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domenica 18 gennaio 2015

BIRDMAN OR (THE UNEXPECTED VIRTUE OF IGNORANCE)

di Matteo Marescalco


Due soli piani sequenza (il merito di evitare interruzioni e di favorire l'apparente continuità è del montaggio) bastano ed avanzano al regista messicano Alejandro Gonzalez Inarritu per esaltare vizi e virtù della Hollywood contemporanea. Bagorda, fagocitante, disperante. Eppure terribilmente attraente. Queste sono le sensazioni sulla grande Casa del cinema americano che la terribile ego di Inarritu lascia trasparire dalla sua ultima opera fiume. Centro focale del film sembrano essere, quindi, i fiori del male del mondo dello spettacolo, il fascino debordante ed irresistibile emanato dalla patria del simulacro per eccellenza. 
Protagonista del lungometraggio è Riggan Thompson, star che ha raggiunto il successo planetario nel ruolo di Birdman, supereroe alato e mascherato cui è stata dedicata una trilogia di successo. Riggan, un po' come l'attore che lo impersona (Michael Keaton), è afflitto da un terribile problema: non riesce ad uscire dal personaggio e vuole dimostrare, a tutti i costi, di valere qualcosa al di fuori del supereroe che ha interpretato per tre volte. Ragion per cui decide di cimentarsi con la trasposizione teatrale di un racconto di Rick Carver, Di cosa parliamo quando parliamo d'amore, circondandosi di una crew composta da una serie di personaggi in cerca d'autore (o d'autista, come direbbe qualcun altro). 
Tra Mulholland Drive di David Lynch e Nodo alla gola di Alfred Hitchcock, Synecdoche New York di Philip Kaufman e Venere in pelliccia di Roman Polanski, Birdman è un viaggio nella città dei sogni e nella personalità malata e fragile di un individuo, oggettivazione simbolica di una condizione personale.
La macchina da presa manovrata da Emmanuel Lubezki pedina i personaggi che si muovono senza sosta in questo psicodramma d'autore sul retro di un palcoscenico di Broadway. Il sottofondo martellante di una batteria che continua a suonare imperterrita per tutta la durata del film scardina le loro più profonde convinzioni gettando delle ombre sulla loro intera esistenza. 
Jorge Luis Borges ha definito Quarto potere «un labirinto senza centro», per indicare la molteplicità delle chiavi di lettura applicabili per una esegesi del film di Orson Welles. É proprio la struttura del labirinto ad essere chiamata in causa per una eventuale lettura iconografica di  Birdman. Impossibile che non venga alla memoria anche il giardino-labirinto nel finale di Shining di Stanley Kubrick. Ciò che è in gioco nell'ultimo film di Inarritu, che volta completamente pagina rispetto ai precedenti lavori, è la psiche dei personaggi, intrecciata ad un pot-pourri di argomenti che si alternano senza soluzione di continuità, dalla critica alla società moderna fino alla funzione del critico teatrale e cinematografico, dai social network fino ancora al valore dell'immagine e dell'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica. 
Il maiuscolo Michael Keaton di Birdman, così come il Philip Seymour Hoffman di Synecdoche New
York, è alle prese con un allestimento bigger than life in cui prova a mettere in scena la propria vita. Oltre, però, alla stretta dialettica che si stabiliva tra arte e vita nel film di Kaufman, Inarritu innesta una serie di ulteriori moderni direttamente estrapolati dalla post modernità che ruotano attorno al potere della celebrità e dei simulacri.
Il finale, con il controcampo negato, è l'esempio più fulgido di massima libertà concessa allo spettatore.
Il risultato finale è un lungometraggio ribollente di emozioni, un fiume magmatico saturo di sensazioni, un torrente ridondante che colpisce con una tale forza di lasciare interdetto lo spettatore. Inarritu riesce a fondere le istanze opposte di formalizzazione e di realismo filmico in un'opera che, non ne dubitiamo, sarà ricordata a lungo. 

