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martedì 30 giugno 2015

ORTIGIA FILM FESTIVAL, FESTIVAL DEL CINEMA DI FRONTIERA E LATRONICHORROR: VIAGGIO TRA FESTIVAL DI PERIFERIA

di Matteo Marescalco
 
Ancora una volta, è arrivata la dolce e malinconica stagione estiva densa di suggestioni e promesse. Noi vi proponiamo un approfondimento su tre festival di cinema che abbiamo selezionato per voi, giusto per non abbandonarvi durante queste vacanze.
Abbiamo effettuato questa selezione di festival estivi di periferia perché i tre eventi hanno come comune denominatore elementi quali genere, questione identitaria e rapporto tra istanze culturali differenti.
 
Dal 9 al 16 Luglio vedrà la luce la settima edizione dell' Ortigia Film Festival che si svolgerà nelle
due meravigliose location di Largo Logoteta e di Piazza Minerva.

Ad attendere i siracusani vi saranno un concorso di lungometraggi opere prime e seconde italiane, retrospettive, anteprime, omaggi a grandi autori, documentari, film di recente produzione, inediti di autori emergenti, focus su cinematografie emergenti di altre nazioni, capolavori della storia del cinema, mostre, installazioni, masterclass, incontri con gli autori ed altri eventi collaterali.
L'obiettivo del festival è di selezionare film di alto livello culturale che senza la giusta promozione commerciale rischiano di non avere visibilità.
Protagonista dell'edizione sarà il regista recentemente deceduto Claudio Caligari, cui sarà dedicata la proiezione di Amore tossico e di L'odore della notte. Saranno proiettati anche 10 minuti di making off di Non essere cattivo, terzo film che Caligari aveva appena completato, grazie all'intervento in fase produttiva di Valerio Mastandrea.
Un altro omaggio sarà dedicato a Mario Monicelli, protagonista dell'evento collaterale 100 anni di cinema di Mario Monicelli-Le foto di Mario dall'archivio di Rap, mostra fotografica che nasce per volontà di Chiara Rapaccini, compagna di vita del regista, e che sarà allestita all'interno del Teatro comunale di Siracusa.


Spostiamoci, adesso, a sud di Siracusa per la quindicesima edizione del Festival del Cinema di Frontiera di Marzamemi.
 
«...frontiera, non come territorio ai margini, ma come la parte situata di fronte. Cinema di frontiera, non cinema di periferia, cascame di un cinema dominante, centripeto, che si difende; bensì un cinema che si interroga, che guarda all'altro da sé, aperto al nuovo. Un cinema che sia punta avanzata verso l'esterno, avamposto e non retroguardia. Cinema di Frontiera intesa nel suo valore simbolico, oltre che geografico nell'accezione più ampia del termine. Frontiere territoriali, culturali, ma anche dell'anima e dei linguaggi; punto d'incontro tra passato, presente e futuro. Frontiera non come limite, confine, ma finestra sull'universo, sugli universi circostanti e opposti. Cinema interculturale che cerca i caratteri congiungenti tra i popoli più che quelli divisori. Questo è il Cinema di Frontiera...», a detta del direttore artistico Nello Correale.
 
Tra gli eventi in programma del Festival, che si svolgerà dal 20 al 26 Luglio, vi sarà una rassegna su cinema e cibo presentata da Thomas Struck, direttore di Culinary Cinema della Berlinale.
Della giuria del Festival farà parte Mika Kaurismaki, fondatore insieme al fratello Aki del Midnight Sun Film Festival del comune lappone di Sodankyla nel Nord della Finlandia.
 
Vi consigliamo di prendere parte al Festival per godere della bellezza naturalistica della splendida frazione marittima e per la ricerca legata al concetto di identità e di stato liminale portata avanti da Correale e dal vicedirettore Sebastiano Gesù.
 
And last but not least, spostandoci di regione, tocca alla terza edizione del Festival di genere LatronicHorror che si terrà a Latronico il 25 e il 26 Luglio.
L'evento, organizzato dalla Ignorant Production, vuole porre l'attenzione verso il cinema di genere che ha segnato un periodo fondamentale del cinema italiano con autori quali Dario Argento, Lucio Fulci, Ruggero Deodato, Mario Bava, Enzo G. Castellari, George Romero, Sergio Leone etc.
Secondo obiettivo, non meno importante, è quello di monitorare l'ambiente indipendente e le produzioni low budget di giovani cineasti costretti alla marginalità e di dar loro la giusta visibilità. Il Festival ambisce ad avvicinare industria e produzione indipendente a basso budget senza che quest'ultima si snaturi perdendo i propri connotati identitari.

Diario di un cinefilo è stato invitato in giuria e ha avuto l'occasione di guardare in anteprima i corti in concorso e di valutarli insieme agli altri giurati.
Non possiamo fare altro che appoggiare i ragazzi del LatronicHorror e augurare a questa piccola realtà di affermarsi in un contesto sempre più ampio.

venerdì 26 giugno 2015

PREDESTINATION

di Egidio Matinata
 
Un film di Peter e Michael Spierig. Con Ethan Hawke, Sarah Snook, Noah Taylor, Christopher Kirby. Fantascienza, Drammatico. Australia 2014. Durata: 97 minuti.
 
 
Tratto dal racconto Tutti voi zombie del 1959 di Robert A. Heinlein, il film narra la vita di un agente che viaggia nel tempo, il quale deve affrontare una serie intricata di viaggi spazio temporali, progettati per garantire l’applicazione della legge per l’eternità. Ora, al suo ultimo incarico, l’agente è all’inseguimento di un criminale che da sempre continua a sfuggirgli: l’obiettivo è salvare migliaia di vite messe in pericolo dai piani di questo terribile assassino.
 
Molto spesso le sinossi dei film sono volutamente meno complesse di quanto il film sia in realtà. Questo è uno di quei casi.
Già la materia trattata (la fantascienza dei viaggi nel tempo) basterebbe a rendere complessa la gestione di un prodotto audiovisivo o anche letterario (lo stesso Stephen King esprimeva la sua preoccupazione durante la scrittura di 22/11/63: «Il viaggio nel tempo è molto furbo, e ‘furbo’ è la parola gentile per definirlo. Io me ne sono tenuto alla larga nella maggior parte del mio lavoro, perché ho visto scrittori migliori di quanto io potrò mai essere fallire nelle storie di viaggi nel tempo»).
Sembra però che i fratelli Spierig non si siano fatti troppi problemi a riguardo, alimentando la storia di base con una sottotrama che, paradossalmente, costituisce la parte migliore di Predestination.
 
