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giovedì 5 settembre 2013

GRAVITY

di Matteo Marescalco

Un'angosciante e solitaria odissea di due soli personaggi isolati nello spazio, dalla durata complessiva di 92 minuti, con un piano sequenza iniziale di 17 minuti e 156 piani totali che stridono fortemente con i 1000/2000 richiesti, di solito, per realizzare un blockbuster del genere. Questo, e molto altro ancora, è "Gravity", diretto dal regista messicano Alfonso Cuaròn, che, dopo sette anni di assenza, torna dietro la macchina da presa, presentando, fuori concorso ed in anteprima mondiale, la sua ultima fatica, in apertura alla 70esima edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia. Per Cuaron si tratta di un dolce ritorno al Lido: il regista di "La piccola principessa" e "Harry Potter e il prigioniero di Azkaban" aveva già presentato in Laguna i suoi precedenti lavori "Y tu mamà tambien" e "I figli degli uomini", che aveva fruttato al direttore della fotografia Emmanuel Lubezki, suo fido collaboratore, una più che meritata "Osella" al miglior contributo tecnico.
Protagonista di "Gravity" è l'astronauta Ryan Stone, interpretata magistralmente, contro ogni mia aprioristica previsione, da un'androgina Sandra Bullock, che ha il pregio di reggere il film interamente sulle proprie spalle per più di un'ora, e che, affiancata da Matt Kowalski-George Clooney, lavora ad una serie di riparazioni di una stazione orbitante nello spazio. All'improvviso, una catena di "sfortunati" eventi imprevisti e di effetti collaterali scaraventa contro i due personaggi una tempesta di detriti che distrugge la loro stazione orbitale, eliminando ogni collegamento con Houston e lasciando i due astronauti a vagare da soli nello spazio e a cercare un modo per tentare il rientro sulla Terra.
La catena di imprevisti che ha colpito il film sembra, ironicamente, assai simile a quella che rende difficile i 90 minuti nello spazio alla dottoressa Stone: dopo cinque anni di lavoro, cambio di Studio (Cuaròn e il figlio Jonas avevano proposto la sceneggiatura, che, alla fine è stata acquistata dalla Paramount, alla Universal), svariati rifiuti e spostamenti progressivi del cast (il copione è stato
proposto a Robert Downey jr., Angelina Jolie, Natalie Portman e Marion Cotillard), esce il film che entra di diritto tra le pietre miliari del cinema di fantascienza, con cui, volenti o nolenti, tutti i registi


che gireranno d'ora in poi film di questo genere dovranno più o meno confrontarsi.
L'affascinante incipit è un colpo al cuore: un lungo piano sequenza di 17 minuti, in cui la macchina da presa, come fosse un vero e proprio oggetto di scena inserito in quel determinato momento in quel determinato contesto, danza in uno spazio privo di forza di gravità, gettandoci, anche per merito di una martellante colonna sonora, nell'universo angoscioso ed angosciante del film. Straordinari sono i movimenti ondulatori e rotatori della cinepresa di Cuaròn e l'illuminazione in controluce di Emmanuel Lubezki, bravissimi nel valorizzare oltremodo la profondità di campo e nel distillare nel corso del film una dose di angoscia e di suspense che rendono "Gravity" sconsigliato agli agorafobici ed ai claustrofobici. Perchè, ciò che fa paura non è solo l'enorme buco nero dello spazio sconfinato (oltre al baratro interiore da cui non sembra esserci via d'uscita), ma anche il sicuro cantuccio "domestico" dell'astronave, che, però, non si rivelerà come un luogo in grado di proteggere l'astronauta Stone e di assicurarle il ritorno a casa (la distensione del cavo-cordone ombelicale che consente il ritorno al grembo materno dell'astronave, preludio alla ri-
 

