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mercoledì 31 maggio 2017

WONDER WOMAN

di Matteo Marescalco

Dove eravamo rimasti? 

Nel DC Extended Universe di Zack Snyder, Dio è morto e Cristo si è fatto Uomo, tra eccessi barocchi che riescono a far convivere, nonostante la contrapposizione, formalismo e realismo più estremi. Stavolta, tocca a Diana Prince scendere in campo e a noi spettatori assistere alla sua genesi (Diana, come il Clark Kent di Man of Steel, non è ancora Wonder Woman, non si è affermata come simbolo). Dopo un prologo ambientato a Themyscira, isola nascosta da Zeus ai confini del mondo per proteggere le Amazzoni dal mondo corrotto degli uomini, Diana Prince intraprende il suo percorso di educazione sentimentale. 

Detonatore della vicenda? Il pilota americano Steve Trevor che, precipitato in mare con il suo aereo, viene soccorso dalla figlia della regina delle Amazzoni. Il grande conflitto che, secondo il racconto di Steve, imperversa in tutto il mondo potrebbe essere orchestrato da Ares, Dio della Guerra. Cosa fare? Assumere un atteggiamento distaccato o scendere, ancora una volta, sulla Terra e sporcarsi le mani a causa della corruzione e delle passioni umane?

Una lieve precisazione è necessaria: Wonder Woman segna un cambio di rotta nel mondo degli adattamenti DC, contraddistintisi, finora, per il tono serioso e fortemente drammatico, contrapposto all'atteggiamento superficiale e giocoso degli eroi Marvel. Batman e Superman sono personaggi crepuscolari, divinità in terra, alle prese con il loro personale inferno, due solitudini reiette respinte ed accusate dal mondo che, probabilmente, non sente la necessità della loro presenza. Capelli bianchi e rughe ben visibili, Ben Affleck è stato un perfetto Bruce Wayne, perseguitato da terribili incubi fussliani, in crisi di identità in un mondo in cui gli dei sono stati destituiti del loro "mitologico" potere. La Themyscira delle Amazzoni, invece, è un mondo naif e puro. La verginità regna sovrana tra le leggendarie guerriere, che si nutrono di racconti mitologici sulla cosmogonia divina (ricreati in un'animazione digitale che esalta il senso plastico dei corpi protagonisti) e di reciproco affiatamento. Diversa consistenza avrà la seconda parte del film, pur perseguendo una linearità di racconto finora sconosciuta ai precedenti adattamenti del DC Extended Universe. La vicenda è ambientata durante la Prima Guerra Mondiale ed è alimentata da una serie di misunderstandings provocati da un personaggio inserito in un contesto diverso da quello di appartenenza. Diana è un essere puro che si troverà a lottare, innanzitutto, per comprendere la propria identità.

Il mondo degli esseri umani è diverso dall'isola di Themyscira, probabilmente non è più in grado di ascoltare e di credere. Le leggende e le mitologie sono ben lontane dal clima di terrore e di disperazione che regna durante la Grande Guerra. Ecco che, nonostante tutte le debolezze legate alla trama e la tensione pressochè assente, Wonder Woman è come la sua protagonista: ingenuo ma affascinante, candido e corposo, un cortocircuito che rischia di precipitare ma a cui affidarsi totalmente, con un senso di fede, stupore e meraviglia che è sempre più difficile trovare in giro.

martedì 23 maggio 2017

PIRATI DEI CARAIBI - LA VENDETTA DI SALAZAR

di Matteo Marescalco

Questo 2017 ci porta in dotazione anche il quinto episodio di una saga che sembrava non avere altro da dire, dopo un deludente quarto episodio. Parliamo di Pirati dei Caraibi, franchise nato nel 2003 (che tanto avrebbe giovato alla carriera di Johnny Depp, decretandone, allo stesso tempo, la morte artistica), e, in particolar modo di La vendetta di Salazar