Girato con un budget non molto elevato e in appena 32 giorni di riprese, riesce a farsi seguire con molta attenzione non attraverso particolari artifici che ci si aspetterebbe dalla fantascienza, ma grazie ad un’ottima parte centrale in cui ci sono semplicemente due personaggi seduti in un bar a parlare, bere e fumare sigarette; una sequenza che aumenta la curiosità e le aspettative per il proseguimento del film, il quale però finisce per essere estremamente confuso.
 
Nonostante due ottime prove di Ethan Hawke e della semisconosciuta Sarah Snook, una regia ben
calibrata e alcune scelte visive particolarmente azzeccate (il modo in cui i protagonisti viaggiano nel tempo), si lascia la sala con la sensazione che i due registi australiani abbiano voluto fare il passo più lungo della gamba. Con una trama di tale interesse e con dei sottotesti di non poco conto, bisogna dirlo, il rischio di toppare era elevato.
Per fortuna non ci si trova mai di fronte a qualcosa di banale come "per quanto ci si sforzi, è impossibile cambiare il passato", ma il film vira verso qualcosa di più complesso.
 
Attraverso i viaggi nel tempo dei protagonisti l’essere umano, preso nella sua singolarità, sembra presentare al suo interno le due facce che segneranno per sempre la sua esistenza, ed è accomunato a tutti gli altri per questa sua caratteristica intrinseca che diventa allo stesso tempo la sua forza e la sua debolezza, la sua motivazione per andare avanti e il suo motivo di disfatta che, fondamentalmente, ci rende un tutt’uno. E’ probabilmente questo il famoso ‘serpente che si morde la coda’ di cui parla il barista/Ethan Hawke.
Peccato che la metafora vada bene anche per il film, un castello di carte delicato e complesso che finisce per crollare su se stesso.

 

giovedì 25 giugno 2015

THE BABADOOK

di Egidio Matinata
 
Un film di Jennifer Kent. Con Essie Davis, Noah Wieseman, Barbara West, Daniel Henshall. Horror. Australia 2014. Durata: 89 minuti.

Scriveva François Truffaut nell’introduzione al libro-intervista Il cinema secondo Hitchcock:
«Credo che sia necessario classificare Hitchcock nella categoria degli artisti inquieti come Kafka, Dostoevskij, Poe. Questi artisti dell’angoscia non possono evidentemente aiutarci a vivere, perché vivere per loro è già difficile, ma la loro missione è di dividere con noi le loro ossessioni. Con questo, anche ed eventualmente senza volerlo, ci aiutano a conoscerci meglio, il che costituisce un obiettivo fondamentale di ogni opera d’arte».

Questo concetto può essere esteso al genere horror. Spesso e volentieri sottovalutato e relegato ai margini sia dalla critica che dal pubblico come “minore”, ancora oggi viene difficilmente considerato come cinema d’autore o comunque “elevato”.
L’horror affonda le sue radici nelle origini della settima arte: i primi esempi si trovano nei film di Méliès e nel cinema espressionista tedesco. Successivamente molti grandi cineasti si sono cimentati in questo genere utilizzandolo e plasmandolo a seconda delle tematiche o di determinate influenze. L’horror, ponendo l’uomo di fronte all’impossibile, lo fa confrontare con le proprie paure e le proprie ossessioni e lo rende più consapevole di se stesso e del mondo.

Niente a che vedere con la sciatteria contemporanea che troppo spesso affligge questa categoria. Molti dei sottogeneri che hanno preso piede a partire da The Blair Witch Project prima, e Paranormal Activity poi, hanno aperto la strada a decine e decine di emulatori che si preoccupano esclusivamente di spaventare lo spettatore, dimenticandosi totalmente di costruire un senso, una narrazione o semplicemente di rispettare determinate regole del linguaggio cinematografico. Per fortuna c’è ancora chi crede che si possa fare grande cinema attraverso l’orrore.
L’evocazione di James Wan e Oculus di Mike Flanagan sono due importanti film recenti che, in modi diversi, hanno portato una boccata d’aria fresca al genere: il primo grazie ad una regia efficacissima e ad una rielaborazione intelligente di temi e situazioni classiche; il secondo con un uso inconsueto dei tempi narrativi e di un montaggio innovativo e funzionale alla storia.

The Babadook, della regista australiana Jennifer Kent, è un esempio di come si possa fare un film nuovo utilizzando un personaggio cardine dell’immaginario collettivo: l’uomo nero.       
 
Sei anni dopo la violenta morte del marito, Amelia deve fare i conti con gli incubi di Samuel, l’iperattivo (e spesso ingestibile) figlio di sei anni. I sogni del bambino sono tormentati dalla presenza di un mostro che ha intenzione di uccidere lui e sua madre. Quando un inquietante libro di fiabe chiamato Mister Babadook viene ritrovato in casa, Samuel si convince che sia proprio il babadook la creatura che non lo lascia in pace. A poco a poco anche Amelia comincia a percepire un'inquietante presenza intorno a sé, realizzando che ciò di cui Samuel la avvertiva potrebbe essere reale.

The Babadook è un film riuscitissimo che già dalla prima sequenza porta lo spettatore a immedesimarsi nella protagonista (l’attrice Essie Davis in stato di grazia) e i suoi problemi, angosce e paure, con la quale condividerà tutta l’evoluzione della vicenda. La regia è sapiente nel gestire tutti i momenti di tensione e, nella parte iniziale, nel giocare sul non visto.
Anche la messa in scena e la fotografia puntano su colori cupi che favoriscono la creazione di un’atmosfera fredda, inospitale e terrificante, ma allo stesso tempo tangibile, non distaccata dalla realtà.
Jennifer Kent dimostra di conoscere ed amare il genere anche nelle sequenze in cui cita determinati film, mai in un gioco fine a se stesso. Dai film di Méliès a Rosemary’s Baby, da Shining a I tre volti della paura di Mario Bava.                                                                                                                            
 
Molto spesso tanti difetti delle pellicole horror si possono trovare in una gestione sbrigativa e banale della parte finale. Purtroppo in molti non hanno apprezzato l’epilogo di The Babadook, quando invece è probabilmente la parte più significativa del film, innovativa sul versante narrativo e potente nel suo valore morale. Ciò che lo rende un’opera fondamentale del genere: un film sull’accettazione della perdita e sul coraggio di affrontare il dolore e il Male.
 

martedì 23 giugno 2015

WHILE WE'RE YOUNG

di Matteo Marescalco

Noah Baumbach, delfino di Wes Anderson con cui ha collaborato alle sceneggiature di Le avventure acquatiche di Steve Zissou e di Fantastic Mr. Fox, torna alla regia con While we're young (Giovani si diventa), ritrovando Ben Stiller ed Adam Driver, dopo averli già diretti, rispettivamente, in Greenberg e nel colpo di fulmine Frances Ha.
 