lunedì 12 gennaio 2015

APPUNTI SEMISERI DI UNO SPETTATORE BISBETICO

di Matteo Marescalco
 
Ieri sera, a Los Angeles, si è svolta la Cerimonia dei Golden Globes. Circa un anno fa, nello stesso periodo, il giorno successivo alla Cerimonia, mi trovavo a difendere strenuamente La grande bellezza di Paolo Sorrentino e «gli incostanti e sparuti sprazzi di bellezza» del cinema italiano, «nascosti», questo si, «sotto il chiacchiericcio e il rumore». La scarica adrenalinica e l'eccitazione derivante dal folle tifo per un film italiano in nomination ha agito, in un certo senso, da anestetizzante ad un mio sguardo attivo. 
Sono rimasto molto colpito, in negativo, da due aspetti dell'evento di stanotte che, allargando il discorso, si potrebbero estendere a, più o meno, qualsiasi premiazione cinematografica americana. 
Sappiamo tutti quanti che non è, nel modo più assoluto, un premio assegnato da un'istituzione, da un'accademia o da una qualsiasi associazione del genere, a stabilire il grado qualitativo di un'opera d'arte o il valore di un singolo artista. Qui ci muoviamo in un campo ben noto, quello della mancata statuetta a Welles e a Lynch, ad Altman e a Scott, dei premi “contentini” dati ad Hitchcock e a Scorsese. E, giù ancora, negli ultimi anni con l'immeritata esclusione di Inside Llewyn Davis e The Master, con Terrence Malick, David Fincher e Roger Deakins continuamente relegati ai margini. 
Non riesco a capire quale sia la causa della puntuale esclusione dei registi indipendenti dalle categorie di Miglior Film e Miglior Regista. Perchè Spike Jonze e il duo Jonathan Dayton/Valerie Faris, Quentin Tarantino e Todd Haynes, Wes Anderson e Jim Jarmusch sono sottoposti ad un sistematico processo di ostracismo che consente loro, al più, di raggiungere la mera nomination per la Migliore Sceneggiatura? Sa tanto di un «Beccateve 'sto Premio e levateve dai cojoni». Per non parlare di Joaquin Phoenix, il miglior attore americano attualmente in circolazione, il più ferino e passionale. Eppure, ogni anno, vede soffiarsi il premio da primi della classe che svolgono il loro compitino alla perfezione interpretando geni colpiti da deficit fisici, presidenti talmente ingombranti ed importanti da non poter non essere premiati o ex uomini-pipistrello a cui basta farsi crescere la panza e pettinarsi con il riporto per ottenere una nomination.
Ebbene, la cerimonia di ieri sera si è rivelata una baracconata, un velo di Maya che nasconde il vuoto più assoluto, un'esibizione di mostri da circo tutti pailettes e sorrisi che, per certi versi, mi ha ricordato molto il concorso di bellezza per aspiranti Miss America di Little Miss Sunshine
A questo punto, sostengo che sia un privilegio che Wes e Paul Thomas Anderson vengano sistematicamente esclusi, penso che Fincher debba considerarsi fortunato a far parte della rosa degli esclusi illustri. Il fatto che Phoenix abbia ricevuto un solo Golden Globe mi sembra una garanzia assoluta del suo valore attoriale. 
Non c'è spazio per loro nel circuito ufficiale che apprezza solo storielle pedagogiche e pseudo-moraleggianti. Se realizzare film blandi o compitini autoreferenziali, inni sottocutanei alla vittoriosa America privi della benchè minima apertura visionaria e livellati verso il basso su tipologie di messa in scena e tematiche classiche fino al becero sembrano essere i presupposti fondamentali per vincere un Premio, miei cari Anderson e Anderson, Lynch e Fincher, Jonze e Tarantino...beh, vi auguro di non vincere alcuna Statuetta realmente importante!

sabato 10 gennaio 2015

EXODUS-DEI E RE

di Egidio Matinata
 
Un film di Ridley Scott. Con Christian Bale, Joel Edgerton, John Turturro, Ben Kingsley, Aaron Paul, Sigourney Weaver, Maria Valverde, Ben Mendelsohn. USA, UK, Spagna. 150 min.

