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mercoledì 12 settembre 2018

UN AFFARE DI FAMIGLIA

di Matteo Marescalco

Avevamo lasciato Hirokazu Kore’eda alle prese con una vicenda giudiziaria, in concorso alla 74esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, e lo ritroviamo nuovamente immerso nelle più tradizionali atmosfere che animano i suoi film. Per Un affare di famiglia, il regista nipponico ha trionfato all’ultima edizione del Festival di Cannes ed ha raggiunto l’affermazione presso un pubblico più ampio che, prima della vittoria, ignorava il suo nome.
Osamu e il figlio Shota tornano a casa dopo un furtarello in un supermercato locale. I due vivono con quelli che sembrano essere i familiari in un’umile dimora. Per strada incontrano la piccola e abbandonata Juri e decidono di prenderla con loro e presentarla ai restanti membri della famiglia. La moglie di Osamu decide di occuparsi della bambina quando scopre che i suoi genitori la maltrattavano. La famiglia vive di espedienti e piccoli furti, che completano il magro salario offerto dalla pensione della nonna. Per quanto possibile, sembra tutto filare liscio, fino a quando un furto andato a male scuote le fondamenta della famiglia, rivelandone un importante segreto che metterà a dura prova la sua esistenza.
Un affare di famiglia lavora tantissimo sul dialogo con lo spettatore, inglobandolo nel racconto e richiedendo la sua collaborazione in relazione all’interrogativo che già animava il film Like father like son: che cos’è una famiglia? Ciò che ci tocca o ciò che si sceglie? Insomma, la famiglia si afferma sempre più come il nucleo attorno a cui costruire discorsi sulla società giapponese contemporanea e sul contrasto tra morale e legge sociale. Il tempo scorre con delicatezza nel cinema di Kore’eda, si affianca ai personaggi e lascia fluire le dinamiche che animano i loro comportamenti. Tutto appare naturale, dai furtarelli inscenati da padre e figlio agli abbracci consolatori all’interno di un night club nipponico. Il cinema si trasforma in una complicità costruita attraverso i raccordi tra le immagini.
È sempre più il tempo dei sentimenti a costruire le storie di Kore’eda, la ricerca del flusso perduto di chi ha dilapidato gli affetti familiari e vive quell’attimo in cui le utopie giovanilistiche cedono il passo alla maturità dell’età adulta. E allora ci si accontenta di una vita imperfetta ma autentica, spesa a redimersi attraverso il tentativo di trasformarsi in parenti, genitori, cugini, fratelli, zii. Con l’obiettivo di raggiungere un’autenticità che vive solo in determinate immagini cinematografiche. 

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