Cantore di famiglie disfunzionali e di intellettualodi in piena crisi esistenziale, di uomini e donne affetti dalla sindrome di Peter Pan che non accettano l'avanzare dell'età, attento entomologo dei rapporti tra componenti della classe borghese newyorkese che demistifica e prende in giro, Baumbach si è affermato alla regia nel 2005 con Il calamaro e la balena. Sul set di Greenberg lavora con Greta Gerwig, sua attuale moglie, sulla quale costruisce ad hoc il personaggio di Frances in Frances Ha, giovane ballerina che si trova ad affrontare l'ingresso nell'età adulta, in una New York popolata da hipster figli di papà, e la delusione derivante dal fallimento delle proprie amicizie. Sulle note di Modern Love di David Bowie, Frances impara a credere nei propri sogni e a convivere con una malinconia di fondo.
 
In While we're young Baumbach ritorna alle atmosfere a lui più congeniali: protagonisti della vicenda sono Josh e Cornelia. Lui è un regista di documentari in crisi creativa, lei una produttrice. I due saranno portati a rivalutare la propria età adulta dopo aver conosciuto i nuovi vicini di casa, una coppia di ventenni innamorata della vita.
 
Dopo aver analizzato la difficoltà nell'affrontare la fine dell'adolescenza, Baumbach si spinge più avanti e si concentra sulla presa di coscienza di due quarantenni sull'avanzare dell'età e sull'impossibilità di sentirsi giovani.
Il centro d'osservazione si sposta ulteriormente e si colloca in una zona liminale, quella che intercorre tra giovani e adulti, con tutte le differenze di sorta tra i due gruppi.
I giovani, più liberi e svegli, orientati verso un recupero del passato effettuato rispolverando vinili e vhs, rappresentanti di una generazione che ruba e demistifica per creare. E gli adulti dallo sguardo nostalgico, gettati in un mondo tecnologico che non comprendono sufficientemente e che li allontana nei rapporti interpersonali. Schiacciati dai giudizi e dalle aspettative dei padri e dalla spinta sempre più opprimente dei giovani che scalpitano per prendere il loro posto, i due quarantenni di Baumbach si interrogano sulla vita e sulla loro crisi di mezza età.

Oltre a mostrare tutte le idiosincrasie di questo rapporto tra due generazioni diverse, il regista costruisce un'interessante riflessione sul dualismo tra cinema di finzione e cinema del reale. Stiller è un autore di documentari e pretende di raggiungere la verità assoluta senza che essa venga intaccata da innesti finzionali. Driver, invece, mira alla creazione di una storia che venga narrativizzata da una serie di apporti soggettivi e "costruiti". Su questo versante si scontrano le idee delle due generazioni fino alle considerazioni finali sul mezzo filmico.

Si ride in While we're young. L'ironia abbonda ma è permeata di una nostalgia nei confronti di un tempo che non esiste più e che può soltanto essere evocato in modo, tuttavia, artificioso.
Baumbach sembra dire alla sua età (e a se stesso), cui guarda con dolcezza, che non esiste nulla di più naturale che compiere il proprio percorso senza guardare indietro e accettare l'inevitabile scorrere del tempo evitando di demonizzare i più giovani che, un giorno, si troveranno ad affrontare esattamente le stesse paure della generazione precedente.

lunedì 22 giugno 2015

TRUE DETECTIVE 2: The Western Book of the Dead s02 e01

di Egidio Matinata

The Western Book of the Dead

Torna True Detective, una delle serie più amate da critica e pubblico della scorsa stagione.
Forse di sempre.
Questa volta ad accoglierci nel cupo mondo creato da Nic Pizzolatto è Leonard Cohen con Nevermind che accompagna i titoli di testa e gli spettatori attraverso immagini che ricordano molto la sigla della prima stagione.
 
Tutti sanno che non ci sarà più la coppia McConaughey/Harrelson; i due attori rimangono soltanto in veste di produttori. Cambia la storia e cambiano i personaggi. Ciò che non cambia è l’anima della serie: ritroviamo felicemente il mix di pessimismo e oscurità che caratterizza questi personaggi e questo mondo.
Dalle paludi della Louisiana alle strade intricate della California il salto è più breve di quanto si possa pensare. I protagonisti della vicenda sono tre detective, ognuno con una vita a dir poco burrascosa: Ray Velcoro (Colin Farrell), un uomo instabile con un matrimonio alle spalle; Ani Bezzerides (Rachel McAdams), una donna rigidissima con una famiglia di cui si vergogna (un padre santone spirituale e una sorella cam girl) e Paul Woodrugh (Taylor Kitsch), un ex veterano con molti problemi psicologici. E poi c’è Frank Semyon (Vince Vaughn), un criminale che è riuscito a diventare uno degli uomini d’affari più potenti di Los Angeles.                                                                               
Le loro vicende convergono perché intrecciate all’omicidio brutale di Ben Caspere, un pezzo grosso dell’amministrazione e socio di Semyon, trovato con genitali mutilati e occhi strappati dalle orbite.

Aspettando che la storia entri nel vivo, la serie comincia più che bene. Si sentono determinate mancanze: oltre ai protagonisti Marty e Rust, anche la regia contemplativa e ipnotica di Cary Fukunaga sarà un’assenza di non poco conto.                                                                                   

La cosa che lascia ben sperare è vedere una continuità autoriale ideologica e di intenti (non narrativa) con la stagione precedente. Questo si poteva evincere già facendo un confronto tra le tag-line delle locandine: la prima diceva «Man is the cruelest animal», e la seconda «We get the world we deserve».

