni momenti fondamentali: il primo bacio, il viaggio in Africa e la dichiarazione d'amore accompagnata dalla proposta di matrimonio. Tutto procede per il verso giusto; la coppia è incredibilmente bella ed affiatata e si trasferisce in Kenya dove Robin lavora alla ricerca di produzioni di tè da lanciare sul mercato inglese.
Alla fine di una partita di tennis, tuttavia, Robin inizia a soffrire di una serie di sintomi che lo condurranno alla paralisi pressoché totale del corpo. La poliomielite lo ha colpito, condannandolo ad un'esistenza bloccato su un letto, alle prese con un respiratore artificiale che scandisce (e determina) la sua vita.

Con queste premesse, favorite dal fatto che la regia fosse del debuttante Andy Serkis (che ha comunque alle spalle la lunga esperienza di direttore della seconda unità della trilogia de Lo Hobbit di Peter Jackson), l'idea del biopic inondato di sentimentalismo e di buone intenzioni più che un'ipotesi sembrava realtà. E, invece, Ogni tuo respiro è un prodotto magistrale in cui la scansione del racconto è costruita su una trama principale coadiuvata da una serie di sottotrame che forniscono il pretesto per conoscere meglio i protagonisti della vicenda ma, soprattutto, per tenere vigile l'attenzione dello spettatore. Al di là del quesito principale («Riuscirà Robin a condurre una vita degna di essere vissuta o, quanto meno, a superare il limite previsto dal medico che lo ha in cura?»), il racconto ne sviluppa altri paralleli che ne ossigenano la spina dorsale. Si riflette sulla questione dell'autodeterminazione dei malati, sul diritto all'eutanasia e sul testamento biologico, sulla battaglia di un amore che ha resistito nonostante tutte le avversità.

Ogni sequenza è costruita su un abile bilanciamento delle immagini (la cui successione è basata sul classico principio causa-effetto) ma, soprattutto, su un intelligente sviluppo dei desideri e delle necessità dei personaggi, cuore pulsante del film. Dietro l'attenzione formale, si nasconde un rumore onnipresente, quello del respiratore artificiale, che puntella ogni sequenza. Sembra quasi di poter ascoltare il respiro autonomo del film, il movimento incessante della sua anima. La collocazione dei punti di svolta è attenta alle dinamiche di sviluppo dei protagonisti, che compiono un buon arco di trasformazione e si trovano ad affrontare, di volta in volta, problemi che necessitano un maggiore sforzo.

A pensarci bene, potrebbe non esserci stato regista più adatto di Andy Serkis a dirigere questa storia. L'essere umano dietro King Kong, Gollum e Cesare, gli esseri sintetici più famosi del cinema contemporaneo. L'analogico alla base del digitale. Il fattore umano in grado di dare linfa vitale ad un racconto altrimenti schiacciato su banali stereotipi.