Arriverà nelle sale italiane il 15 gennaio il kolossal biblico di Ridley Scott, accompagnato da tutte le polemiche di cui è stato oggetto durante la fase di lavorazione, le quali hanno influito, in parte, sull’andamento al box-office del film negli Stati Uniti. 
La storia narra le vicende di Mosè e della liberazione del popolo ebreo dalla schiavitù degli egizi. Materia già trattata nella storia del cinema, come ne I dieci comandamenti o nel film d’animazione Il Principe d’Egitto
Nella sua carriera, Ridley Scott è sempre stato abile nel costruire mondi e universi che non avevamo mai visto, come in Alien e Blade Runner, o nel ricostruirli, come ne Il Gladiatore. Torna al cinema, dopo il criticato The Counselor, con un film che ha fatto già storcere il naso a molti. Ed è uno dei pochi casi in cui la massa ha ragione, e non tanto per i motivi che hanno fatto alzare il polverone delle accuse, ma per la realizzazione del film in sè. 
Exodus fallisce nel compito primario che un prodotto del genere si deve prefiggere: produrre e trasmettere epicità. La spettacolarità delle immagini rimane mera carta da parati intorno ad un involucro vuoto. Una colonna sonora anonima si protrae per tutta la vicenda senza emozionare mai il pubblico. Il supporto del 3D poi, più che creare la sensazione di una maggiore profondità, diventa solo la causa di un forte mal di testa. 
Si resta profondamente estranei a tutta la vicenda, senza entrare mai in empatia con i personaggi. Sia per la costruzione di questi ultimi che per la struttura del film. Scegliendo di omettere la parte riguardante la giovinezza dei protagonisti, lo spettatore ha la sensazione che la storia cominci in medias res, aspettando sempre che ci sia qualche flashback che ci mostri qualcosa in più; non perché se ne abbia bisogno (ovviamente tutti conoscono la storia), ma per dare alla vicenda un maggior senso di coesione. La gestione dei personaggi, unita all’uso di attori “sprecati” è uno dei punti più dolenti di tutto il film. John Turturro e Sigourney Weaver vengono utilizzati per pochi minuti, Ben Kingsley risulta impalpabile e Aaron Paul recita quattro o cinque battute per poi rimanere con la stessa espressione dubbiosa e impaurita e con la fronte perennemente aggrottata per il resto del film.   L'ultima fatica di Ridley Scott resterà nella memoria più per il polverone delle polemiche che per il film in sè. Un progetto totalmente sbagliato, dove anche l’unico tentativo di rappresentare qualcosa di nuovo (il Dio/messaggero bambino) lascia totalmente perplessi.

giovedì 8 gennaio 2015

HUNGRY HEARTS

di Matteo Marescalco
 
Interno giorno. Angusta toilette di un ristorante cinese. I due protagonisti si incontrano per la prima volta. La porta d'ingresso del bagno è bloccata e Mina e Jude iniziano a fare conoscenza. Lei è italiana e lavora per l'ambasciata. Lui è statunitense e lavora come ingegnere. Ironizzano, sorridono e si preoccupano. Arrivano i soccorsi che consentono loro di uscire. Stacco netto. Interno giorno. Camera da letto. Mina e Jude si svegliano insieme.
Ancora una volta, il regista Saverio Costanzo effettua la trasposizione di un romanzo. Nel 2010, il figlio d'arte ha tradotto per il grande schermo La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano. Questa volta tocca a Il bambino indaco di Marco Franzoso. Allora, il risultato era stato notevole. Ancora una volta, Costanzo collabora con Alba Rohrwacher e torna in Concorso alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia. Ed, ancora una volta, l'incipit di un suo film è immediato e ben costruito. Lo stacco netto suggerisce allo spettatore il tempo trascorso tra il primo incontro, con annesso il colpo di fulmine, il matrimonio tra i due e l'ingravidamento di Mina.
A differenza, però, dell'attacco de La solitudine dei numeri primi, che colpiva per la potenza orrorifica della rappresentazione teatrale messa in scena da una classe di scuola elementare, sulle favolose note dei Goblin argentiani, l'incipit di Hungry hearts sembra derivare la propria struttura dalla commedia screwball. La Rohrwacher e Adam Driver (il protagonista maschile) discutono amabilmente in uno spazio scenico molto ridotto, rivelando, fondamentalmente, le loro personalità. Entrambi, apparentemente, sembrano aperti e nulla lascia trasparire la drammaticità della situazione che la futura coppia si appresta a vivere.
La nascita del tanto atteso bebè precipita la coppia in un triangolo amoroso malato, in un vortice di colpe, rimpianti e paranoie. L'attenzione alle psicologie dei personaggi comincia ad emergere, e, con essa, Saverio Costanzo analizza quello che risulta essere il centro focale dei suoi lungometraggi: il malessere esistenziale.
Mina è convinta che suo figlio sia speciale ed è decisa a proteggerlo dalle impurità del mondo esterno. Ha detto Costanzo, in conferenza stampa: «Non è che voglio fa' l'americano. É che per raccontare l'isolamento avevo bisogno di una città più violenta delle nostre. Io ho abitato a New York, ho sofferto il suo senso dell'isolamento. Avevo bisogno che Mina combattesse una battaglia contro qualcosa che senti sempre nell'aria. L'ossessione per il cibo. Quella è una città dove se non hai mezzi, non mangi».
Ha inizio, così, un trip, il cui carattere onirico-immaginativo è esaltato dalle musiche di Nicola Piovani e da alcune scelte registiche legate, soprattutto, all'utilizzo del grandangolo che sembra dilatare nettamente lo spazio rappresentato, come frutto dell'ottica distorta di una soggettività malata, che porta la coppia fino alla separazione.
Giocando con gli stilemi dell'horror e riuscendo a gestire e ad utilizzare la contaminazione tra i generi a favore della compattezza del proprio racconto, Costanzo dirige un'opera adatta al mercato internazionale, che si discosta fortemente dal tradizionale film italiano.
Il finale sembra fuoriuscito da una tragedia greca: un deus ex machina irrompe ad equilibrare, nuovamente, la situazione.
In definitiva, Hungry hearts è un dramma familiare, che si concentra sul conflitto tra due anime, tra due cuori affamati di amore, per l'appunto, e che si risolve in un inevitabile vuoto dell'anima. Perchè, «l'amore», per citare Stephen King, «ha i denti; i denti mordono; e i morsi non guariscono mai».