E' interessante notare il contrasto tra l’inizio, la fine e tutto ciò che succede nel mezzo. La puntata inizia e finisce con un’alba (simbolo di vita e di rinascita), ma nel mezzo assistiamo solo a dei tramonti (la fine, la morte): di affari, di vite, personali e psicologici. Chissà se l’incontro finale dei protagonisti, in una zona liminale, tra il buio e la luce, appartenga all’una o all’altra categoria.

DIARIO DI UN CINEFILO ALLA MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA

di Matteo Marescalco

Ragazzi, Diario di un cinefilo ha ricevuto la conferma alla richiesta di accredito stampa per la prossima Mostra del Cinema di Venezia!

Pausa di riflessione.

Cazzo...questo vuol dire che, accanto a Corriere della sera e Repubblica, Sentieri selvaggi e Point Blank, Coming Soon e BadTaste, ci sarà anche questo piccolo blog della porta accanto, nato circa cinque anni fa durante il mio periodo liceale, e deceduto prematuramente.
Da un anno e mezzo a questa parte, il progetto è ampiamente ripartito e, tra anteprime stampa e Festival minori, ho ricevuto l'appoggio costante di un amico e le collaborazioni sporadiche di altre quattro persone.
 
Sperando di poter mantenere la freschezza, la passione e la modestia che la maggior parte delle voci ufficiali sembrano aver dimenticato da tempo, non ci resta altro da fare che augurare a noi stessi il miglior in bocca al lupo.
Che la Mostra del Cinema di Venezia possa perdonarci per l'inevitabile abbassamento di livello che causeremo!
Perdonatemi il post autoreferenziale ma, dopo mesi di impegno, esultare per una bella soddisfazione non fa male!
Casomai non vi rivedessi, buon pomeriggio, buona sera e buona notte!

 
 

giovedì 18 giugno 2015

LA DISTANZA: L'ON THE ROAD DI COLAPESCE E BARONCIANI

di Matteo Marescalco

«Le storie di questa casa vuota bastano a riempire una reggia. Quando eravamo dei nani impazziti, ricordi? Poi arrivò quel cane nero, non si dormiva la notte. Cicale e formiche facevano festa nel cortile. L'odore di pianta annaffiata, di cuoio e di carne montana, la mia bicicletta e i tuoi soldatini immersi nel fango. Ed una mosca che pareva sempre la stessa, ogni anno era lì. E insieme a quel geco, la cena e un pigiama e la sera veniva un po' prima».

Per una serie di motivi che spiegherò in seguito, ho scelto di affidare ad alcuni versi della canzone Bogotà l'incipit di questo mio articolo di presentazione ed approfondimento su La distanza di Colapesce e Baronciani.

Il primo, pseudonimo di Lorenzo Urciullo, è un cantautore siracusano, leader del gruppo Albanopower ed autore degli album Un meraviglioso declino ed Egomostro. Lorenzo ha scelto il suo pseudonimo in relazione alla leggenda di Colapesce secondo cui il figlio di un pescatore che, dopo le sue numerose immersioni in mare amava raccontare le meraviglie viste, si sarebbe fatto carico di una delle colonne, in via di disfacimento, su cui poggiano gli estremi della Sicilia.
Legare il proprio nome ad una leggenda del genere così ancorata alla propria terra natia è già, di per sé, una forte dichiarazione d'intenti.
Il secondo, Alessandro Baronciani, lavora come art director, grafico e illustratore ed è l'autore di tre libri di fumetti: Una storia a fumetti, Quando tutto diventò blu e Le ragazze dello studio Munari.
I due artisti hanno incrociato il loro percorso in occasione della realizzazione de La distanza, graphic novel illustrata da Baronciani e scritta da Colapesce che è stata presentata il 17 Giugno alla Feltrinelli di Catania.
 
LA DISTANZA
«Un viaggio in Sicilia fatto di amori interrotti, passioni indecise, appuntamenti mancati, canzoni appannate e la distanza che rovina tutto, come sempre» recita la copertina del libro.

La distanza fisica ed emotiva sembra essere il nucleo tematico di questa vicenda ambientata in una sognante Sicilia che vede protagonista Nicola, la sua ragazza, trasferitasi a Londra e due amiche indigene. Impossibile non pensare ad altri versi della già citata Bogotà le cui note volteggiano attorno al tema della distanza e della spensierata età infantile, ormai perduta, ma pur sempre presente come elemento distante, appunto, ed onirico: «La tecnologia ammortizza il rimpianto e l'attesa, partisti tamburo ed ombrello (…), adesso dispersi cerchiamo la pace nelle ombre degli altri. (…) I tuoi soldatini nel fango sorvegliano ancora il quartiere. Io la notte ancora sto sveglio a pensare al tempo che ho perso e ne accumulo altro».


LA STASI SOGNANTE
L'immobilità, unita ad un contraddittorio dinamismo, in realtà mortifero, sembra essere il carattere peculiare dello stivale della nostra penisola che versa, soprattutto durante le lunghe nottate estive, in uno strano torpore, come una moderna Aurora in attesa del bacio del principe che possa risvegliarla ed amarla nel profondo, con tutte le sue contraddizioni. Terra ormai stanca di amori passeggeri consumati in una notte con uomini vittime del suo fascino fantasmatico e misterioso come tanti Ulisse in preda al canto delle Sirene. Citando lo stesso Colapesce: «La Sicilia è come una femme fatale, basta guardarla negli occhi una volta e sei fregato, le perdoni tutto. Anche se fa la stronza e ti fa soffrire, sei sempre lì ai suoi piedi».
 
«La volontà di sparire è l'essenza esoterica della Sicilia. Poichè ogni isolano non avrebbe voluto nascere, egli vive come chi non vorrebbe vivere. La storia le passa accanto con i suoi odiosi rumori. Ma dietro il tumulto dell'apparenza si cela una quiete profonda».
L'atmosfera descritta da Manlio Sgalambro ben si accorda alla «spiaggia semideserta, solo l'odore di una primavera che muore sotto i tuoi occhi» cantata da Colapesce in Satellite e a stelle, fantasmi e alla luce d'Agosto che viola il nero del cielo, accompagnato dal sempre presente odore di «cannella misto a gelsomino e tela».
 
