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lunedì 25 gennaio 2016

JOY

di Emanuele Paglialonga

Squadra che vince non si cambia

A tre anni dall’uscita in sala di American Hustle, David O. Russell fa il suo ritorno con Joy, biopic incentrato sulla figura di Joy Mangano, l’inventrice della Miracle Mop (per gli amici, mocio), e lo fa affidandosi a un cast già ben rodato nei precedenti Silver Linings Playbook e, appunto, American Hustle: Jennifer Lawrence, Robert De Niro e Bradley Cooper. Più una piacevole new entry: Isabella Rossellini.
Ispirato da storie vere di donne audaci, come si legge all’inizio, il film narra le difficoltà che la Mangano dovette affrontare per imporre sul mercato (e alla propria famiglia) la sua invenzione, un mocio dinamico e maneggevole utile a tutte le casalinghe degli Stati Uniti e non.

Candidato a tre Premi Oscar (Miglior Film, Migliore Sceneggiatura Originale e Miglior Attrice Protagonista a Jennifer Lawrence), Joy ha prima di tutto un grande merito, quello di aver dato vita a una coppia, Isabella Rossellini e Robert De Niro, che veder recitare assieme sul grande schermo è puro piacere. Il secondo merito deriva dal primo: il regista di questo e degli altri film sopra elencati sta utilizzando il De Niro nell’ultima fase della sua carriera se non degnamente, di sicuro meglio di tanti altri fabbricanti di rom-com da due soldi.
Anche stavolta, quindi, il lavoro di Russell è ben confezionato, ma una spada di Damocle pende sul capo di questo prodotto: Joy è magistralmente cucito addosso alla Lawrence, che fa suo personaggio e film. La Mangano della Lawrence ha infatti carattere e grinta, e non è difficile immaginare che l’attrice riuscirà a portare a casa per questo ruolo, oltre al Golden Globe vinto poche settimane fa, anche la statuetta dell’Academy (che sarebbe la seconda, dopo la prima vinta nel 2013 per Il Lato Positivo).

Si è detto prima spada di Damocle; lo si è detto per il seguente motivo: quanto ha inciso sul film la presenza della Lawrence?  Il problema di Russell, a lungo andare, potrebbe diventare infatti questo, concentrarsi troppo sugli attori -cosa sacrosanta, intendiamoci, il suo lavoro di direzione degli attori è ottimo-  col rischio, però, di perdere per strada pezzi di storia.
Squadra che vince non si cambia, e fin qui ci siamo (Lawrence – De Niro – Cooper è un trio delle meraviglie ormai), ma che ci si ricordi anche il campo dove si fanno giocare questi pezzi da 90.
Vale dunque la pena vedere questo film? Più sì che no. La parola, però, spetterà al pubblico, che potrà vederlo in Italia a partire dal 28 gennaio, mentre, in America, è stato invece distribuito a partire dal giorno di Natale 2015.

venerdì 22 gennaio 2016

THE PILLS-SEMPRE MEGLIO CHE LAVORARE

di Matteo Marescalco

Due soli spettatori in sala sono una quantità davvero grama anche per lo spettacolo delle 18:30 del giorno di debutto in un multisala (l'unico) di Siracusa.
Attendevamo con ansia il debutto dei The Pills al cinema, dopo anni di comicità scriteriata e di ironia grottesca, ai limiti del non sense. Il trio romano è noto al grande pubblico per aver realizzato (e caricato su YouTube) due stagioni di web series sul mondo di tre giovani laureati che trascorrono il tempo intorno ad un tavolo, nel sicuro cantuccio bianco e nero del loro appartamento di Roma Sud, a cazzeggiare ed impegnare le loro menti in discorsi assurdi e surreali.
Con Pietro Valsecchi a garantire (e scommettere) e Luca Vecchi a dirigere, i The Pills sperimentano il linguaggio del cinema.

Luca, Luigi e Matteo sono tre ragazzi alle prese con la crisi dei 30 anni. Luigi reagisce provando a rivivere episodi di vita adolescenziale, occupa il liceo e si ostina ad ubriacarsi nonostante il fisico non lo accompagni. Matteo è alle prese con le velleità artistiche del padre, un 50enne che posta foto su Instagram e tenta la fortuna a Berlino. Luca, last but not least, è l'unico che, spinto da una ragazza, prova a lavorare. E ci resta secco, venendo meno ad una promessa fatta con i due amici in giovane età che si trovano costretti a far qualcosa per salvarlo dalla terribile spirale del lavoro.