I primi tre episodi diretti da Gore Verbinski hanno indelebilmente segnato il cinema commerciale, sancendo il ritorno dei pirati sulla pellicola, accompagnati da leggende, racconti popolari, miti, fantasmi e tantissime altre perle (nere). Johnny Depp si trovava ad impersonare un pirata decisamente effeminato e dalla fortissima caratterizzazione slapstick. Il risultato al botteghino è stato considerevole, tanto da favorire la realizzazione di cinque episodi. Alla macchina da presa, dopo la parentesi musicale e stilizzata di Rob Marshall, si sono piazzati i registi norvegesi Joachim Ronning ed Espen Sandberg, al debutto nell'ambito del blockbuster americano. L'esotismo delle ambientazioni piratesche ha sposato la "grandezza" della mitologia nordica o si è mantenuto su binari già noti ed ampiamente percorsi?

Optiamo per la seconda possibilità. Il lavoro dello sceneggiatore riprende lo sviluppo narrativo de La maledizione della prima luna, recuperandone personaggi e modalità legate all'universo del racconto. Sorge spontaneo pensare ad un'operazione che mira a proteggere il franchise in ottica futura, assicurandogli nuovi episodi e nuovi attori principali. Ecco che La vendetta di Salazar somiglia a quanto fatto con Il Risveglio della Forza. Il dubbio che sorge spontaneo riguarda la potenza dei due brand: senza Johnny Depp, la saga di Pirati dei Caraibi funzionerebbe allo stesso modo in cui Star Wars funziona anche senza Harrison Ford, Carrie Fisher e Mark Hamill? 

Paradossalmente, la presenza che convince meno è proprio quella di Johnny Depp/Jack Sparrow, nume tutelare della saga. Le scene che lo vedono protagonista sono costruite su gag fisiche reiterate che fanno ridere lo spettatore del già visto. Un'aria di freschezza, probabilmente, gioverebbe alla saga. Non sappiamo con quali risultati di pubblico. Tuttavia, ci sentiamo di affermare che, osare maggiormente, in ottica futura, potrebbe non essere una mossa sbagliata!

domenica 21 maggio 2017

SICILIAN GHOST STORY

di Matteo Marescalco

*recensione pubblicata per Point Blank

Muschi e spelonche, macerie abusive e rifugi sotterranei, streghe cattive, eroi e principesse. E due rifugi che nascondono Giuseppe, rapito e imprigionato perché figlio di un pentito di mafia. 

La vicenda ha inizio quando la macchina da presa segue i due giovani protagonisti, Luna e Giuseppe, verso un sentiero silvestre. La cronaca criminale viene trasfigurata in fiaba e in mitologia esoterica, popolata da aiutanti e nemici ma, soprattutto, da una ragazzina che sa spingere il proprio sguardo al di là della realtà fenomenica.
«Pegaso è un cavallo alato, guarda la forma della costellazione!»
«Io ci vedo solo quattro stelle»
«Quando guarderai con attenzione, lo vedrai».
 

mercoledì 17 maggio 2017

RITRATTO DI FAMIGLIA CON TEMPESTA

di Matteo Marescalco

Lo scorrere del tempo al cinema non è mai stato così dolce e malinconico come in questo film di Hirokazu Kore'eda

Ryota è un autore dal passato fastoso ma dal presente totalmente fallimentare. Il denaro guadagnato con il successo del suo primo libro è stato completamente scialacquato nelle scommesse, passione che gli è costata il matrimonio con la donna che ama. Ryota è talmente al verde da reinventarsi come investigatore privato per riuscire a versare l'assegno di mantenimento alla moglie e al piccolo figlio. La vita non è andata come immaginava e non tutti diventano quello che volevano essere. Una lunga notte di tempesta costringe i quattro personaggi (Ryota, la moglie, il figlio e la nonna) a condividere lo stesso appartamento fino al giorno seguente. Quale occasione migliore per dirsi quanto negatosi finora ed attutire gli spigoli del presente?