IL VIAGGIO
Nel cammino che condurrà Nicola da un estremo all'altro della Sicilia passando per l'entroterra (le tappe sono Pantalica, Noto, Marzamemi, Siracusa, Catania, Castelbuono, Palermo e Punta Raisi), si scorge persino l'antropomorfizzazione della terra sicula, restituita dalle sfuggevoli figure femminili di Baronciani e dal refrain di Sottocoperta: «I tuoi vestiti bandiere di resa, ammiro in silenzio la tua bocca. La tua voce ricorda il vento nella stagione calda, come ombre di stelle sono i nei della tua pelle. Gemme deposte quei due tondini d'ebano profumano di cera. Ventre di perla, ti abbraccio, sento il mare. Racconto incompleto la tua bocca».
 
Oso affermare che (mi perdonino i lettori il paragone probabilmente blasfemo), allo stesso modo in cui On the road ed Easy rider, in letteratura e nel cinema, hanno descritto viaggi fisici dalla valenza simbolica in una terra ben definita e pronta per spiccare il volo verso quel sogno che si sarebbe rivelato solo un buco nero, La distanza rappresenta la dislocazione spaziale di anime fuori dal tempo. Gli Stati Uniti, patria di estremi rivolgimenti. E la Sicilia, caratterizzata da un moto perpetuo che, nella sua accezione più estrema, di moto protratto all'infinito, senza cambi di direzione, porta all'immobilità assoluta. «Mangio pesce azzurro come i tuoi occhi, guarda il cielo come l'acqua dopo la tonnara. Andavamo a piedi nudi per le strade, dei fachiri scalzi in rotta verso il mare, un mattone con i fori per pescare e se morde rideremo sovrastando le campane. (…) Talassa, con la vita che mi hai dato e la voglia di non cambiare il mondo». Tutto scorre, ma nulla cambia.

L'ASSENZA
«Devi avere voglia di abbracciare le mio ombre sui muri».
Hanno detto Colapesce e Baronciani che, senza L'avventura di Michelangelo Antonioni, molto probabilmente, La distanza non sarebbe esistita. Apologo sull'alienazione moderna e sui rapporti sociali, anche il viaggio dei protagonisti de L'avventura, probabilmente, non sarebbe esistito senza la Sicilia. Terra che fagocita chi vi mette piede.

LA MALINCONIA DELL'ADDIO
«L'Italia senza la Sicilia, non lascia nello spirito immagine alcuna. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto. La purezza dei contorni, la morbidezza di ogni cosa, la cedevole scambievolezza delle tinte, l'unità armonica del cielo col mare e del mare con la terra. Chi li ha visti una sola volta, li possederà per tutta la vita», scriveva Goethe dopo il famigerato grand tour novecentesco del viaggio in Italia. La morbidezza di ogni cosa, la cedevole scambievolezza delle tinte, la levigatezza della pietra bianca di Modica, le riviere cristalline, i cieli azzurri su cui si staglia una sfera infuocata. Il pantheon di colori saturi di emozioni con cui la trinacria accoglie le anime che vagano nel suo sogno, sono tutti elementi che l'autore dei disegni è riuscito a ricreare, abbracciando per la prima volta il colore ed abbandonando il bicromatismo delle sue altre opere.
 
La sensazione che emerge con prepotenza dopo l'ascolto di Un meraviglioso declino, soprattutto, ma anche di Egomostro è che l'orizzonte visivo si stagli netto e maestoso in una sinestesia di sentimenti tumultuosi di cui Bogotà si fa perfettamente foriera, restituendo quel mistero che soltanto i bambini sono in grado di penetrare in profondità.
 
Ed alla fine del viaggio, non resta altro che la malinconica sensazione di abbandono da parte di «una terra ca nun teni cu voli partiri e nenti cci duni pi falli turnari», che condanna chi vi abita ad una specie di sonno eterno ma che, forse, vorrebbe solo sentirsi realmente amata e che si deposita come tesoro prezioso nel cuore di chi vi soggiorna anche solo di passaggio percependo il segreto eterno ed inconfessabile di un «posto in cui non cresce» mai veramente «l'addio».

lunedì 15 giugno 2015

VEDO E PREVEDO: VENEZIA '72

di Mara Siviero

Tre lunghi mesi ci separano dalla prossima edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, ma i pronostici non mancano ad arrivare.
In attesa che la Biennale di Venezia, sezione Cinema, presieduta da Paolo Baratta e con la direzione artistica di Alberto Barbera, annunci i film partecipanti al Festival nelle diverse categorie verso la fine di luglio, facciamo un po’ di nomi dei possibili papabili in laguna.

Tantissimi sono i film americani che potrebbero essere presenti in quel di Venezia tra cui The Hateful Eight di Quentin Tarantino con Michael Madsen, Tim Roth e Bruce Dern, Crimson Peak di Guillermo del Toro (che noi abbiamo inserito nella lista dei 10+1film più attesi dell'anno) con Jessica Chastain, Tom Hiddleston e Mia Wasikowska, Bridge of Spies di Steven Spileberg con Tom Hanks e The Martian, ultimo lavoro di Ridley Scott con Matt Damon e, ancora, la Chastain. Uno di questi quattro nomi potrebbe essere anche il papabile film di apertura. Il favorito è il film di del Toro, che darebbe luogo al triplete messicano (due anni fa aprì Gravity di Alfonso Cuaron, lo scorso anno aprì Birdman di Alejandro González Iñárritu).

Vi sono doppie possibilità che ci siano Tom Hiddleston che, oltre al film di del Toro potrebbe essere
in laguna con High Rise di Ben Whatley, e Michael Fassebender, con Jobs di Danny Boyle o con The Light between Oceans di Derek Cianfrance.

Dato il tenore degli ultimi anni, è possibile che James Franco ritorni al Lido per la quarta edizione di seguito, in veste di regista e attore, con In a Dubious Battle o, con più probabilità, con Zeroville, di cui girò alcune scene proprio durante la scorsa Mostra.
Dagli Stati Uniti potrebbero arrivare anche That’s what I’m talking about e Midnight Special degli indipendenti Richard Linklater e Jeff Nichols.
The Program con Ben Foster, basato sulla vita ciclistica di Lance Armstrong, potrebbe segnare il ritorno di Stephen Frears due anni dopo Philomena..