-Una vita con la sveglia alle 7:30 non merita di essere vissuta!-.
Sempre meglio che lavorare parte dal tormentone della nostra epoca che caratterizza il punto di vista di molti giovani (disorientati, a dire di alcuni) -non c'è lavoro per i giovani- e lo ribalta in chiave comica -fuggiamo dal lavoro-. Attorno a questo assunto, il trio romano costruisce una serie di sketch in cui vengono riprodotte le dinamiche di molti loro lavori online ma che, nel frattempo, Vecchi, Di Capua e Corradini provano ad organizzare in forma di racconto, dotandoli della compattezza tipica delle narrazioni cinematografiche. Purtroppo, il punto debole del film risiede proprio in questo aspetto. Le dinamiche frammentate del web dominano la maggior parte del lungometraggio che finisce per essere poco coeso e molto sfilacciato. E' solo la seconda parte, costruita in maniera preponderante sulle vicende lavorative di Luca, a giustificare l'espediente del gioco cromatico tra colori e bianco e nero, e a donare al film una certa scorrevolezza che manca durante la prima ora.

Il linguaggio episodico rischia di annoiare il grande pubblico poco abituato allo stile web dei The Pills, che non si adatta del tutto al cinema. Gli stessi protagonisti, ad eccezione di Vecchi, non sembrano essere completamente a loro agio, appesantiti, forse, dalle forti aspettative del loro pubblico e, ovviamente, dalle loro stesse responsabilità.
Peccato per questo parziale fallimento. Nonostante la buona regia di Vecchi, le numerose citazioni (forme ludiche che, tuttavia, il racconto non riesce ad equilibrare), ed alcune brillanti trovate, tra cui quella dei tre protagonisti bambini e, come già detto, del gioco cromatico in cui il bianco e nero identifica il fancazzista (ma amaro e malinconico) angoletto fuori dal tempo.
Sempre meglio che lavorare regala diversi momenti ben orchestrati ma, definitivamente, perde l'immediatezza e la freschezza degli sketch web. Insomma, vi diamo un consiglio: andate a vederlo ma concentratevi sulle due stagioni della web serie. Quella sì che è de Cristo. De Cristo, zì!

THE END OF THE TOUR

di Matteo Marescalco

Nella storia del cinema, i rapporti con il mondo della letteratura non sono mai stati relegati a momenti collaterali e di scarso interesse. Anzi, nei tempi in cui il cinema si affermava come grande strumento di intrattenimento di massa e cercava di essere riconosciuto come arte, la trasposizione di classici letterari era uno strumento utilizzato che, da un lato, segnava il suo ruolo di subordinazione nei confronti della letteratura ma che, dall'altro, gli consentiva, come detto, di mirare ad un certo riconoscimento formale.

Così come sono molto numerosi i casi di trasposizione letteraria, allo stesso modo, i biopic su scrittori e letterati (e i film che incastrano biopic e trasposizioni come, ad esempio, Shakespeare in Love) si sono affermati come un genere a sé stante, in cui The end of the tour si inserisce prepotentemente. Questo film di James Ponsoldt è tratto da Come diventare se stessi: un viaggio con David Foster Wallace di David Lipski, cronaca degli ultimi giorni del tour di presentazione negli Stati Uniti di Infinite Jest.
1996, lo scrittore David Foster Wallace concede a David Lipski di Rolling Stone un'intervista di cinque giorni. Lipski non si occupa solo di giornalismo ma anche di narrativa e nutre una serie di pregiudizi ideologici nei confronti dell'autore americano. Ma anche una buona dose di sana invidia per la sua genialità. La convivenza tra i due trasporta lo spettatore nel mondo privato di Wallace, quanto più distante possibile dall'idea di scrittore maledetto dedito ad una vita dissoluta. Anche se una serie di incertezze Wallace le portava con sé: al punto tale da morire suicida nel 2008.

