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mercoledì 4 ottobre 2017

BLADE RUNNER 2049

di Matteo Marescalco

Finalmente, anche noi umani abbiamo visto quelle cose che l'androide Roy Batty diceva di aver visto nell'ormai lontano anni luce (almeno tecnologicamente parlando) 1982. Blade Runner di Ridley Scott è un iper-testo che conteneva in sè una serie di potenzialità che, nel corso di questi 35 anni, sono state sviluppate dal cinema contemporaneo (dal genere fantascientifico, in primis), alle prese con una sostanziale cambiamento di forma di cui si è già parlato più volte.

Quanto è cambiato il mondo dal 1982 al 2017? E, soprattutto, può Blade Runner 2049 porsi sullo stesso piano di Blade Runner? L'ultimo film di Denis Villeneuve è dotato della stessa forza e del carattere iconico del film di Scott? Una prima interessante conclusione è che Villeneuve ha evitato di muoversi sullo stesso binario intrapreso nel 1982. L'affresco nostalgico viene abilmente circumnavigato nella creazione di questo nuovo ambiente mediale in cui far muovere l'Agente K, interpretato da Ryan Gosling. Blade Runner fondeva sapientemente fantascienza e neo-noir, creando un ibrido che avrebbe marchiato indelebilmente l'epoca post-moderna. A differenza di Rick Deckard, l'Agente K è un replicante e, cosa principale, è consapevole di esserlo. Dal 1982, i replicanti sono stati perfezionati ma il mondo ha dovuto affrontare un black-out di dimensioni epocali che ne ha intaccato i connotati. Insomma, un buco nel tempo/un vuoto funge da traghettatore da un'epoca ad un'altra. Dagli schermi giganti alla miniaturizzazione della tecnologia digitale fino ancora ai simulacri smaterializzabili. Il passo è davvero notevole. L'immagine si è fatta sempre più piccola fino ad inquinare in toto il reale, trasformandosi in esso. Dal deserto dei sentimenti compressi e bruciati ad una lenta progressione verso una piena consapevolezza identitaria, alla ricerca di ricordi passati individuali o condivisi. 

Alla ricerca, quindi, del cinema, il grande sogno del secolo breve, fantasma onnipresente, architetto di memoria e ricordi. Le indagini di Ryan Gosling in un deserto spettrale si trasformano in ricerca nei luoghi del cinema, in un tentativo di far sopravvivere il mezzo che ha maggiormente influenzato l'immaginario collettivo nel corso degli ultimi cento anni. E la risposta al quesito che caratterizza la storyline principale di Blade Runner 2049 non poteva essere fornita che da Rick Deckard, interpretato proprio da quell'Harrison Ford emblema del grande cinema americano post-classico. Deckard è un personaggio leggendario che insinua dubbi e pone interrogativi filosofici, replicante o essere umano che sia, nel contesto di quel testo-laboratorio che è il film di Villeneuve. 

In un contesto fotografico ed estetico talmente perfetto e curato, l'attenzione allo sviluppo della narrazione non è il punto di forza del film che affastella un'esagerazione di informazioni e di stimoli. Blade Runner 2049 funziona quando evoca e punta su uno sviluppo minimal dei dialoghi. Quando sottrae parole e costruisce un discorso meramente attraverso le immagini. Denis Villeneuve crea qualcosa di unico dalla sovrapposizione tra originale e nuovo, tra reale ed immaginario. Un cortocircuito alla ricerca del senso del cinema in relazione alle nostre identità di spettatori. O ancora, alla ricerca di quell'amato cavallino in legno che, reale o fittizio che sia, non smetterà mai di scaldarci.

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