Molto papabile anche il nuovo film di Sean Penn, The Last Face (di cui ci si aspettava la visione al Festival di Cannes), che, tornato dietro la macchina da presa, ha diretto Charize Theron, Javier Bardem e Adèle Exarchopoulos.
E ancora Triple Nine, di John Hillcoat, con Kate Winslet e Casey Affleck, Everest di Battasar Kormakur, con Jake Gyllenhaal e Keira Knightley e Jane got a Gun di Gavin O’Connor, con Natalie Portman ed Ewan McGregor.
In laguna potrebbero anche arrivare The Danish Girl di Tom Hooper, con il premio Oscar Eddie Redmayne e In The Heart of the Sea di Ron Howard con Chris Hemsworth.
Last but not least, la possibile presenza di Jonás Cuaron, figlio di Alfonso Cuaron, Presidente di Giuria di quest’anno, con Desierto, otto anni dopo aver presentano Año Uña.
Dall’Inghilterra potrebbe esserci Black Mass di Scott Cooper con Johnny Depp, mentre dalla Francia sembrano certi Elle di Paul Verhoeven con Isabelle Huppert e Cosmos di Andrzej Zulawski.

Poche probabilità per i Fratelli Coen di presentare a Venezia Hail, Caesar! con George Clooney; data la presenza di una masterclass di Joel Coen e Francis McDormand alla Festa del Cinema di Roma per il prossimo ottobre, è più probabile che la nuova pellicola possa essere presentata in territorio romano.

Dall’Oriente è data per certa la presenza di Sion Sono con Love and Peace o con Shinjuku suwan (il regista ha ben sei film pronti), mentre dalla Russia è sicuro Francofonia di Aleksandr Sokurov.
Dalla Serbia, invece, arriverebbe On the Milky Road di Emir Kusturica con Monica Bellucci.
E per quanto riguarda la nostra nazione? L’Italia potrebbe partecipare con film, dati quasi per certi, quali Non Essere Cattivo, l’ultimo lavoro di Claudio Caligari, La Corrispondenza di Giuseppe Tornatore con Jeremy Irons, A Bigger Splash di Luca Guadagnino con Ralph Fiennes e Tilda Swinton. Molto probabile anche la presenza di Suburra di Stefano Sollima (regista di Gomorra-La serie) con Elio Germano e Pierfrancesco Favino e L’Attesa di Piero Messina con Juliette Binoche. Occhio anche a Bellocchio che potrebbe ritornare al lido con Sangue del mio sangue con Roberto Herlitzka e Filippo Timi.

I titoli a disposizione sono tantissimi, le possibilità di vederli tutti quanti a Venezia un po' meno, data la presenza, quasi nello stesso periodo, dell'immenso Festival di Toronto e dei successivi Festival di New York e di Londra, che si sono già aggiudicati, per le aperture, The Walk di Robert Zemeckis e Suffragette con Meryl Streep e Carey Mulligan.

Non resta che attendere i primi di luglio per conoscere il film di apertura e la fine dello stesso mese per la conferenza stampa che ci renderà noti tutti i titoli della varie sezioni.

domenica 14 giugno 2015

INSIDE OUT-TAORMINA FILM FEST

di Matteo Marescalco
 
Si è aperta Sabato sera la 61esima edizione del Taormina Film Fest con Inside Out, l'ultimo capolavoro Pixar, che ha causato più di uno scossone emotivo nel variegato pubblico di bambini meravigliati e felici ed adulti in lacrime.
A battezzare quest'appuntamento annuale sono stati Claudio Bisio e Rosario Dawson, protagonisti di due incontri con il pubblico. L'attrice americana, durante la serata, ha anche ricevuto l'Humanitarian Taormina Award, per il progetto sociale Studio One Eighty Nine, impresa artigianale che sfrutta la moda come agente di cambiamento per creare opportunità di lavoro e di valorizzazione per le donne vittime silenziose di violenza.
Ma è dalle 23 in poi che i colori primari della Pixar sono scesi in campo ed hanno alzato decisamente il tono emotivo della giornata. Dopo diverse annate in ombra, la casa di produzione americana specializzata in animazione tridimensionale, si è presa un anno di pausa scegliendo di bypassare il 2014 e di puntare sul 2015 con due progetti originali: Inside Out e The good dinosaur.
Il primo è stato presentato in anteprima mondiale all'ultimo Festival di Cannes e approda a Taormina come terza anteprima internazionale. Il secondo uscirà durante la seconda metà dell'anno.
 
«Verso l'infinito e oltre!». Chi non ricorda la famosa frase proferita da Buzz Lightyear in Toy Story, nel 1995? L'immaginario di più di una generazione (genitori e figli) è stato segnato da questo invito a spingersi un po' più in là dei soliti confini. E chissà che questo limite non sia stato superato ed infine individuato e raggiunto in un viaggio all'interno della mente umana.
Precursori del sostanziale cambiamento di natura percettiva apportato dal passaggio dall'analogico al digitale, tutti i film Pixar sono caratterizzati da uno schema logico e razionale: la vicenda trova la sua origine in una situazione di equilibrio iniziale che viene intaccato da una serie di agenti. Lo sviluppo della storia orienta i personaggi verso la risoluzione finale. Nulla di più classico, insomma. Gli illusionisti dell'animazione digitale, in tal senso, pescano a piene mani dalla struttura della fiaba tradizionale.
Ma c'è sempre stato un quid che ha contraddistinto, fin dagli esordi, il loro lavoro. Qualcosa che li ha spinti un po' più in là. Verso l'infinito e oltre, per l'appunto.
 
Inside out, diretto da Pete Docter (lo stesso di Monsters & Co. e Up), è, in un certo senso, la summa del pensiero e del metodo di lavoro degli studi Pixar.
Protagonista è Riley, una bambina del Minnesota come tante altre che, a causa di esigenze lavorative del padre, è costretta a trasferirsi a San Francisco con la famiglia.
Ma, fin dal momento della nascita, cosa muove le sue azioni? I bambinoni della Pixar attribuiscono la responsabilità di ogni suo (e nostro) comportamento a cinque emozioni fondamentali dalle fattezze antropomorfiche che gestiscono una consolle collocata nel quartier generale della mente. Joy, intraprendente e positiva, Anger, sempre pronto alla lite, Disgust, svogliata ed annoiata, Fear, responsabile della nostra autoconservazione e Sadness, malinconica e sfiduciata, la intristiscono, la rendono felice, la consigliano e la seguono quotidianamente.
I primi undici anni della vita di Riley scorrono all'insegna della felicità, tra la migliore amica, una famiglia adorabile e la passione per l'hockey.
 
