*recensione pubblicata per Cinemonitor: http://www.cinemonitor.it/37727-il-bene-mio-la-bellezza-del-resistere/
C’è un che di eroico,
se non propriamente di titanico, in Elia, l’ultimo abitante del borgo di
Provvidenza, distrutto da un terremoto. L’uomo sostiene i resti del paesino
sulle proprie spalle e rifiuta di seguire il resto della comunità che,
trasferendosi a Nuova Provvidenza, ha deciso di dimenticare il passato. Invece,
Elia ascolta continuamente la voce del tempo che fu, è intimamente connesso ai
luoghi avvolti dal silenzio e saturi d’assenza, divorati dall’incuria e dalla
vegetazione, i cui unici sospiri appartengono al vento. Elia assorbe il vuoto
che gli sta intorno come modalità d’elaborazione di un lutto che lotta
ardentemente contro l’oblio e la rimozione del ricordo. L’uomo si prende
amorevolmente cura di ciò che è stato distrutto dal tempo, come un tenero
WALL-E di paese. Ripulisce il suo personale pianeta ormai disabitato, raccoglie
oggetti desueti che conserva in una stanza adibita a magazzino della memoria,
custode di un’anima autentica ed infantile ancorata ad una strenua forma di
resistenza. Con il suo continuo movimento, si rifiuta, quindi, di
cristallizzarsi.
Uno degli attimi
migliori de Il bene mio, l’ultimo film di Pippo Mezzapesa, presentato come Evento
Speciale Fuori Concorso della sezione Giornate degli Autori, in occasione della
75esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, porta in scena il
contrasto tra dinamismo cinematografico e freeze-frame fotografico. Elia
dovrebbe posare per uno scatto che non si concretizzerà mai. Anzi, è come se la
sua irriducibile mobilità non accettasse di diventare parte di un tempo
cristallizzatosi nel passato. Insegne sbiadite, case scorticate, disegni
scoloriti di bambini lasciano tracce, consegnate come segni da preservare nel
rapido fluire del tempo. E sono proprio queste le tracce che caratterizzano i
luoghi e li rendono umani.
Elia rifiuta di
adeguarsi al tempo mutato di Nuova Provvidenza, fedele al suo personale ritmo
vitale. La sua rivoluzione passa attraverso Noor, una giovane donna
in fuga, che lo porrà di fronte ad una scelta tutt’altro che facile. Il
personaggio di Sergio Rubini è una sorta di Don Chisciotte che lotta contro i
mulini a vento del tempo, un Cleveland Heep così ancorato alla sua terra e al
soffio del suo vento da rendere quasi fantastiche le figure che, ogni tanto,
vanno a visitare il luogo. Il bene mio è un’ode alla materia di un cinema
plastico e sporco di polvere; contro la liquidità della cultura digitale, è una
forma di resistenza nei confronti di simulacri ed artifici.
Si avverte persino
un senso fiabesco caro al regista indo-americano M. Night Shyamalan. Come il
protagonista di Lady in the water, anche Elia è l’ultimo custode di un luogo
dimenticato dal mondo, in attesa di essere redento, di trovare la propria
collocazione e di fondare un nuovo patto sociale, sulla base dei ruoli
assegnati dalla Provvidenza ad ogni abitante. E chi lo sa che non si palesi
un’epifania divina, una ninfa acquatica in fuga dal suo mondo, una traccia di
storie e racconti che emergono con prepotenza dal passato risvegliando negli
uomini la voglia di tornare ad ascoltare.
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