The end of the tour è un malinconico viaggio in luoghi intimi che stentiamo ad abbandonare dopo le due ore del lungometraggio, una scoperta del lato più umano di sé, un dialogo, fatto di botte e risposte, sulla vita e sulla cultura americana, sulle dipendenze e sulle manie di Wallace, sulle sue debolezze e fragilità.
Ponsoldt sfrutta il contrasto tra il gelido panorama esterno, costantemente innevato, ed il tiepido cantuccio domestico in cui viveva Wallace per delineare lo scontro tra due caratteri e due vite agli antipodi ma che finiscono per specchiarsi. Debitore nei confronti della scuola del Sundance, che tanti talenti ha sfornato, nel corso degli anni, ma che, ultimamente, rischia di chiudersi in una sorta di autoreferenzialità che ne mina la freschezza dello stile, il regista costruisce un affresco sensibile che ha il suo centro focale nella partita a scacchi tra due differenti solitudini e nella critica al materialismo americano che ha tanto caratterizzato la scrittura di Wallace.

-Lo scrittore deve vivere poco. Piuttosto, deve saper osservare. Siamo, più che altro, dei voyeur. Lo scrittore non è quello che balla al centro della pista, ma più l'osservatore ai margini, quello che nota le dinamiche immerso in un timido silenzio-.
Non perdete questo delicato ritratto di uno scrittore ai margini della pista.

lunedì 11 gennaio 2016

LA CORRISPONDENZA

di Emanuele Paglialonga

A tre anni da La migliore offerta, il premio Oscar per Nuovo Cinema Paradiso ritorna in sala sfidando, a suo rischio e pericolo, l’uragano Zalone, arrivato, al momento in cui questo articolo viene scritto, a quota 50 milioni in soli 11 giorni.

La corrispondenza, per chi non l’avesse ancora capito, è il nuovo lavoro di Giuseppe Peppuccio Tornatore; il film racconta la storia di una studentessa universitaria (Olga Kurylenko) che intrattiene una misteriosa corrispondenza col professore di astrofisica (Jeremy Irons)  di cui è perdutamente innamorata. Lettere, ma anche conversazioni via Skype, videomessaggi preregistrati, masterizzati e spediti per posta alla ragazza. I due si tengono in stretto contatto. Il problema è che il contatto reale non c’è, è solo telematico, con la studentessa che cerca sempre più disperatamente di raggiungere il suo evanescente spasimante.
E per quel che riguarda la trama, non ci è dato dilungarci oltre: il consiglio è comunque quello di vederlo al cinema.

Per cui, senza troppi giri di parole, è bene per tutti andare subito al sodo: l’idea del film è ottima, ma viene buttata via. Tornatore con La corrispondenza ha battuto una strada pressoché inesplorata finora, ma anziché attraversarla con sicurezza, con una bella macchina che sfreccia via veloce, ha preferito attraversarla a piedi e godersi con calma il paesaggio: grave errore. Il soggetto alla base di questa storia è potente, e poco ci vorrà che Hollywood non ne compri i diritti per realizzarne un remake con tutte le carte giuste che Tornatore non ha saputo giocarsi.

Intendiamoci: La corrispondenza non è un film brutto: tutt’altro. Irons e la Kurylenko sono bravi, la fotografia è ottima, e non dimentichiamoci che le musiche sono a opera del Maestro Ennio Morricone (fresco fresco di Golden Globe per la colonna sonora di The Hateful Eight di Tarantino, in uscita a febbraio). L’unico problema è a livello di scrittura: ottimi ingredienti impastati male.
Servivano un po' più di pathos e di tensione: l’unica svolta significativa della trama viene svelata dopo neanche venti minuti!

Dichiara Tornatore nelle note di regia: «La corrispondenza (...) vent’anni fa si sarebbe potuto classificare come una storia di fantascienza, l’intreccio poteva sembrare qualcosa al di fuori del mondo. Ma oggi no, perché tutto ciò che vi si racconta è assolutamente realistico. (...) L’idea del film (...) originariamente prevedeva un protagonista maschile e diversi personaggi femminili, ma non mi persuadeva del tutto, e continuavo a tenerla chiusa nel cassetto. In seguito ho ritenuto di rimodellare la storia solo su due personaggi, un uomo e una donna».
Forse se avesse lasciato decantare ancora un po' come un vino pregiato l’idea e la storia, sarebbe venuto qualcosa di diverso. Ritenta, sarai più fortunato.