sabato 3 gennaio 2015

L'ASCESA "AL MONTE" DI ALESSANDRO MANNARINO

di Matteo Marescalco

«L'Impero è un grande centro commerciale. L'Impero è un palazzo senza porte e senza scale, così chi sta nel fondo, nel fondo deve rimanere, e, invece, chi sta fuori non ci deve proprio entrare. L'Impero è un palazzo di ferro freddo e cemento. L'Impero è un monumento che copre il sole e ferma il vento (…) Il superprete direttore ha già scritto la Legge. Il lupo farà il pastore e gli uomini faranno il gregge» (Riarrangiamento di Jeaux d'Enfants di Rene Dupèrè per la sigla di Ballarò).

Nel panorama contemporaneo dell'autorialità musicale italiana, spicca, su tutti, il nome di Alessandro Mannarino. Il 35enne romano, originario del quartiere San Basilio, ha iniziato la sua carriera all'età di 22 anni, lavorando come deejay presso alcuni locali ed esibendosi occasionalmente davanti ad un esiguo pubblico, composto, per lo più, da amici. É stato proprio nel contesto dei pub attorno alla stazione Termini che il giovane cantautore ha avuto modo di assorbire l'eterogeneità stilistica che ha contaminato fortemente, negli anni a seguire, lo sviluppo del suo sound, caratterizzato da una forte connotazione identitaria. 
«Stornellatore moderno e metropolitano», cantore di un'umanità reietta e desaparecida, Mannarino utilizza toni surrealistici per parlare di zingari e pagliacci, signorine e sacerdoti, ubriachi e disperati. Dal suo primo album, Bar della rabbia, fino all'ultimo, Al monte, passando per Supersantos, è possibile individuare un percorso lineare che ha portato il cantautore romano ad una differente presa di coscienza sulla realtà contemporanea, oltre che ad uno sviluppo tematico e ad un'evoluzione musicale.  
«Suona, fanfara sgangherata, per gli esiliati dal mondo della favole. Cantate, ciurma di ribelli, chè al suono della vostra voce, impaurita, scappa la tarantola della disperazione». 
Questa è la breve intro di BAR DELLA RABBIA, album dinamitardo e roboante che trova nell'osteria il suo punto di partenza. Spontaneo e con voce roca, il cantastorie romano, tra contaminazioni folk e blues, narra le vicende di quel mondo dalle rapide esplosioni cromatiche che si vede nella Roma periferica, piena di ribelli, di vagabondi in crisi di identità, di disperati che si ubriacano dell'odore di una donna e di pagliacci tristi per la perdita del grande amore ma impossibilitati a piangere «per questioni diplomatiche». E ancora, di italiani vittime del sistema, che «giran tutti a pecorone sotto i precetti della madre chiesa, in fila in processione, in fila in comunione, in fila con le buste della spesa», di esploratori amazzoni che curano la gente con un elisir d'amore e di barboni che trovano in fondo al mare cose perdute, diamanti e strane streghe che cantano malinconiche melodie. 
La settima traccia, Tevere Grand Hotel è dedicata al campo nomadi Casilino 900, il più grande campo rom d'Europa, grand hotel per «chi va, perso nel vento, tra le fiamme del mondo, spinto verso il fondo». 
E, alla fine, nonostante la disperazione, la disillusione e la nostalgia di un tempo ormai perduto ma
che, forse, non è mai esistito, c'è ancora spazio per un'inaspettata epifania: «Ma mò che viene sera e c'è il tramonto, io nun me guardo 'ndietro..guardo er vento. Quattro ragazzini hanno fatto 'n'astronave con n'po' de spazzatura vicino ai secchioni, sotto le mura dove dietro nun se vede e c'è 'n'aria scura scura. Ma guarda te co' quanta cura se fanno la fantasia de st'avventura... Me mozzico le labbra, me cullo che me tremano le gambe de paura, poi me fermo e penso: “però, che bella sta bella fregatura...”».
