Avevamo lasciato
Hirokazu Kore’eda alle prese con una vicenda giudiziaria, in concorso alla
74esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, e lo ritroviamo nuovamente
immerso nelle più tradizionali atmosfere che animano i suoi film. Per Un affare
di famiglia, il regista nipponico ha trionfato all’ultima edizione del Festival
di Cannes ed ha raggiunto l’affermazione presso un pubblico più ampio che,
prima della vittoria, ignorava il suo nome.
Osamu e il figlio Shota
tornano a casa dopo un furtarello in un supermercato locale. I due vivono con
quelli che sembrano essere i familiari in un’umile dimora. Per strada
incontrano la piccola e abbandonata Juri e decidono di prenderla con loro e presentarla
ai restanti membri della famiglia. La moglie di Osamu decide di occuparsi della
bambina quando scopre che i suoi genitori la maltrattavano. La famiglia vive di
espedienti e piccoli furti, che completano il magro salario offerto dalla
pensione della nonna. Per quanto possibile, sembra tutto filare liscio, fino a
quando un furto andato a male scuote le fondamenta della famiglia, rivelandone
un importante segreto che metterà a dura prova la sua esistenza.
Un affare di famiglia
lavora tantissimo sul dialogo con lo spettatore, inglobandolo nel racconto e
richiedendo la sua collaborazione in relazione all’interrogativo che già
animava il film Like father like son: che cos’è una famiglia? Ciò che ci tocca
o ciò che si sceglie? Insomma, la famiglia si afferma sempre più come il nucleo
attorno a cui costruire discorsi sulla società giapponese contemporanea e sul
contrasto tra morale e legge sociale. Il tempo scorre con delicatezza nel
cinema di Kore’eda, si affianca ai personaggi e lascia fluire le dinamiche che
animano i loro comportamenti. Tutto appare naturale, dai furtarelli inscenati
da padre e figlio agli abbracci consolatori all’interno di un night club
nipponico. Il cinema si trasforma in una complicità costruita attraverso i
raccordi tra le immagini.
È sempre più il tempo
dei sentimenti a costruire le storie di Kore’eda, la ricerca del flusso perduto
di chi ha dilapidato gli affetti familiari e vive quell’attimo in cui le utopie
giovanilistiche cedono il passo alla maturità dell’età adulta. E allora ci si
accontenta di una vita imperfetta ma autentica, spesa a redimersi attraverso il
tentativo di trasformarsi in parenti, genitori, cugini, fratelli, zii. Con l’obiettivo
di raggiungere un’autenticità che vive solo in determinate immagini
cinematografiche.
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