Ritratto di famiglia con tempesta è un film essenziale. Attraversa le due ore di vita con la naturalezza di un qualsiasi evento quotidiano che ci coinvolge e ci stupisce. Kore'eda segue ed esplora minuziosamente i caratteri di ogni personaggio che entra in gioco nel film, sviscerandone le inquietudini e ciò che la vita gli ha sottratto. Ed il flusso del film va avanti, alla ricerca di un tempo perduto, tra malinconia e spirito da commedia. Si ride per le situazioni paradossali cui va incontro Ryota, alle prese con strane investigazioni e pedinamenti vari; ci si commuove per il modo in cui il personaggio principale ha dilapidato i suoi affetti familiari, dandoli in pasto al vizio del gioco che lo ha totalmente inghiottito. La vena comica e leggera non fa da contraltare al tono drammatico di fondo. Le due corde convivono, si mescolano tra loro, in relazione alle dinamiche di una famiglia giapponese che si interroga su se stessa con grazia ed intensità.
 
Ritratto di famiglia con tempesta conferma il cinema di Kore'eda come cinema della quotidianità, alle prese con lo scarto tra illusioni e sogni infantili e cambiamenti irreversibili dell'età adulta, quando si fa i conti con il proprio passato sperando di non restare delusi ma consapevoli del fatto che è quasi impossibile realizzare le aspettative della fanciullezza. E allora, ci si accontenta di giocare al parco con il proprio figlio durante una notte di tempesta alla ricerca di qualcosa che possa ancora fare sognare, dentro un grembo materno in cui cullarci e dormire. E sognare un futuro migliore. Per poi risvegliarci alle prese con l'ordinaria quotidianità, in cui stupore e meraviglia possono, tuttavia, nascondersi dietro qualsiasi angolo.

martedì 16 maggio 2017

SETTE MINUTI DOPO LA MEZZANOTTE

di Matteo Marescalco

*recensione pubblicata per Point Blank

Sette minuti dopo la mezzanotte.

È questa l’ora in cui il Mostro, un gigantesco albero venuto a raccontare tre storie, si presenta a Conor, esigendo da lui un quarto racconto ‹‹sulla cosa più pericolosa di tutte: la verità››. Conor è un dodicenne vittima di bullismo a scuola e costretto a vivere con la nonna, a causa della malattia della madre. La creatura fantastica che il ragazzino invoca per essere aiutato più che per aiutare è un imponente tasso che gli consentirà di sfuggire alla solitudine del suo mondo reale.

C’erano una volta Cleveland Heep e Story, un custode ed una Narf giunta dalle profondità della piscina di un condominio invisibile al mondo, il The Cove, impegnato in un lavoro collettivo sotto forma di una narrazione da costruire. Attraverso la storia (e attraverso Story) si rafforza e si perpetua l’esistenza dei singoli e delle comunità sociali. Il condominio The Cove è un albero sradicato, un libro di fiabe senza destinatario, un uomo invisibile in attesa che si palesi nuovamente il proprio riflesso sulla superficie di una piscina a forma di occhio, ultimo elemento identificativo ed umano in un corpo sintetico.

lunedì 15 maggio 2017

SCAPPA - GET OUT

di Matteo Marescalco

Qualsiasi progetto horror che, negli ultimi anni, ha ottenuto ampi riscontri di pubblico e di critica porta il nome di Jason Blum. La saga di Paranormal Activity, Insidious, Sinister, La notte del giudizio, Ouija, The Visit e Split, a fronte di budget contenuti (compresi tra i 5 e i 9 milioni) hanno realizzato incassi stratosferici (da un minimo di 80 ad un massimo di 270 milioni). Il merito di aver realizzato alcuni dei film con il miglior rapporto costi/ricavi è imputabile ad una precisa strategia produttiva/promozionale/distributiva che vede dei prodotti high-concept (caratterizzati quindi da un'idea lineare e riassumibile in poche parole) a basso budget ma promossi tramite un notevole dispendio economico (il tour promozionale di Split ha toccato ogni angolo del mondo). A fronte di una spesa di produzione di 4,5 milioni di dollari, Scappa-Get Out ha conquistato le platee mondiali, portando a casa finora ben 215 milioni. Altro colpaccio della Blumhouse Productions? Decisamente si!