Dopo Bar della rabbia, che ha fruttato a Mannarino la finale al Premio Tenco e al Premio Gaber come Miglior opera prima, è la volta di SUPER SANTOS, album del 2011. 
Gli stornelli da bar, ispirati alla vita notturna nei quartieri di Monti, San Lorenzo e Pigneto e alla poesia di Trilussa, hanno lasciato il posto a ritmi gitani popolati da personaggi strampalati e picareschi. In questo turning point nichilista ed urlato, c'è poco spazio per la redenzione finale. 
Il secondo disco del cantautore romano è una discesa dantesca negli inferi, storia di passioni e di botte. Il cantastorie girovago si è messo in viaggio, ha intrapreso un percorso alla volta di un universo magico ed onirico che, progressivamente, si discosta da Bar della rabbia, ed assume toni sempre più fuori fuoco. 
Ed ecco, Serenata lacrimosa e Maddalena, vicende disperate e vagamente anticlericali in cui non c'è posto per le figurine di vescovi e sacerdoti («Er vescovo c'ha er microfono e io niente, e lui vorebbe una cosa solamente. Che se seccassero tutte le donne, che fa' l'amore fosse un incidente (...) e a sentillo, pure Dio ce se confonne»), ma dove giganteggiano le figure di Giuda e Maddalena, poveri cristi ai margini del mondo, peccatori ed amanti che si abbandonano alla solitudine della loro passione («Giuda e Maddalena stanno insieme e girano nascosti fra la gente e vanno al fiume a far l'amore su una barchetta che va controcorrente»). 
Protagonista assoluta di questo secondo album è la figura della Donna che, nel corso delle 11 tracce, intraprende una via crucis personale, un viaggio che la liberi dalle convenzioni sociali da cui è circondata. 
Dalle sottane delle suore che nascondono la felicità alle spose in lacrime tra le baracche periferiche di Rumba magica, dalla donna vampiro di Statte zitta e di Quando l'amore se ne va che fa vivere all'uomo un amore sofferto e travagliato fino alla dark lady di Marylou che, vittima del «gregge infame della gente che, a volte, serve un lupo nero da ammaestrar» è costretta ad abbandonare la città dopo aver compiuto un omicidio per legittima difesa. 
Il vangelo on the road di Mannarino si sofferma sulla putrefazione della scena politica ne L'onorevole per concludersi con una disperata apocalisse in cui ladri e avanzi di galera riescono a trovare un senso persino alle lacrime dell'inferno, che, nonostante tutto, «servono a qualcosa, a far crescere una rosa». E, alla fine di questo percorso, l'unica cosa che resta è la sensazione di impotenza di fronte al tempo divorante che «è un lampo che non lascia scampo, se ti prende ti cancella dalla festa però ti toglie pure il mal di testa» e un terribile sentimento di paura di fronte alla notte che è «scura, se non sai più come amar».
Dopo la rivolta del Bar della rabbia e le urla incazzate di Super Santos, l'ultimo album, AL MONTE, sembra segnare l'inizio di un percorso di riconciliazione con la Natura, della ricerca di una simbiosi con l'universo circostante, in cui l'ascensione della montagna (topos caro, tra l'altro, alla letteratura romantica) possa offrire la possibilità di redenzione all'Uomo. 
