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martedì 31 gennaio 2017

T2 TRAINSPOTTING

di Matteo Marescalco

-(...) diventerò esattamente come voi: il lavoro, la famiglia, il maxitelevisore del cazzo, la lavatrice, la macchina, il cd e l'apriscatole elettrico, buona salute, colesterolo basso, polizza vita, mutuo, prima casa, moda casual, valigie, salotto di tre pezzi, fai da te, telequiz, schifezze nella pancia, figli, a spasso nel parco, orario d'ufficio, bravo a golf, l'auto lavata, tanti maglioni, natale in famiglia, pensione privata, esenzione fiscale, tirando avanti lontano dai guai, in attesa del giorno in cui morirai-.

Nel lontano 1996, Trainspotting di Danny Boyle, che ancora aveva alle spalle soltanto Piccoli omicidi tra amici, irrompeva al Festival di Cannes come un prodotto destinato a raggiungere, nel corso di breve tempo, lo statuto di icona e ad imporsi prepotentemente nell'immaginario collettivo. Il finale del film, con il tradimento di Mark Renton nei confronti dei suoi amici, lasciava aperto un interrogativo sul futuro del ragazzo: sarebbe riuscito ad uscire dal tunnel dell'eroina e a scegliere effettivamente la vita? Se è vero che il cinema è in grado di scuotere le coscienze e di generare quesiti post-visione, la curiosità attorno all'ipotesi di un possibile sequel, ventilata nel 2013, ha raggiunto il culmine negli ultimi anni. A più di 40 anni, che fine hanno fatto Rent, Begbie, Spud e Sick Boy? Il primo, vent'anni dopo il famigerato tiro mancino, torna in Scozia per saldare il debito con gli amici. Obiettivo comune? Evitare Begbie, scheggia impazzita in cerca di vendetta.

L'anno scorso, un'operazione simile è stata compiuta da Ben Stiller, che ha portato in sala il sequel del suo Zoolander. Per quanto riguarda Trainspotting, l'asticella della difficoltà è nettamente più in alto. Perchè il tempo intercorso tra il primo episodio e questo sequel è maggiore rispetto ai due Zoolander e perchè, senza dubbio, il film di Boyle è più sedimentato nella memoria sociale. Sarebbe interessante prendere in esame due aspetti: le modalità attraverso cui il cinema di Boyle si è evoluto, dagli anni in cui le tecnologie digitali erano seminali fino ad oggi, ed il lavoro di rinnovo degli aspetti culturali e sociali di Trainspotting. Per quanto riguarda il primo punto, T2 può essere considerato come un compendio delle peggiori debolezze del cinema dell'autore inglese che gioca continuamente con l'estrema mobilità della macchina da presa, alternando punti di vista irreali ad estremi movimenti che frammentano il profilmico. Il montaggio include una miriade di clip tratte dal primo episodio che generano più di un cortocircuito narrativo e che provocano la caduta del film nella ridondanza e nel sentimentalismo più smaccato. Il digitale ha raggiunto una purezza d'immagine ed una pulizia che rendono l'operazione T2 Trainspotting anacronistica: è tutto troppo levigato e formalizzato per essere credibile. 

Nel complesso, l'operazione nostalgia delude perchè sembra vergognarsi di se stessa e, nonostante qualche guizzo, precipita nel baratro della propria tristezza, reso ancora più profondo dalle svariate indecisioni a livello visivo e da una scenaggiatura che non brilla per ritmo ed equilibrio. Se, da un lato, è una fortuna che T2 riesca a discostarsi dal materiale di partenza e a non ricalcarne troppo la forma (e tutto ciò, probabilmente, scontenterà i fan più accaniti), dall'altro, soffre di un inevitabile complesso di inferiorità nei confronti del primo episodio. Si ha l'impressione che quest'ultimo film di Boyle non sappia bene dove andare a parare, finendo per crollare su se stesso e sulle proprie ambizioni. 

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