venerdì 8 gennaio 2016

2015 AL CINEMA: TIRIAMO LE SOMME

di Matteo Marescalco

E' di pochi giorni fa la notizia del rilancio in commercio, da parte della Kodak, del formato Super 8 che ha fatto la storia dei filmini privati anni '60 e '70 ed è stato recentemente omaggiato da J. J. Abrams nell'omonimo film.
Questa notizia sembra chiudere perfettamente il 2015, annata caratterizzata da una forte nostalgia che ha colpito più di un prodotto hollywoodiano (e non solo).
Tra gli ultimi, Star Wars VII-Il risveglio della forza, concepito da J. J. Abrams come rilancio del franchise che ha visto la luce nel lontano 1977 e che si è radicato nell'immaginario collettivo, attestandosi con la forza di una mitologia moderna.
A Giugno, Colin Trevorrow (noto tra i cinefili del mondo per Safety not guaranteed, film indie sui viaggi nel tempo) ha portato sullo schermo il quarto episodio della serie cinematografica di Jurassic Park, uno dei primi film a sfruttare, nel 1993, la nascente CGI e a convincere i registi hollywoodiani sull'importanza del merchandising connesso ai personaggi del grande schermo.

Insomma, il 2015 ha portato al cinema i sequel/reboot di miti moderni che hanno segnato gli ultimi trent'anni. Desiderio di semplici incassi o qualcosa di meno semplice e più profondo?
In un recente articolo apparso su Sentieri Selvaggi (nello stesso periodo di uscita di Francofonia di Aleksandr Sokurov, opera sul valore testimoniale dei musei), Pietro Masciullo ha effettuato una riflessione sul consumo di immagini in epoca contemporanea e sul valore assunto dalla sala cinematografica, a partire dalle ri-uscite in sala in Italia negli ultimi tre anni. Cosa emerge?
«Riproiettare film restaurati, che godevano già di un grosso appeal popolare, ha una valenza quasi antropologica: un rito collettivo che si rinnova. (…) Una domanda sorge spontanea: la Sala sta diventando un'altra cosa? Sta diventando, piano piano, un bellissimo e costoso Museo dove si espone la storia del Cinema(...)?».

Tra i prodotti extra-Hollywood che più ci hanno convinto, un posto di primo piano spetta a Microbe & Gasoil di Michel Gondry, presentato all'ultima edizione della Festa del Cinema di Roma. Deriva onirica truffautiana sull'adolescenza di due stralunati protagonisti che danzano nelle acque amniotiche dell'artigianalità (delle creazioni) del cinema dei primordi e che seppelliscono lo smartphone, letteralmente, sotto la loro merda.
While we're young di Noah Baumbach si interroga sullo scontro generazionale tra quarantenni e ventenni e sui rapporti tra componenti della classe borghese newyorkese partendo dal pretesto dei canoni del cinema documentaristico: assoluta onestà intellettuale o inquinamento postmoderno di materiale esistente? Tra VHS e vinili, dvd e smartphone, il cantore delle famiglie americane disfunzionali ci immerge in un'epoca che non esiste più. E, forse, è un bene che non esista più.
Anche la vetta del cinema italiano del 2015, Mia madre di Nanni Moretti, è un cortocircuito che connette emozioni reali e finzione cinematografica. Il regista di Brunico dirige il dodicesimo atto del suo percorso autobiografico e volge lo sguardo al passato con una promessa: defilarsi, sperando in un ritorno alla realtà, ormai impossibile da cogliere.

E ancora, Inside out di Pete Docter, Inherent Vice di Paul Thomas Anderson ed il binomio It follows di David Robert Mitchell/The visit di M. Night Shyamalan. Rispettivamente, il primo è un lungo viaggio nella mente umana che applica metodi industriali e da catena di montaggio all'immaginario ed alla struttura mentale. Il secondo è il film-malinconia della stagione: il detective Sportello, vittima dei fumi allucinogeni di un'epoca che ha confuso slanci incontrollati ed illusioni perdute, indaga su un caso che cela il totale fallimento morale di un'intera nazione. Infine, i due horror riflettono su una paura primordiale, trattando l'orrore come un virus che si diffonde lentamente e mette radici nei corpi di singoli individui (L'invasione degli ultracorpi è dietro l'angolo).