Da Toy Story, viaggio di formazione di un ragazzino, dei suoi giocattoli e del Cinema stesso, sulla soglia della maturità dell'età digitale, fino a Monsters & Co., che si addentra nelle paure più oscure che animano i sogni notturni dei bambini, da WALL-E, che mostra un'umanità legata in maniera morbosa alla tecnologia e privata di sentimenti ed emozioni che dovrebbero caratterizzarla fino ancora ad Up, elegia sull'amore e sulla vita, il più lungo dei nostri viaggi, la grandezza della Pixar si è, soprattutto, manifestata nelle sue creazioni drammaturgiche in cui l'essere umano ha sempre avuto un'importanza capitale. In Inside Out, Lasseter e co. vanno oltre, rendendo concreto l'astratto.
Joy e Sadness compiranno un viaggio dentro la mente di Riley, tra Subconscio, Immagilandia, Memoria a lungo termine e Pensiero Astratto, che li porterà a crescere e a traghettare la bambina
verso l'età adulta.
Inside Out è un viaggio che scava nelle profondità dell'essere umano, negli unici luoghi in cui è possibile trovare risposte e che traspone su schermo lo stesso metodo di lavoro della casa di produzione americana: trattare le emozioni e le idee con assoluto rigore. Insomma, metodi industriali e da catena di montaggio applicati all'immaginario ed alla struttura mentale. Impossibile non pensare allo stesso statuto cinematografico, sintesi di tecnica ed immaginario per eccellenza.
Nei labirinti mentali della bambina, Joy incontra Bing Bong, personaggio che entra di diritto nella galleria delle migliori creazioni Pixar e che, nella struggente seconda parte del film, si trova a lottare con la Memoria e a prendere una decisione di fondamentale importanza per consentire a Riley di crescere.
 
Con il cuore in mano, non possiamo fare altro che ringraziare la Pixar per averci fatto sognare, in questi 20 anni di distanza dal primo film, e per averci insegnato che tristezza e gioia sono due facce della stessa medaglia. Senza questo meraviglioso gruppo, la nostra immaginazione ne avrebbe pesantemente risentito e, insieme ad essa, anche la straordinaria macchina creatrice di sogni che è il Cinema.

giovedì 11 giugno 2015

AI NASTRI DI PARTENZA LA 61ESIMA EDIZIONE DEL TAORMINA FILM FEST

di Matteo Marescalco
 
Inside Out di Pete Docter (presentato in anteprima mondiale all'ultima edizione del Festival di Cannes) aprirà le danze del Festival del Cinema della perla dello Jonio, arrivato alla 61 esima edizione della sua storia.
Oltre 70 ospiti nazionali ed internazionali, più di 100 film in programma, anteprime su grandi serie tv, Masterclass e Campus per i giovani, incontri speciali, web series e tanto altro ancora sono gli ingredienti della rassegna curata dalla General Manager Tiziana Rocca e dai direttori artistici Franco Montini, Jacopo Mosca, Chiara Nicoletti e Gabriele Niola.
 
Quest'anno il Taormina Film Fest prosegue nella direzione inaugurata dalla gestione Rocca e rilancia: più film e più incontri, senza nessun pregiudizio. Il cinema popolare, la più grande televisione e i migliori autori rimescolati ogni anno secondo equilibri diversi per assecondare gli impulsi di un pubblico partecipe e curioso.
 
Dopo le ultime edizioni che possono annoverare ospiti come Robert De Niro ed Emir Kusturica, Marco Bellocchio e Terry Gilliam, Dario Argento e Zack Snyder, fino a Ben Stiller e John Turturro e film quali Monsters di Gareth Edwards, Toy Story 3 di Lee Unkrich, Kung fu Panda 2 di Jennifer Yeoh, Man of Steel di Zack Snyder, anche questa 61esima edizione è ricca di grandi nomi del mondo del cinema.
 
Si comincia con la pre-apertura dell'11 affidata a Jurassic World di Colin Trevorrow (autore del meraviglioso Safety not guaranteed).
Il 12 è la volta della seconda pre-apertura (ridondante a nostro avviso) affidata a Natassja Kinski, figlia di Klaus nonché protagonista di Paris, Texas di Wim Wenders.
Inside out aprirà ufficialmente il Festival Sabato 13. L'ultimo capolavoro Pixar rappresenta un ulteriore tassello che accresce la perfezione del mosaico costruito negli anni dalla casa di produzione americana.
La chiusura del Festival, il 20 Giugno, è affidata a 600 Miles di Gabriel Ripstein con Tim Roth. Il film narra la storia di un giovane trafficante d'armi che dal Texas vuole andare in Messico. Trova sulla strada un veterano della task force statunitense. In queste 600 miglia, i due stringeranno una strana amicizia.
 
Le differenti sezioni sono: Grande Cinema al Teatro Antico/Fuori Concorso, In concorso, Film-maker in Sicilia, TaoClass e Campus, Pre-visioni/Lavori in Corso, WorldWildWebSeries e Programmi ed Eventi Speciali.
 
Come ogni anno, la splendida location del Teatro Antico ospiterà grandi anteprime e proiezioni in 3D. Oltre ad Inside out e Jurassic World, toccherà anche all'atteso While We're Young di Noah Baumbach (sceneggiatore di Wes Anderson) intrattenere il pubblico di Taormina.
Tra gli altri film fuori concorso: Torno indietro e cambio vita dei Fratelli Vanzina (Lunedì si terrà una loro masterclass sul cinema di Billy Wilder), le ultime due puntate di Game of Thrones in anteprima italiana, How to make love like an Englishman con Pierce Brosnan, Hot Pursuit con Sofia Vergara e I ponti di Madison County di Clint Eastwood.
Ad aprire il Concorso sarà invece Beyond the Reach con Michael Douglas.
 
Tra gli ospiti che terranno una Masterclass con il pubblico, interverranno Richard Gere, Patricia Arquette, Ellen Pompeo, Gabriele Salvatores e Susan Sarandon.
Protagonisti della sezione Campus (incontri con i giovani universitari e liceali) saranno Rupert Everett, Rosario Dawson, Dolph Lundgren, Claudio Bisio e James Marsden.
Madrina della competizione sarà Asia Argento.
 
Il Taormina Film Fest è prodotto da Agnus Dei, promosso dal Comitato Taormina, con il sostegno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e dell'Assessorato Regionale Turismo e la collaborazione dell'Ufficio Cinema Regione Siciliana.
 