Chris è un ragazzo di colore che affronta "l'incubo" di qualsiasi ragazzo: conoscere i genitori della ragazza che frequenta da circa 5 mesi. La famiglia borghese vive in una elegante residenza isolata dal resto della città, è di idee progressiste, ha votato Obama alle ultime elezioni ed è pronta ad accogliere Chris. Peccato, però, che mamma e papà non sappiano che il ragazzo è di colore e che si rivelino molto diversi dalle aspettative, a tal punto da trasformare il weekend in un incubo da cui sarà difficile fuggire. 

Scappa-Get Out
è un piccolo horror indipendente diretto da Jordan Peele, noto attore comico americano (e già questa sembrerebbe una contraddizione). Lungo la narrazione lineare ed efficace, venature comiche accompagnano in pianta stabile il clima da thriller claustrofobico che si basa soprattutto sugli ambienti e sulla paranoia dilagante in Chris, provocata dagli strani comportamenti della famiglia della sua ragazza. Il culmine dello straniamento viene raggiunto durante una festa a cui vengono invitate altre coppie borghesi perfettamente bianche. I surreali dialoghi con alcune di loro spingono Chris ad una serie di idee malsane. Tra satira politica ed uno strano razzismo (i neri sono invidiati per la loro prestanza fisica) si dipana la trama di un prodotto che ha nel contrasto tra i corpi apparentemente ripuliti dei suoi interpreti l'aspetto più intrigante. Il meccanismo di genere si basa su una serie di contraddizioni fisiche ed ambientali che prendono in considerazione gli aspetti più subdoli (e per questo più pericolosi del razzismo).
 
Dimenticate il classico horror che terrorizza la sala. Scappa-Get Out segue la strada di The Visit e di Split: spaventare lo spettatore a partire da volti ed ambienti rassicuranti o ironici. Così, il ballo di un ragazzo sulle note di Kanye West, la tranquilla casa dei nonni o, ancora, una perfetta famiglia borghese possono rivelarsi elementi perturbanti più pericolosi di qualsiasi altro oggetto horror classico.   

giovedì 11 maggio 2017

KING ARTHUR-IL POTERE DELLA SPADA

di Matteo Marescalco

Guy Ritchie è uno che ha sempre fatto parlare di sè. Ex marito di Madonna, autore di Snatch, RocknRolla e della rilettura in chiave ultra pop di Sherlock Holmes. Con una personalità del genere, le aspettative attorno a King Arthur-Il potere della spada erano elevate. 

In effetti, possiamo dire che nonostante l'eccessiva frammentazione ed il carattere caotico del racconto, il film funziona anche in virtù di queste scelte che rischierebbero di minarne la compattezza narrativa. Prima di diventare mito, il giovane Arthur cresce come una canaglia nei bassifondi della città, dopo che il malvagio zio Vortigern si è impadronito del trono uccidendo il fratello. La vita di Artù cambia radicalmente quando estrae la leggendaria spada nella roccia. A quel punto, il giovane eroe si troverà costreto ad accettare l'eredità che il destino gli ha assegnato.
 
