Powered By Blogger

mercoledì 18 febbraio 2015

ROY ANDERSSON-LA TRILOGIA SULL'ESSERE UN ESSERE UMANO

di Egidio Matinata
 
«Quando ero giovane il realismo era l’unica cosa che mi interessava. Tutto il resto era semplicemente strano (o meglio, borghese), ma col tempo sono stato sempre più affascinato dall’Arte Astratta, a partire dal Simbolismo, dall’Espressionismo e dalla Nuova Oggettività. È molto più interessante di una pura rappresentazione naturalistica. L’interpretazione personale dell’espressione astratta è straordinaria. […] È una specie di super-realismo, un obiettivo che ambisco a raggiungere, in cui l’astrazione è condensata, purificata e semplificata. Le scene ne dovrebbero emergere ripulite, come ricordi e sogni».
Roy Andersson, regista svedese sconosciuto ai più, è entrato a gamba tesa nel cinema contemporaneo con la sua “trilogia sull’essere un essere umano”.
Tre film che abbandonano gli schemi narrativi consolidati mostrando i personaggi e le loro azioni in un contesto e in alcune situazioni spesso surreali. Caratterizzati da uno stile rigoroso e molto personale, Canzoni dal secondo piano (2000, premio della giuria a Cannes), You, the Living (2007) e Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza (2014, Leone d’oro a Venezia), possono essere visti come un unico film diviso in tre parti. Non vengono portati avanti dei personaggi e una storia, ma delle situazioni e dei temi che riguardano la vita di ognuno. Infatti, cercare di riassumere in qualche modo le trame diventa difficile, ma soprattutto riduttivo.
La regia di Andersson è costruita per essere uno sguardo sul mondo da lui creato (palesemente fittizio e allo stesso tempo reale); i movimenti della macchina da presa si riducono a brevi carrellate, nella maggior parte dei casi si assiste ad inquadrature fisse che delimitano lo spazio in cui si muovono i personaggi. Sembra che il modo contemporaneo possa essere analizzato, compreso e quindi riprodotto unicamente attraverso la chiave del grottesco; tutte le azioni si basano sulla divisione, ma anche la coincidenza, del comico e del tragico, del banale e dell’essenziale, della bellezza e della meschinità, dell’ironia e della tragedia.
Le potenti immagini, pittoriche e ipnotiche, mettono in mostra un’umanità “imbalsamata” nel suo continuo errare senza una meta precisa; i personaggi si incontrano, si scontrano, entrano in contatto, ma senza arrivare (quasi) mai a creare un rapporto vero. Le parole non hanno la forza necessaria per creare una vera comunicazione, un ponte tra sé e gli altri (e anche i film stessi potrebbero farne a meno; anche se muti non perderebbero minimamente la loro forza espressiva).
In tutte le situazioni un senso di colpa opprimente aleggia sovrano, e nessuno ne è escluso.
Ma quale colpa? Forse la colpa che ha le sue radici nel passato ma che continua a perpetuarsi anche nel presente (le scene agghiaccianti del sacrificio della bambina e di una tribù africana da parte di membri dell’alta società); o forse è la colpa di non riuscire a ribellarsi al quotidiano, alle catene di una società che nullifica l’individuo rendendolo oppresso, schiavo della sua stessa vita. In questo contesto, però, lo sguardo del regista non muove un’accusa contro questo mondo e coloro che lo abitano; è uno sguardo compassionevole e comprensivo, quasi affettuoso, verso creature vulnerabili. Lo sguardo di Roy Andersson è lucido e critico, il suo tocco è delicato e sensibile.
«In generale la trilogia chiede agli spettatori di esaminare se stessi; chiedendo loro «Cosa stiamo facendo? Dove siamo diretti?», intende generare riflessione e contemplazione in merito alla nostra esistenza con una dose abbondante di tragicommedia, passione per la vita, e un rispetto fondamentale per l’esistenza umana. La trilogia mostra un’umanità potenzialmente diretta verso l’apocalisse, ma dice anche che il risultato è nelle nostre mani».

1 commento: