Sono state necessarie 59
edizioni prima di compiere la rivoluzione in casa David di Donatello. Per la
prima volta nella sua storia, la produzione e l’organizzazione dell’evento è
stata affidata a Sky che ha giustamente optato per un deciso restyling,
modellato sui ben più famosi Academy Awards. A risvegliare la
60esima edizione dalla solita sonnolenza è stato il conduttore di turno,
Alessandro Cattelan, a suo agio, quando appoggiato dai premiati, con le gag e
con i ritmi sostenuti del neo-evento. Finalmente, il cinema italiano non è sembrato
solamente uno specchietto per allodole, un pub ultra chic con vecchi camerieri ancorati
alle loro poltrone a servire giovani clienti fighetti, un ritrovo per
pseudo-mostri che immaginiamo proferire, a fine serata, la famigerata
espressione:
«E pure 'sto David se o semo levati da'e palle!». Alla sua 60esima
edizione, la cerimonia dei David di Donatello è apparsa come uno show forte
della propria industria culturale da far sfilare sul red carpet.
Con tanto di contributi video realizzati dai The Jackal, il futuro del panorama
mediale italiano, che sono riusciti persino a risvegliare il versante
autoironico di Paolo Sorrentino. Insomma, tutto è andato bene sul versante
organizzativo con la certezza che un maggiore rodaggio, negli anni a venire,
riuscirà a limare alcuni difetti. Peccato per il tentativo di boicottaggio del tirato
Toni Servillo, divo sempre nascosto dietro la sua maschera di grand acteur, e
per il solito show caciarone di Michele Placido, potenziale evaso da un
penitenziario di massima sicurezza per psicopatici.
Attendevamo molto quest’edizione
dei David. Il 2015 ed il 2016 sono stati, da molti, etichettati come gli anni
del risveglio produttivo del cinema italiano: film quali Lo chiamavano Jeeg Robot, Veloce come il vento, Non essere cattivo, Suburra, Il racconto dei racconti e Perfetti sconosciuti lo dimostrano. Qualcosa bolle in pentola, il
genere è vivo e funziona, sia in campo nazionale sia internazionale. I
produttori scommettono e investono e il pubblico premia il prodotto medio.
Senza dimenticare l’assoluto exploit di Checco Zalone, protagonista dello
storico risultato di circa 70 milioni di euro incassati al box office. Insomma,
la new wave dei film in gara e l’organizzazione affidata a Sky sembrano
riflettersi.
Se non fosse per un
vecchietto che troneggia in prima fila, emblema del lassez-faire italiano,
rappresentante di una generazione che sembra cambiare le cose ma che resterà
sempre immobile ed immutata nel corso del tempo. Il 94enne Gian Luigi Rondi,
dittatore dell’Accademia del Cinema Italiano-Ente David di Donatello, con cui è
“colluso” dal 1963, impassibile come una mummia sembra infastidito dallo scippo
di Sky a mamma Rai e dal nuovo corso degli eventi. Fissa con sdegno le clip
trasmesse ed il carattere rapido e giovanile della premiazione che, nonostante
le belle speranze iniziali, tracolla bruttamente. A trionfare, infatti, sono Lo
chiamavano Jeeg Robot e Il racconto dei racconti che portano a casa 7
statuette. Perfetti sconosciuti vince il David alla Miglior Sceneggiatura e
quello al Miglior Film. Apparentemente, sembrano tutti contenti. Tutto procede
per il meglio, l’insulso film di Paolo Sorrentino torna a casa (quasi) a mani
vuote e a trionfare è la vitalità del nuovo cinema, improntato sul genere e sul
modello della rom-com americana. Cosa c’è che non va, allora? Perché la premiazione tracolla?
L’assoluta dimenticanza
di Non essere cattivo, l’ultimo film di Claudio Caligari, autore di soli tre
film in ben 32 anni, accompagnato a lottare da Valerio Mastandrea e dalla
KimeraFilm che si sono schierati coraggiosamente a suo fianco e hanno investito
su un prodotto a rischio fallimento quando nessun altro lo ha fatto. Il film è
stato presentato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia ed è stato un vero
colpo al cuore. La storia di due ragazzi della periferia romana, alle prese con
i tristi e squallidi scenari della Roma degli anni ’90, fossili della
generazione pasoliniana, sconfitti senza aver mai avuto una minima possibilità,
condannati ad un tramonto eterno, ha scosso gli animi del pubblico veneziano.
Caligari e il suo gruppo si sono sporcati le mani nella nuda vita, realizzando
un film fatto di carne e di sangue, con al centro un gigantesco cuore pulsante.
Quello del suo regista, vittima della sofferenza
con cui ha partorito la sua ultima creatura. Nonostante avesse 16 nomination
dalla sua, Non essere cattivo ha trionfato solo nella categoria del Sonoro,
vincendo un’unica misera statuetta. Claudio Caligari non è stato minimamente
nominato. Un vero sfregio da parte dell'impresa di Rondi, troppo alto e chic per abbassarsi verso gli ultimi. L’impresa produttiva di Valerio Mastandrea e Simone Isola è passata
in secondo piano. E un vero uomo di cinema è stato completamente soffocato dai
vestiti di scena di una serie di giovani fighetti che hanno sempre visto il
cinema come un passatempo. Mai come una lotta armata contro la fine, una questione di
vita e di morte. Il cinema italiano è davvero cambiato, premiando Jeeg Robot e
Perfetti sconosciuti? O si tratta, ancora una volta, di un gigantesco abbaglio?
Di una presa in giro, insomma di un’illusione, di un misero velo?
Claudio Caligari,
probabilmente, avrebbe odiato l’accoglienza veneziana a Non essere cattivo.
Avrebbe odiato il fatto che il film sia stato scelto come rappresentante
italiano nella corsa agli Oscar. Avrebbe odiato questi improvvisi quanto
tardivi riconoscimenti. Non lo so con certezza. Non ho mai conosciuto Caligari personalmente. Ma non
sono l’unico. Sono certo che non lo conoscano nemmeno tutti i rappresentanti
della cultura istituzionale che lo hanno largamente elogiato durante gli ultimi
mesi, costruendo attorno a lui un baraccone mediatico. Sono gli stessi che,
ancora una volta, gli hanno voltato le spalle. Perché gli ultimi non saranno
mai i primi. Sono condannati a vivere una vita subalterna, ai margini, in
periferia. Meglio così. La verità nuda e cruda fa molto meno male di un falso
contentino. E Caligari si è dimostrato, fino alla fine e persino oltre, un vero
perdente. Cinico ma necessario destino il suo.
Alla fine della cerimonia, dopo i titoli di coda, tutti si alzano e vanno
via ma, nell’oscurità della sala, ormai non più baraccone scintillante ma contenitore di rovine, si aggirano due ragazzi dagli occhi colmi di lacrime:
«Daje Vittò, ce l’avemo
fatta!».
un maestro di vita e di cinema
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