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venerdì 22 gennaio 2016

THE END OF THE TOUR

di Matteo Marescalco

Nella storia del cinema, i rapporti con il mondo della letteratura non sono mai stati relegati a momenti collaterali e di scarso interesse. Anzi, nei tempi in cui il cinema si affermava come grande strumento di intrattenimento di massa e cercava di essere riconosciuto come arte, la trasposizione di classici letterari era uno strumento utilizzato che, da un lato, segnava il suo ruolo di subordinazione nei confronti della letteratura ma che, dall'altro, gli consentiva, come detto, di mirare ad un certo riconoscimento formale.

Così come sono molto numerosi i casi di trasposizione letteraria, allo stesso modo, i biopic su scrittori e letterati (e i film che incastrano biopic e trasposizioni come, ad esempio, Shakespeare in Love) si sono affermati come un genere a sé stante, in cui The end of the tour si inserisce prepotentemente. Questo film di James Ponsoldt è tratto da Come diventare se stessi: un viaggio con David Foster Wallace di David Lipski, cronaca degli ultimi giorni del tour di presentazione negli Stati Uniti di Infinite Jest.
1996, lo scrittore David Foster Wallace concede a David Lipski di Rolling Stone un'intervista di cinque giorni. Lipski non si occupa solo di giornalismo ma anche di narrativa e nutre una serie di pregiudizi ideologici nei confronti dell'autore americano. Ma anche una buona dose di sana invidia per la sua genialità. La convivenza tra i due trasporta lo spettatore nel mondo privato di Wallace, quanto più distante possibile dall'idea di scrittore maledetto dedito ad una vita dissoluta. Anche se una serie di incertezze Wallace le portava con sé: al punto tale da morire suicida nel 2008.

The end of the tour è un malinconico viaggio in luoghi intimi che stentiamo ad abbandonare dopo le due ore del lungometraggio, una scoperta del lato più umano di sé, un dialogo, fatto di botte e risposte, sulla vita e sulla cultura americana, sulle dipendenze e sulle manie di Wallace, sulle sue debolezze e fragilità.
Ponsoldt sfrutta il contrasto tra il gelido panorama esterno, costantemente innevato, ed il tiepido cantuccio domestico in cui viveva Wallace per delineare lo scontro tra due caratteri e due vite agli antipodi ma che finiscono per specchiarsi. Debitore nei confronti della scuola del Sundance, che tanti talenti ha sfornato, nel corso degli anni, ma che, ultimamente, rischia di chiudersi in una sorta di autoreferenzialità che ne mina la freschezza dello stile, il regista costruisce un affresco sensibile che ha il suo centro focale nella partita a scacchi tra due differenti solitudini e nella critica al materialismo americano che ha tanto caratterizzato la scrittura di Wallace.

-Lo scrittore deve vivere poco. Piuttosto, deve saper osservare. Siamo, più che altro, dei voyeur. Lo scrittore non è quello che balla al centro della pista, ma più l'osservatore ai margini, quello che nota le dinamiche immerso in un timido silenzio-.
Non perdete questo delicato ritratto di uno scrittore ai margini della pista.

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