Il percorso, che sancisce una svolta sia musicale sia tematica, con un'inversione di senso e una maggiore introspezione nei confronti di se stessi, comincia a partire da Malamor. La prima traccia dell'album è un'apoteosi sonora in cui concorrono svariati ed eterogenei strumenti musicali. «Qui si nasce senza fiato, è già la prima punizione, uno schiaffo sopra al culo per la respirazione. Mi diedero a mia madre, unghie lunghe da ragazza, mi riempì di cicatrici carezzandomi la faccia (...) Alla scuola elementare, c'era un muro e una ringhiera, ci misero sugli occhi una benda di bandiera, così da non vedere, trascinando la catena, da che parte ci arrivavano i bastoni sulla schiena». Il tono da invettiva è chiaro, Malamor è una traccia-ponte che risente ancora delle dinamiche dei dischi precedenti. L'uomo-soldato, si è trasformato in cinghiale, perchè «l'uomo si fa bestia quando non riceve amore», diventa una perfetta macchina da guerra alienata e priva di una coscienza individuale. 
Da Deija in poi, Mannarino, moderno Baudelaire che descrive la città a partire da un luogo altro, viaggia e si estrania per poter maturare uno sguardo sulle cose più distante ma anche più cosciente e profondo. Protagonista della seconda traccia è un popolo errante alla ricerca di un nuovo Dio, forse di quel Cristo che «ormai s'è fatto er sangue pisto. Voleva scenne ma nun l'avete visto» in Super Santos. Un coro carezzevole che si eleva durante il ritornello accompagna la speranza ritrovata da parte della gente. La svolta introspettiva di Mannarino, con una particolare attenzione al silenzio notturno, alla riflessione e alle cose osservate da un punto di vista virginale di un bambino curioso, sembra iniziare ad affacciarsi. 
Gli animali è un divertente catalogo sui tipi umani, analizzati nelle fattezze dei più svariati animali che popolano la Terra. «I serpenti cambiano i vestiti, so' sporchi dentro, fuori eleganti. Cambiano i governi ma non cambiano gli schiavi. Urla l'agnellino ai poliziotti cani». Ancora una volta, la chiave di volta sarebbe nascosta in un'attitudine percettiva differente: «Bisogna sape' distingue la luce delle stelle da quella delle lampare».
Ne L'impero viene descritto il tentativo di allontanamento dalla Babele del Potere: «Ci presero al laccio per la catena per farci spingere un'altalena. Sull'altalena c'è un mostro potente, dietro alla schiena nasconde un serpente». 
La spiritualità laica e l'umanesimo del disco sono accompagnati in Signorina da un sentimento di profonda pietas e speranza. «Ed è uscito un sole folle stamattina e noi scappiamo via dalla rovina. Forse basta questa lacrima d'amore a riempire il gran deserto e a farci il mare».
Al monte e Le stelle sono i due testi più complessi dell'album. Il primo percorre il viaggio della Creazione, dalla scossa al mare buio e sconosciuto della vita e narra la storia di Adamo ed Eva aggiornata in epoca contemporanea. L'obiettivo si fa sempre più vicino. «Il mondo era un'arca di Noè che andava persa alla deriva. Ma per quei due, il diluvio universale era solo una piccola pioggia estiva. Fuggirono verso il futuro, inseguiti dai gendarmi di quel che era stato (...) Tra tutta la gente indaffarata nessuno vide quell'abbraccio e la storia finisce qui. Con la promessa, tra quei due, di cominciare per davvero la vita. Salirò al monte. Troverò gemme per la tua fronte. E vivrò tra le onde, poi me ne andrò, tuffandomi nelle ombre». 
Nell'ultimo singolo «Dio non s'è visto ancora, e gli alieni tardano a venire». La svolta non può venire da una realtà esterna ma può essere solo interiore. 
I due giovani amanti, in conclusione del loro viaggio iniziatico, volano, adesso, verso un altro pianeta, dove forse la vita può avere un nuovo inizio.