Dimenticate il classico adattamento fantasy del ciclo arturiano. L'estetica di Guy Ritchie è in grado di fagocitare completamente ogni residuo classico di fondo e di restituire un prodotto fiero di essere commerciale e di presentare Artù come un supereroe protagonista di un'esperienza videoludica. Tra cavalleria ed illegalità, ogni scambio di battuta all'interno del film è orientato a spingere al massimo sul pedale dell'entertainment, perseguendo l'obiettivo di uno spettacolo totale per tutte le due ore di durata. King Arthur, infatti, non rallenta mai ma gioca di continuo sull'effetto attrazione del suo essere.  

L'adattamento funziona proprio in virtù del lavaggio estetico cui è sottoposto. L'arrogante deriva facilita il funzionamento di un prodotto che ha le sue migliori armi nella frammentazione, nella velocità, nell'esagerazione degli effetti speciali e nel suo carattere sincopato. In barba alla noia ed alla lentezza, King Arthur vi regalerà un'esperienza cinetica degna del miglior Zack Snyder.

domenica 7 maggio 2017

ALIEN: COVENANT

di Simone Fabriziani

A 5 anni di distanza da Prometheus arriva in sala il secondo capitolo della serie prequel di Alien, nuova estensione del fruttuoso franchise che, stando alla volontà del regista Ridley Scott, potrebbe addirittura comprendere altri 4 nuovi film. Nel 2012 eravamo a bordo di una nave spaziale, per l'appunto la Prometheus; oggi, invece, siamo sulla Covenant, impegnata in una missione di ricolonizzazione e diretta verso un pianeta che ormai dista solo sette anni di viaggio. Ma qualcosa, improvvisamente, va storto.
 
L'equipaggio della Covenant si trova in stato di sonno criogenico mentre la nave è governata da Walter, un modello di androide simile a David, e da un'intelligenza artificiale chiamata Mother. Un giorno la nave si trova nel mezzo di una tempesta cosmica che provoca seri danni, così Walter e Mother sono costretti a risvegliare l'equipaggio. Nell'incidente muoiono numerosi coloni ed un membro dell'equipaggio, il capitano Branson. La Covenant si ritrova di colpo sotto il comando di un nuovo capitano e mentre tutto l'equipaggio si appresta a sistemare i danni subiti dalla nave prima di tornare al sonno criogenico, viene captato un segnale radio da un pianeta in perfette condizioni, poco distante, tra l'altro, dalla posizione della Covenant. Il cambio di rotta è immediato.
Complice un completo recast che non è stato in grado di sostituire attori del calibro di Noomi Rapace, Charlize Theron e Idris Elba, il film non riesce mai a decollare del tutto. La prima parte scorre lenta; subito dopo l'incidente che ha risvegliato l'equipaggio viene inserita una lunga sezione dedicata al compianto del capitano, il cui unico scopo è quello di farci avvertire il forte senso di famiglia venutosi a creare tra i membri della Covenant ma che finisce per rallentanre inutilmente la narrazione.
 
Nella seconda parte invece arriva l'azione vera e propria e, soprattutto, arrivano gli alieni, per la gioia dei fan della saga e del film stesso, che assume un carattere più scorrevole. Ad essere sacrificate sono le derive horror caratteristiche dell'Alien originale, che avrebbe allontanato il film dalla concezione più commerciale e moderna del termine action movie.
La regia di Scott è priva di particolari guizzi e abbastanza piatta, soprattutto nelle scene d'azione che spesso risultano confuse. Anche la storia, giunti allo scoglio di metà film diventa terribilmente prevedibile, facendo sorgere seri dubbi sul futuro del franchise che forse, già al secondo film, ha esaurito il proprio discorso. Sono queste le principali pecche di Alien: Covenant che contribuiscono a rendere del tutto dimenticabile un film appena godibile.