nascita interiore, presenta, all'inizio, varie difficoltà). Secondo Alfonso Cuaron:"C’è voluto del tempo e la sfida più grande era riuscire a far abituare tutto il cast, dai disegnatori fino agli attori, a pensare in una modalità differente. Il nostro cervello è abituato a ragionare in un ambiente gravitazionale mentre qui dovevamo cercare di descrivere al meglio uno spazio dove tutto risulta privo di pesantezza. Non abbiamo certo realizzato un documentario ma il nostro intento era quello di riuscire ad assorbire al meglio l’atmosfera di vuoto data dall’universo, per farla confluire poi all’interno dei personaggi. Questi ultimi vivono continuamente la metafora dello spazio: un gioco al massacro tra vita e vuoto, senso di morte e rinascita."
Più che su un'odissea spaziale, "Gravity" è (come il sottovalutato "I figli degli uomini") un'opera filosofica incentrata sull'odissea che vive ogni singolo essere umano durante la propria vita, continuamente bersagliata da detriti fatti non di materiale spaziale, ma di drammi personali, sconfitte, rinunce. Ecco che, a tal proposito, come ha ammesso il co-sceneggiatore Jonas Cuaron, la genesi del film è caratterizzata da un doppio binario, da un lato, un percorso fatto di suspense, dall'altro una riflessione sulla vita mediante la terrificante solitudine dei due protagonisti. Il tutto perfettamente orchestrato da una sceneggiatura caratterizzata anche da improvvise sferzate di umorismo che alleggeriscono momentaneamente la situazione, e che stimola una piena identificazione spettatoriale, coinvolgendo sinesteticamente gli spettatori. Lo spazio, nel film di Cuaron, è un non-luogo metafisico, mistico e straniante, un vuoto che contiene il tutto, che fa da "apripista" e da preludio ad un inevitabile cambiamento che non può non arrivare
e che, qua, riguarda il personaggio interpretato da Sandra Bullock, donna dalle fattezze maschili, colpita, in passato, da un evento tragico che, ora, trova la sua più terrificante proiezione nell'oscura solitudine spaziale, che si configura come uno spazio fantasmatico che diventa oggettivazione dei traumi e dei dubbi personali, luogo di lotta tra la vita e la morte. Ed è proprio nel momento di massima sofferenza, abbattimento e delirio mentale, di completo nichilismo e di sfiducia nei confronti del proprio passato, che l'uomo deve affermare la propria dignità, e che Ryan Stone è pronta a riscrivere il libro della propria vita, o meglio ancora, ad



accettare, con un nuovo punto di vista, ciò che quel libro le ha riservato. Monumentale, a tal proposito, l'omaggio a "2001 Odissea nello spazio", con il piano in cui il corpo della Bullock (il Bambino delle Stelle) rotea placidamente in posizione fetale all'interno dell'astronave-grembo materno (che qui si rivela come uno spazio ostile che non può più proteggere dalle intemperie del mondo esterno), anticipando la rinascita e la nuova consapevolezza di sè tramite una serie di tappe che portano la donna Ryan Stone (non più astronauta, semplicemente, essere umano) dall'humus alla conoscenza. Il viaggio nello spazio è, qui, inteso come viaggio alla ricerca di un nuovo sè, come proiezione dell'ente individuale verso una nuova nascita che non può che avvenire in un territorio altro, oscuro, ostile, inesplorato, insensato, lontano dall'ipersemiotizzato universo terrestre. Qui, e ne I figli degli uomini, l'Uomo si rivela tale in quanto dotato della possibilità di scelta, non è più l'heideggeriano e arrendevole essere per la morte che precede la nietzschiana (ri)nascita del bimbo-oltreuomo profetizzata ed accompagnata da Zarathustra-Theo-Clive Owen, che qui trova il suo corrispettivo in Matt Kowalski-George Clooney, in grado di andare oltre e di non dare altri significati ad una nascita se non, appunto, quello essenziale di nascita, al di là del fatto che si tratti della venuta al mondo di un nuovo Salvatore in grado di salvare il mondo dal baratro di valori in cui è precipitato, tramite un sacrificio che porta all'aborto del vecchio ed
 

inautentico sè.
Ed, ancora una volta, come in quasi tutti i film di Alfonso Cuaròn, il finale non può che avvenire in acqua. In "Y tu mamà tambien", la spiaggia di Boca del Cielo, che è più un luogo mentale che un
luogo vero e proprio, con la scomparsa tra le acque della protagonista femminile, trasporta i due giovani personaggi interpretati da Diego Luna e da Gael Garcia Bernal dall'adolescenza alla maturità, tramite un inaspettato incontro con la morte, che sancisce anche la fine della loro lunga amicizia. Ne "I figli degli uomini", la ri-nascita del genere umano è affidata ad un'esile barca che trasporta la donna nera ed il suo cocchiere alla ben più grande e stabile nave Tomorrow che dovrebbe, a sua volta, condurre l'umanità verso una nuova vita. Applausi a scena aperta per Cuaròn che è riuscito, ancora una volta, a dirigere un film sfruttando i meccanismi di genere e rielaborandoli in chiave filosofica, ha saputo mettere in scena un ipotetico (ed illusorio) viaggio mentale-cammino verso la conoscenza e la piena consapevolezza di un nuovo sè, utilizzando al massimo i meccanismi di una sceneggiatura tradizionale e del 3D che funzionano perchè ancorano saldamente lo spettatore alla storia e lo gettano nell'angoscioso vortice oscuro dell'infinito spazio della nostra esistenza. Unica pecca: l'incredibile serie di sfortunati eventi che tartassa e rende impossibile la vita spaziale dell'ingegnere Stone ed il finale che, fortunatamente solo ad una prima e semplicistica lettura, potrebbe apparire lievemente consolatorio e buonista. 

Voto: ★★★★
 

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