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lunedì 5 febbraio 2018

FINAL PORTRAIT-L'ARTE DI ESSERE AMICI

di Matteo Marescalco

Dopo aver presentato la sua quinta regia a Berlino (in occasione dell'ultima Berlinale) e al Torino Film Fest, Stanley Tucci torna in Europa per un altro incontro stampa a Roma. Ancora una volta, il suo Final Portrait-L'arte di essere amici è il protagonista indiscusso della discussione con il pubblico.

Il piccolo film è ambientato nella Parigi del 1964. Si tratta di un particolare biopic che ha per protagonisti Geoffrey Rush ed Armie Hammer: i due impersonano Alberto Giacometti e James Lord, giovane scrittore americano in visita nella capitale francese. Il primo è uno dei maggiori artisti della seconda metà del secolo scorso, il secondo un dandy a cui è cara la vita da flaneur, tra salotti borghesi e ristoranti per pochi eletti. Il racconto concentra la propria attenzione sul rapporto sui generis che si viene a creare tra i due personaggi. Lord commissiona un ritratto a Giacometti ma la lavorazione che sarebbe dovuta durare pochissimi giorni, in realtà si estende oltre le due settimane di tempo, periodo sufficiente affinché lo scrittore americano venga a conoscenze della vita sregolata del pittore svizzero. Sempre ai limiti della decenza e dell'igiene, Giacometti è famoso per le sue opere incompiute, abbozzi che finivano puntualmente per essere distrutti e cominciati nuovamente da capo.

Tucci parte da una vicenda biografica ben precisa (quale può essere il rapporto tra due persone) per allargare il piccolo quadro a temi dai tratti universali. La macchina da presa utilizzata a mano tallona da vicino i personaggi e fornisce un modo per aggirare la ripetitività della situazione narrativa. A causa dell'insicurezza del pittore, l'entusiasmo con cui Lord chiese un ritratto a Giacometti si trasformò in noia e in disagio, dopo settimane di prove non andate a buon fine. Al di là delle questioni meramente relative agli scambi da commedia tra i due personaggi, la spina dorsale della vicenda è davvero enorme. La dinamica tra maestro e giovane testimone, la ricerca ossessiva alla base della realizzazione di un'opera d'arte considerata anche come malattia dell'anima, la sua fruibilità presso il pubblico, l'evoluzione della pittura al tempo della riproducibilità tecnica. Il regista accarezza ogni singola tematica per liberarsene in fretta, evitando di restare incagliato nei tratti da lezioncina scolastica che la struttura del film avrebbe rischiato di assumere ma, allo stesso tempo, evitando anche di puntare ad un qualcosa di più rispetto ad un mero dialogo tra due protagonisti (con l'inserto di qualche personaggio di contorno).

In tal senso, l'attore-regista abbraccia la via del bozzetto e della macchietta, probabilmente l'aspetto strutturale più semplice attraverso cui aggirare l'ostacolo. Insomma, niente di nuovo sotto il sole ma semplicemente un compitino svolto molto bene e senza particolari sbavature, privo però dell'irrequietezza che tanto si addiceva al personaggio portato in scena.

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