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giovedì 7 gennaio 2016

JOAQUIN PHOENIX: TI AMO. MA UN PO' TI ODIO.

di Matteo Marescalco

Odio ed amo Joaquin Phoenix.
Lo odio perché riduce a zero la mia autostima.
Lo amo perché è l'unico in grado di dire ad Anselma Dell'Olio: «Yeah, zia, ti amo». (Ci vuole fegato).

Citazioni filosofiche (e alcool) alla mano, riesce a rendere sexy un ordinario professore di provincia con capelli leccati all'indietro e pancetta che emerge con prepotenza sotto polo e camicie. Connotati che non intaccano minimamente il fascino che l'attore sprigiona in ogni inquadratura dell'opus n. 45 di Woody Allen.
Antidivo che ha fatto dell'insofferenza alle telecamere e ai giornalisti, del suo odio verso i blockbuster, del carattere stralunato, dell'impegno civile e della malinconia, connotazioni fondamentali del proprio personaggio pubblico.

Malinconia ed amori tormentati sono aspetti che hanno segnato i ruoli interpretati dall'attore in molte pellicole.
Non sorprende osservare le assonanze visive tra Malinconia di Edvard Munch ed alcuni frame di Two Lovers, dramma d'amore che riflette la vita di Joaquin Phoenix. Al suo attivo ha Liv Tyler e Anna Paquin come fidanzate storiche e, da poco, ha perso la testa per una ventenne ossigenata. Nulla che lasci trapelare il desiderio dell'attore di mettere la testa a posto nonostante le numerose difficoltà incontrate nella vita.
Di cicatrici ne ha, eccome, Joaquin Phoenix. Quella sul labbro superiore sembra non sia dovuta ad un intervento per correggere il labbro leporino ma ad una malformazione congenita.
La vita gliene ha inflitte di più profonde (ed apparentemente invisibili). Il 31 Ottobre 1993, al Viper Room di Johnny Depp, Joaquin ha visto il fratello River morirgli tra le braccia per overdose. A nulla valsero le telefonate al 911, mandate poi in onda da tutti i media statunitensi se non al suo allontanamento da Hollywood, per una pausa di riflessione.
Il destino, poi, lo priva di altri suoi familiari quando da gestore di un locale privilegiato per i traffici commerciali della mafia russa, perde il padre poliziotto e vede il fratello mettere a rischio la sua vita per lui. Un cortocircuito è in atto.
O quando i genitori della sua ex fidanzata lo allontanano, condannandolo all'eterno baratro del buio, dimensione prediletta dallo sguardo glaciale di Phoenix, che appartiene alle più oscure tenebre della notte. Ma, nonostante tutto, he's still here.

Nella carriera del figlio di due figli dei fiori, c'è anche spazio per il grande inganno: «I'm still real»
o «Sono l'incarnazione di un'autoparodia del cazzo?».
«Mi sento intrappolato in questa fottutissima e ridicola prigione autoinflitta della caratterizzazione. Non so cosa sia venuto prima, se il fatto che mi abbiano definito emotivo, intenso e complicato oppure se lo fossi davvero e se semplicemente lo manifestassi. Una volta che hanno accettato queste caratteristiche, ho iniziato a dare loro quello che mi chiedevano. In un certo senso ne ho approfittato e un po' me ne vergogno. Non voglio più interpretare il personaggio di Joaquin. Voglio essere me stesso. Ecco perché sto facendo questo documentario». La risposta è da rintracciare in un'immersione nelle acque amniotiche per rinsaldare quei legami familiari che tanto sono mancati all'attore americano.

Idiosincratico, timido, carismatico e misterioso, sempre in preda alle più svariate passioni, Joaquin Phoenix ha dato vita a personaggi irrazionali e debordanti come nessun altro. Sguardo di ghiaccio e labbro imperfetto, Phoenix sta bene in ogni aspetto: con o senza barba, con baffi che tengono a bada il gelo che emana con lo sguardo, con lunghe basette ad incorniciare il volto. Piace perché è il passionale della porta accanto che nasconde un segreto, il malinconico anti-sistema che difende i diritti degli animali e vive una noiosa quotidianità. Insomma, è una persona qualsiasi. Forse.

Amo ed odio Joaquin Phoenix.
Lo amo perché riduce a zero la mia autostima (e ce ne vuole).
Lo odio perché è l'unico in grado di dire ad Anselma Dell'Olio: «Yeah, zia, ti amo!». Nessuno gli crede.

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