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venerdì 11 agosto 2017

BABY DRIVER

di Macha Martini

PER UN PUNTO, BABY DRIVER PERSE LA CAPPA

Parte 1: Il genio
Rosso, come la violenza nel film. Blu, colore tipicamente associato al poliziesco. Verde menta per l’aura misteriosa del fantascientifico. In poche parole: La trilogia del cornetto, opera satirica che ironizza sul lavoro di Kieslowski, come afferma lo stesso genio dell’opera. Un idolo generazionale. Un’opera che finalmente è demenziale, ma senza essere un B movie alla, per dirla all’italiana, Natale a Timbuctu. Questo è di sicuro uno dei film per cui vale la pena affermare che Edgar Wright è, senza ombra di dubbio, un genio indiscusso. Nel corso della sua carriera ha mostrato, sempre di più, questo suo lato ironico, con questa pazzia di fondo. Pazzia che, in confronto a quella dei Coen e di Wes Anderson, è portata al limite, quasi al parossismo. Film paradossali, che però mantengono una linea di senso, un’armonia. Con il passare del tempo, Wright ha dimostrato di saper condurre una regia semplice ed efficace, senza tentare uno stile autoriale-poetico marcato. Tuttavia, spicca subito, invece, il suo talento innato per la sceneggiatura e i dialoghi, sempre vivi ed elettrizzanti. Lo si può notare anche nel suo penultimo lavoro: Ant-Man, dalla sceneggiatura fresca e leggera. Come a tutti i geni, però, può capitare di sbagliare il tiro. Questo è quello che è successo con Baby Driver, dove vale il detto italiano: per un punto Martin perse la cappa. Torniamo, però, un attimo indietro.

Parte 2: Rewind
1978, Walter Hill, Driver-L’imprendibile. Dopo Refn, anche Wright decide di prendere spunto da questo film per il suo nuovo progetto. Un elemento in comune tra le opere dei due cineasti è il protagonista quasi muto (caratteristica presente anche nel film originale). Tale elemento, però, è trattato in maniera totalmente differente. Se Refn ne dà una motivazione psicologica-caratteriale, che rende il personaggio affine al suo stile cinematografico: rarefatto e quieto, come la calma prima della tempesta; invece Wright lo adatta alla sua personalità.
Baby è silenzioso in quanto ha riportato una lesione ai timpani, a causa della quale, non solo non sente bene, ma sente un continuo fischio. Quel classico fischio che sentiamo nei film quando una bomba scoppia vicino a uno dei protagonisti con cui ci stiamo immedesimando in quel momento a livello sonoro. Per azzittire questo insopportabile rumore, decide di ascoltare la musica, che quindi fungerà da leitmotiv per tutto il film, molto similmente al Mommy di Dolan, dove però la musica non è legata alla figura del padre, ma a quella della madre. Questo permette al regista del cornetto di rendere il film molto più pop ed elettrizzante. 
Esempio calzante è la scena durante una rapina, in cui devono scappare, ma prima di dare gas al motore e partire, Baby aspetta l’attacco giusto della musica. Questo lo porta anche ad aumentare il ritmo, rendendo la visione dinamica grazie alla sincronia dell’azione visiva, del montaggio delle inquadrature e del montaggio sonoro, dato, per l’appunto, da questa colonna sonora molto carica (esempio i Queen), che parte come soggettiva per diventare anche oggettiva (intradiegetica, quindi). Tutto ciò coinvolge pienamente lo spettatore fino a poco meno della metà del film, quando il ritmo inizia a calare. Trovata comunque geniale per la sua anti-convenzionalità, che porta lo spettatore all’interno di una montagna russa. In sceneggiatura, infatti, è abitudine  alzare il ritmo nel secondo atto fino a un climax che pian piano riporti le onde del mare a calmarsi. Wright, però, vuole reinventare il cinema, quindi ecco un primo atto carico, che dopo 30 minuti si abbassa, per poi alzarsi gradualmente fino a riesplodere nel finale. 
Un film dunque geniale, peccato per uno sciocco errore di sceneggiatura, forse dovuto al minutaggio? A scene tagliate dalla produzione? Al fatto di voler “pisciare” troppo fuori dal vaso? Ma comunque un errore per cui Vogler non perdona.

Parte 3: Il viaggio dell’antagonista (rischio spoiler)
L’antagonista deve, solitamente, essere delineato fin da subito, eccetto rari casi in cui avviene un cambio di genere come il film di Rodriguez, in cui all’improvviso altri sono i cattivi principali. In Baby Driver fin da subito Kevin Spacey e Jamie Foxx vengono delineati come i due antagonisti di livello 2 e 1, salvo poi, senza nessun percorso o senza nessun’analisi, diventare tutt’altro ed essere sostituiti da un antagonista, inizialmente possibile aiutante, poco prima dell’ultima mezz’ora del film. Le regole sono fatte per essere infrante, ma per essere infrante si deve comunque seguire un criterio di un certo tipo, basti vedere un qualsiasi film di Kaufman, che, abilmente, ignora le convenzioni per crearne delle nuove, ma, pur sempre, rimanendo in una coerenza generale. Qui la coerenza non c’è. Due attori importanti sprecati per quanto riguarda il loro ruolo nella storia. Un non senso non giustificato, perché non cambia genere e il non senso non è neanche dichiarato a inizio film.
In conclusione, sì questo film ha fatto di sicuro esaltare i fan da quattro spicci di Edgar Wright, quei fan che a priori trovano bello un film di un autore che a loro piace, solo perché è lui. Tuttavia, i veri fan, quelli che hanno capito il valore di un determinato regista/sceneggiatore sanno intuire quando questi non ha utilizzato a pieno il suo talento, cadendo in errori banali. Quindi, per un punto Edgar Wright/Baby Driver perse la cappa.

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