Ancora una volta, Diario di un cinefilo sarà presente per questa overdose di grande Cinema. A presto con i prossimi aggiornamenti!
Grande Cinema, grandi ospiti, grosse tette!

TAXI TEHERAN DI JAFAR PANAHI IN ARRIVO NELLE SALE ITALIANE

di Matteo Marescalco
 
Il 27 Agosto arriverà nei cinema italiani Taxi Teheran di Jafar Panahi.
Venduto in oltre 30 Paesi, sarà portato in Italia da Cinema, nuova distribuzione di Valerio De Paolis, già creatore della BIM. Da qui a Natale, la sua nuova casa di distribuzione, distribuirà nel nostro Paese anche An di Naomi Kawase (film di apertura di Un Certain Regard) e Much Loved di Nabil Ayouch. Con la BIM, distribuirà la Palma d'Oro Dheepan di Jacques Audiard e Mountains may depart di Jia Zhangke (in concorso ufficiale a Cannes).
 
Presentato in anteprima al Festival di Berlino e vincitore dell'Orso d'Oro, Taxi Teheran è il primo film che il regista iraniano ha girato dal 2010, piazzando la telecamera sul cruscotto del suo taxi e mettendosi alla guida per le vie di Teheran, nonostante il divieto di girare imposto dal regime dopo la sua partecipazione a una serie di movimenti di protesta. Arrestato, è stato rilasciato dopo più di due mesi di detenzione, grazie alla mobilitazione delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani e del mondo del cinema a livello internazionale. Gli viene, tuttavia, preclusa la possibilità di dirigere, scrivere e produrre film, viaggiare e rilasciare interviste per i prossimi 20 anni.
 
Taxi Teheran è stato girato in clandestinità a causa della condanna del regime iraniano.
Osannato unanimemente dalla critica di tutto il mondo, il film è stato acclamato anche da Darren Aronofsky, Presidente di Giuria dell'ultimo Festival di Berlino, che ne ha detto: «Le restrizioni sono spesso fonte d'ispirazione per un autore perché gli permettono di superare se stesso. Ma, a volte, le restrizioni possono essere talmente soffocanti da distruggere un progetto ed annientare l'anima dell'artista. Invece di lasciarsi distruggere mente e spirito e di lasciarsi andare, invece di lasciarsi pervadere dalla collera e dalla frustrazione, Jafar Panahi ha scritto una lettera d'amore al suo cinema. Il suo film è colmo d'amore per la sua arte, la sua comunità, il suo paese e il suo pubblico».
 
Il regista è stato anche omaggiato alla 56esima edizione del Taormina Film Fest con la consegna del Tao Arte Award (Panahi era assente) e che, fra pochi giorni, aprirà le danze della sua 61esima edizione con Inside Out.
 
Al seguente link e di seguito trovate il trailer di Taxi Teheran: https://www.youtube.com/watch?v=Mvz9DfKAAiM

giovedì 4 giugno 2015

LO STRAORDINARIO VIAGGIO DI T.S. SPIVET

di Mara Siviero


Uscito addirittura quasi due anni fa in Francia e presentato all’ultimo Festival di Roma, nella sezione parallela Alice nella città, è arrivato da qualche giorno anche nelle nostre sale Lo Straordinario Viaggio di T.S. Spivet di Jean-Pierre Jeunet, già regista del cult con Audrey Tautou, Il Favoloso mondo di Amelie (2001).
Questo film di avventura narra la storia del bambino prodigio T.S. Spivet, di 10 anni (interpretato da Kyle Catlett), che vive in un ranch isolato, nello stato del Montana in America, con la mamma (Helena Bonham Carter), ricercatrice in morfologia degli insetti, il padre cowboy dalle vedute ristrette (Callum Keith Rennie), una sorella il cui unico scopo è diventare Miss America (Niamh Wilson), e lo spirito sempre presente del fratello gemello di T.S., Layton (Jakob Davies), scomparso precocemente per un incidente nel fienile. Questa perdita sarà di tale entità da essere presente, con delicatezza, per tutta la durata della pellicola, responsabile com'è di un inevitabile cambiamento dei caratteri di ogni membro della famiglia.
T. S. Spivet è un bambino solo e sviluppa la sua non comune intelligenza nell'ambito della fisica, dando vita ad una serie di progetti concreti in grado di sovrastare le sue leggi.
La svolta per il ragazzino arriva quando l’istituto Smithsonian di Washington gli comunica di aver vinto il premio dell’anno per l’elaborazione di un modello di moto perpetuo.
La vera identità di Spivet è ignota all’Istituto, che pensa sia un adulto; mentendo, Spivet decide, non senza momenti di sconforto, di attraversare da solo l’America e ritirare il premio che ha meritatamente vinto. 
Tratto dal libro Le mappe dei miei sogni di Reif Larsen, il film alterna registro fantastico e drammatico, tra la nostalgia del protagonista, testimone e probabile responsabile della morte del suo gemello, e la necessità di attenzioni che puntualmente non arrivano da parte della sua famiglia.
Il tema principale dell'ultimo film di Jeunet riguarda la tragedia familiare e l'elaborazione del lutto.
La questione del viaggio assume il valore di un pellegrinaggio volto ad affrontare il lutto da parte di tutta la famiglia. Il movimento nello spazio più che simboleggiare le vive speranze per il futuro, affidandosi allo stile fantastico e dai colori pastello dei ricordi nostalgici di T.S., ha il valore di un viaggio nel proprio passato. Ed è proprio sulle ampie panoramiche degli stati americani attraversati dal genietto in miniatura che si stagliano i fantasmi del tempo che fu.
Il climax emozionale arriva solo alla fine, quando tutta la famiglia si ricongiunge in un unico abbraccio, ristabilendo un equilibrio volto a superare il lutto per la perdita del figlio/fratello e a seguire la vita del domani colmando le mancanze affettive di ogni membro famigliare, che fino ad allora ognuno sapeva di ignorare.
Dedicato per lo più ai bambini, Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet si fa foriero di messaggi stratificati che sono validi per essere colti anche dalle generazioni che precedono i più piccoli; essere sempre attenti alle necessità dei nostri cari, affrontare insieme i problemi, e non diventare il pasto di media ed istituzioni per evitare che il proprio genio venga sfruttato dagli altri e dare il contributo per il moto perpetuo del benessere affettivo familiare sembrano essere il grande tesoro che lo spettatore e Spivet si trovano a scoprire alla fine del loro viaggio.