sabato 6 maggio 2017

SONG TO SONG

di Matteo Marescalco

*pubblicato per Cinema4Stelle

Dopo Sean Penn, Brad Pitt, Jessica Chastain, Christian Bale, Ben Affleck, Natalie Portman, anche Ryan Gosling, Michael Fassbender e Rooney Mara si uniscono al novero di star che, negli ultimi anni ha voluto fortemente partecipare ad un nuovo progetto del regista probabilmente più leggendario del cinema americano contemporaneo: Terrence Malick. Autore di soli 4 film in 32 anni (dal 1973 al 2005), il regista statunitense sta attraversando una fase di particolare intensità creativa: dal 2011 ha, infatti, diretto ben 5 lungometraggi, dando luogo ad una contraddizione con i tempi fortemente dilatati della prima parte della carriera.
In Song to Song, i giovani musicisti BV e Faye cercano il successo ad Austin, entrando in sintonia con Cook, magnate dell'industria musicale e Rhonda, giovane cameriera che, preda della sua ricchezza e delle sue promesse, finirà per sposarlo. Attraverso una costruzione del racconto più elaborata e meno frammentata che si scosta dai suoi precedenti saggi filmici, Malick segue le evoluzioni nel rapporto tra le due coppie, mettendo a fuoco, in particolar modo, le conseguenze della fama e dell'edonismo. Quanto può essere pericolosa la vita nel mondo hollywoodiano o nell'impero musicale? La vacuità del successo ed il rischio della dissolutezza vengono perseguiti attraverso i tradizionali strumenti della messa in scena malickiana: le voice-over, le inquadrature fluide che tallonano i personaggi in preda ad una sorta di reverie, la riflessione filosofica e spirituale, la sensazione di morte e rinascita in ogni singola inquadratura, l'assenza pressochè totale di raccordi, il cui senso è affidato all'allegoria. 

In tal modo, il film meno criptico e più intellegibile segna un'evoluzione nello stile di racconto del regista. Tuttavia, allo stesso modo in cui Song to Song è un ulteriore tassello all'interno di quel gigantesco mosaico dedicato al mondo dell'Amore, dei sentimenti, alla vita in tutta la sua universalità, priva di leggi prestabilite e di gravità, il progetto rischia anche di tracollare su se stesso. Perchè la stanchezza c'è e si avverte. E la flanerie di Song to Song rimane vittima del suo vizio di forma, quello di un cinema che muore sotto la spinta disgregante delle proprie pulsioni che potrebbero essere tutto ma finiscono per essere il nulla. Il narcisismo di Malick crea infiniti percorsi di senso che condannano il proprio cinema ad un overacting, ad una eccessiva stratificazione di significati che ne inficia l'operazione. E l'improvvisazione, la poesia e la bellezza svaniscono, rimangono dei fantasmi che si aggirano pericolosamente senza però trovare un posto in cui risiedere. La volontaria perdita di coordinate si rivela dannosa e controproducente nell'ambito di un cinema che sembra aver fatto della propria poetica un velo dietro cui nascondersi.

venerdì 5 maggio 2017

INSOSPETTABILI SOSPETTI

di Matteo Marescalco

*recensione pubblicata per Point Blank

Dopo esser cresciuto nei corridoi di Scrubs dal 2001 al 2010 ed essere approdato al cinema, nell'ambito di quel cantuccio sicuro che è l'indie americano, curando soggetto, sceneggiatura e regia di La mia vita a Garden State e Wish I Was Here, Zach Braff, al suo terzo film da regista, abbraccia le caotiche dinamiche degli studios. Il debutto istituzionale arriva con Insospettabili sospetti, remake di Vivere alla grande, scritto e diretto da Martin Brest nel 1979.
Michael Caine, Alan Arkin e Morgan Freeman sono tre pensionati accomunati da un'urgenza: quella del denaro. Ad interrompere le loro quiete ma nostalgiche routine quotidiane è l'utilizzo dei loro fondi pensione da parte della banca che li avrebbe dovuti tutelare per coprire un'assicurazione aziendale. Privati dei risparmi di una vita e dei futuri desideri, i tre si trovano a mettere in atto un'idea malsana: rapinare la loro banca per ottenere vendetta.