di Matteo Marescalco
Anni
'20. Sud della Francia. L'illusionista cinese Wei Ling Soo è uno dei
più celebrati illusionisti della sua epoca, ma pochi sanno che sotto
il suo costume si cela l'identità di Stanley Crawford (interpretato
da Colin Firth), uno scorbutico ed arrogante inglese con un'elevata
opinione di se stesso ed un'avversione nei confronti dei finti medium
che dichiarano di essere in grado di realizzare magie. Convinto da un
suo vecchio amico, accetta la proposta di smascherare la
chiaroveggente Sophie Baker (interpretata da Emma Stone), impegnata a circuire una ricca famiglia
in vacanza nella riviera francese. Crawford si presenta sotto le
mentite spoglie di un uomo d'affari che accusa Sophie di essere una
mistificatrice da quattro soldi. Ma, con grande sorpresa, la ragazza
si esibisce in una serie di numeri di magia e di lettura della mente
che lasciano sbigottito il gentleman inglese e che sfuggono a
qualsiasi comprensione razionale. Crawford comincia a pensare che i
poteri di Sophie siano veri. Se così fosse, Stanley si renderebbe
conto che tutto sarebbe possibile e le sue solide convinzioni fisiche
verrebbero a crollare.
Con
l'incredibile media di 48 film realizzati in altrettanti anni, Woody
Allen si conferma uno dei registi più prolifici del panorama
cinematografico mondiale. Dopo aver ambientato il suo penultimo film,
Blue Jasmine, nella sua cara New York che ha dato i natali, tra gli
altri, a Manhattan e ad Io e Annie, Allen torna in Francia con una
commedia romantica dal sapore agrodolce, incentrata sul mondo della
magia. La cornice è, quindi, simile a quella di Midnight in Paris:
la società della belle epoque pronta a godersi la vita dedicandosi
al pettegolezzo e a questioni di poco conto.
Il
personaggio protagonista è quanto di più alleniano possa esistere,
un razionalista che cita Hobbes e Nietzsche e che pensa che la vita
sia un'infinita sequela di eventi senza senso. Per lui, non c'è
assolutamente spazio per la sorpresa. Centro focale del
lungometraggio è il vecchio conflitto tra ragione e sentimento,
realtà ed illusione.
Tra
lunghe carrellate e piani sequenza fissi, dialoghi memorabili ed
autoreferenziali e scambi al vetriolo, Woody Allen non perde
occasione per autocitarsi e portare nuovamente in scena un
personaggio che condensi tutte le sue idee pessimiste sulla vita.
Questa volta, però, sembra esserci spazio per un lieto fine.
Vale la
pena abbandonarsi all'illusione dell'amore, consapevoli, tuttavia,
che essa rappresenti soltanto un'illusione? Sembra essere questo il
centro focale del film.
Alla
direzione della fotografia torna il fedele Darius Khondji che
illumina tiepidamente gli scenari della riviera francese ad alto
tasso di romanticismo.
Magic
in the Moonlight risulta essere vittima, tuttavia, della verbosa
costruzione narrativa del suo regista e sceneggiatore: il film,
infatti, alla lunga finisce per annoiare lo spettatore che si trova
davanti, per l'ennesima volta, la solita sequela di idiosincrasie
alleniane, qui trasformate in luoghi comuni. I personaggi stessi
appaiono monodimensionali nei loro strambi cambi di comportamento
senza un senso apparente.
L'impressione
è quella di trovarsi davanti ad un autore narciso, vittima della
propria cannibalistica magniloquenza creativa, la cui ultima opera
svanisce come una bolla di sapone o ancor meglio, per restare in
tema, come la conseguenza di un'illusione mal portata a termine.
Nessun commento:
Posta un commento