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martedì 30 gennaio 2018

THE POST

di Matteo Marescalco

Steven Spielberg è, senza dubbio, uno dei più grandi narratori per immagini di tutti i tempi, il cui cinema strettamente ancorato alla cultura americana riesce tuttavia ad abbracciare un'universalità tematica in modo sempre più sorprendente. The Post riunisce il regista ad un duo da sogni: Meryl Streep e Tom Hanks si sono uniti a Spielberg nella realizzazione di un instant movie che ha bruciato le tappe per intercettare al meglio l'attuale situazione mondiale.

Daniel Ellsberg è un economista ed impiegato al Pentagono convinto che la guerra in Vietnam stia danneggiando gravemente il suo Paese. Decide, allora, di trafugare un dossier di ben 7000 pagine che attesta dettagliatamente l'implicazione militare e politica degli USA in Vietnam. I documenti contraddicono palesemente quanto sostenuto in pubblico da quattro presidenti. Il primo quotidiano a rivelare la questione è il New York Times che, a seguito di un'ingiunzione da parte della Corte Suprema, abbandona la partita. Quelli che passeranno alla storia come i Pentagon Papers finiranno tra le mani di Katharine Graham e Ben Bradlee, rispettivamente editore e direttore del Washington Post. Mettendo a rischio la sua azienda e la carriera dei propri redattori, Katharine decide di dare il via libera alla pubblicazione del dossier, svelando le menzogne della classe politica americana e assestando il primo duro colpo all'amministrazione Nixon.

Ciò che colpisce più di tutto, persino della straordinaria capacità di messa in scena del film, è la riflessione compiuta sul tempo. Nel mare magnum di film e di serie-tv usa e getta che omaggiano ed accarezzano con affetto i seventies, l'atteggiamento di Spielberg non si adagia mai su una simile trattazione superficiale ma crea un atto di resistenza all'istantaneità della cultura digitale della nostra epoca. In The Post, ogni azione necessita di un dato tempo per essere assimilata. In questa progressione, che segue il magma ribollente per linee verticali (l'architettura della locandina è già abbastanza esplicita), persino un soggiorno si trasforma nel palcoscenico della Storia, un luogo in cui ogni gesto, dal più palese al meno visibile, contribuisce all'innalzamento della tensione e al raggiungimento della meta. È come se la Storia trovasse la sua genesi nella convivenza tra dinamiche pubbliche e private, nella somma dei gesti di tutte quelle individualità che trasformano il film in una polifonia di voci.

La lezione di cinema di Steven Spielberg crede ancora negli oggetti, negli arredamenti, nei meccanismi e in ciò che rappresentano. Ogni dettaglio è un inno alla tangibilità ed alla dilatazione dell'attimo che fu. La catena di montaggio che dà vita al giornale cartaceo è osservata con lo stesso senso della meraviglia che ha animato i capolavori fantascientifici del regista americano che, ancora una volta, costruisce la tensione su un vastissimo campionario di caratteri. Il meccanismo di campo e controcampo edifica la geografia degli spazi nel cinema di Spielberg puntando tutto sulla centralità dell'essere umano nell'ecosistema della storia narrata. Ed è nel cinismo dei tempi correnti che Spielberg si fa carico di ricostruire un cinema come isola felice, ultimo custode di un bagliore mitologico che incendia lo schermo e le coscienze di chi guarda, confermandosi, ancora una volta come uno dei più grandi narratori per immagini di sempre. 

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