Dove va il Cinema?
Una cosa è certa. Ancora non abbiamo sentito/visto niente!

giovedì 7 gennaio 2016

JOAQUIN PHOENIX: TI AMO. MA UN PO' TI ODIO.

di Matteo Marescalco

Odio ed amo Joaquin Phoenix.
Lo odio perché riduce a zero la mia autostima.
Lo amo perché è l'unico in grado di dire ad Anselma Dell'Olio: «Yeah, zia, ti amo». (Ci vuole fegato).

Citazioni filosofiche (e alcool) alla mano, riesce a rendere sexy un ordinario professore di provincia con capelli leccati all'indietro e pancetta che emerge con prepotenza sotto polo e camicie. Connotati che non intaccano minimamente il fascino che l'attore sprigiona in ogni inquadratura dell'opus n. 45 di Woody Allen.
Antidivo che ha fatto dell'insofferenza alle telecamere e ai giornalisti, del suo odio verso i blockbuster, del carattere stralunato, dell'impegno civile e della malinconia, connotazioni fondamentali del proprio personaggio pubblico.

Malinconia ed amori tormentati sono aspetti che hanno segnato i ruoli interpretati dall'attore in molte pellicole.
Non sorprende osservare le assonanze visive tra Malinconia di Edvard Munch ed alcuni frame di Two Lovers, dramma d'amore che riflette la vita di Joaquin Phoenix. Al suo attivo ha Liv Tyler e Anna Paquin come fidanzate storiche e, da poco, ha perso la testa per una ventenne ossigenata. Nulla che lasci trapelare il desiderio dell'attore di mettere la testa a posto nonostante le numerose difficoltà incontrate nella vita.
Di cicatrici ne ha, eccome, Joaquin Phoenix. Quella sul labbro superiore sembra non sia dovuta ad un intervento per correggere il labbro leporino ma ad una malformazione congenita.
La vita gliene ha inflitte di più profonde (ed apparentemente invisibili). Il 31 Ottobre 1993, al Viper Room di Johnny Depp, Joaquin ha visto il fratello River morirgli tra le braccia per overdose. A nulla valsero le telefonate al 911, mandate poi in onda da tutti i media statunitensi se non al suo allontanamento da Hollywood, per una pausa di riflessione.
Il destino, poi, lo priva di altri suoi familiari quando da gestore di un locale privilegiato per i traffici commerciali della mafia russa, perde il padre poliziotto e vede il fratello mettere a rischio la sua vita per lui. Un cortocircuito è in atto.
O quando i genitori della sua ex fidanzata lo allontanano, condannandolo all'eterno baratro del buio, dimensione prediletta dallo sguardo glaciale di Phoenix, che appartiene alle più oscure tenebre della notte. Ma, nonostante tutto, he's still here.

Nella carriera del figlio di due figli dei fiori, c'è anche spazio per il grande inganno: «I'm still real»
o «Sono l'incarnazione di un'autoparodia del cazzo?».
«Mi sento intrappolato in questa fottutissima e ridicola prigione autoinflitta della caratterizzazione. Non so cosa sia venuto prima, se il fatto che mi abbiano definito emotivo, intenso e complicato oppure se lo fossi davvero e se semplicemente lo manifestassi. Una volta che hanno accettato queste caratteristiche, ho iniziato a dare loro quello che mi chiedevano. In un certo senso ne ho approfittato e un po' me ne vergogno. Non voglio più interpretare il personaggio di Joaquin. Voglio essere me stesso. Ecco perché sto facendo questo documentario». La risposta è da rintracciare in un'immersione nelle acque amniotiche per rinsaldare quei legami familiari che tanto sono mancati all'attore americano.

Idiosincratico, timido, carismatico e misterioso, sempre in preda alle più svariate passioni, Joaquin Phoenix ha dato vita a personaggi irrazionali e debordanti come nessun altro. Sguardo di ghiaccio e labbro imperfetto, Phoenix sta bene in ogni aspetto: con o senza barba, con baffi che tengono a bada il gelo che emana con lo sguardo, con lunghe basette ad incorniciare il volto. Piace perché è il passionale della porta accanto che nasconde un segreto, il malinconico anti-sistema che difende i diritti degli animali e vive una noiosa quotidianità. Insomma, è una persona qualsiasi. Forse.

Amo ed odio Joaquin Phoenix.
Lo amo perché riduce a zero la mia autostima (e ce ne vuole).
Lo odio perché è l'unico in grado di dire ad Anselma Dell'Olio: «Yeah, zia, ti amo!». Nessuno gli crede.