di Matteo Marescalco
Al suo undicesimo film da regista, Paolo Virzì abbandona il
genere che ha sempre trattato finora e che gli è valso il titolo di
erede contemporaneo della grande commedia all'italiana e dirige il
suo primo noir, non privo, comunque, di sottili venature ironiche,
che si candida ad essere la sua opera più ambiziosa. La
sceneggiatura, curata dal regista con la collaborazione del solito
Francesco Bruni e di Francesco Piccolo, è tratta dall'omonimo
romanzo di Stephen Amidon. Il lungometraggio è incentrato sul
disfacimento economico e morale italiano, affrontato ponendo
l'attenzione, tramite la sapiente struttura reticolare della
narrazione caratterizzata da una scansione in capitoli che offre, a
seconda dei personaggi, più punti di vista differenti sui medesimi
eventi, sulla famiglia di Dino Ossola (interpretato da un magnifico
Fabrizio Bentivoglio mai così sopra le righe), uomo comune che mira
al salto sociale, e di Carlo Bernaschi (il luciferino e “tirato”
Fabrizio Gifuni, affiancato da Valeria Bruni Tedeschi, che riesce a
rendere perfettamente funzionale la sua costante monoespressività),
squalo della finanza italiana, pronto a tutto pur di trionfare sempre
e comunque. In questo inferno arido di sentimenti e colmo di
tristezza, in cui l'unica cosa che conta è il valore economico delle
cose più che quello simbolico delle relazioni umane, Virzì segue i
suoi personaggi per un periodo che nel racconto si estende per sei
mesi, tra rivendicazioni e frustrazioni, sogni irrealizzati e
ambizioni di potere, rimpianti e collisioni sociali, fino alla
tragedia finale che, però, lascia ben poco spazio alla catarsi. In
questa amara riflessione sull'essere umano, in cui le persone prese
in considerazione si ergono ad emblemi della situazione italiana
contemporanea, non c'è tempo (ricordate che il tempo è denaro) per
la speranza filiale né per la redenzione. Ciò che resta è un vuoto
incolmabile. Con la consapevolezza che i primi resteranno primi e
gli ultimi sempre ultimi.
Voto: ★★★1/2
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