Negli anni ‘80, a Detroit, essere in possesso di più di 650 grammi di stupefacenti comportava l’ergastolo senza possibilità di condizionale. Non importava che lo spacciatore fosse poco più che un ragazzino e nemmeno che avesse cominciato collaborando con l’FBI, spinto ad entrare nelle gang come infiltrato e dietro minaccia.
Cocaine-La vera storia di white boy Rick è un pugno allo stomaco. Si tratta di un film che, essendo ispirato a fatti reali e potendo contare su ottime interpretazioni, coinvolge e allo stesso tempo lascia molta angoscia. La pellicola si apre all’interno di una fiera in cui Rick (il giovane e promettente Richie Merritt) e il padre (Matthew McConaughey) sono andati a fare acquisti in quella che a Detroit appare come una normale domenica in famiglia, trascorsa a scegliere quali armi comprare per modificarle e poi rivenderle. Così, se all’inizio di alcuni film americani viene mostrato il suggestivo skyline di qualche metropoli, in Cocaine una delle prime inquadrature evidenzia fin da subito il degrado dell’ambiente dove i protagonisti vivono.
La storia in cui si è immersi è quella di un ragazzino di quattordici anni che viene agganciato dall’FBI per infiltrarsi nei gruppi di spacciatori afroamericani e smascherare quella complessa organizzazione criminale che si contendeva il potere. E, nella città con il più alto tasso di popolazione nera degli USA, un adolescente con la pelle bianca non passava di certo inosservato. Proprio da ciò deriva il suo soprannome: white boy Rick. Siamo negli anni ’80, periodo di mode discutibili e Skate and roll, locale in cui è ambientata una scena dove tra colori fluo, capelli cotonati e disco music sembra che la macchina da presa diretta da Yann Damange si muova allo stesso ritmo dei personaggi in pattini a rotelle sulla pista da ballo.
Quella di Rick è una famiglia a pezzi: la madre ha abbandonato i propri cari, mentre Dawn, la sorella maggiore a cui il ragazzo è molto legato, ha problemi di dipendenza e per un po’ si trasferisce dal fidanzato/spacciatore, che però la picchia. Il padre invece appare come un uomo illuso, deciso a non abbandonare quella città in cui ha sempre vissuto e convinto di racimolare un po’ di denaro per poter finalmente aprire una videoteca, cercando nel frattempo di tenere unito ciò che resta del proprio nucleo familiare. Da parte sua, il protagonista, a soli quattordici anni, con il volto quasi completamente imberbe se non fosse per un accenno di baffetti, ha già abbandonato la scuola e quando gli si presenta l’occasione di guadagnare bene, dopo qualche titubanza, accetta la proposta con l’ingenuità di un adolescente di un quartiere difficile che pensa di riuscire a cavarsela senza grossi problemi.
Il suo personaggio non può che suscitare tenerezza, in particolare nei momenti in cui alterna il linguaggio volgare, la sua attività di criminale, con i pacchetti di droga che passano di mano in mano, e le manifestazioni d’affetto per la sorella, che mostrano come in fin dei conti resti pur sempre un bambino, costretto a crescere troppo in fretta. Così se in una scena lo si vede seduto accanto a Dawn con un enorme peluche che ha trovato per strada e le ha preso come regalo, nella scena dopo è con un arma in pugno mentre spara all’uomo che gli ha appena rubato la macchina. A tal proposito in uno scambio di battute con la sorella, il protagonista afferma con una naturalezza disarmante: «Era bello, vero? Quando eravamo bambini, per un po’», e lei stupita da queste parole gli risponde: «Tu sei ancora un bambino, Rick». Una considerazione che lascia molta amarezza, ma provoca anche rabbia per l’ingiustizia della situazione in cui questo adolescente si trova a vivere. Ciò non significa che il protagonista sia esente da colpe. Eppure non si riesce a non provare compassione per lui e la sua vita bruciata a soli 17 anni. Perché se è vero che ognuno può impegnarsi per cercare di cambiare il proprio destino, diventa molto più difficile farlo quando l’ambiente degradato che ti circonda è l’unico che hai mai conosciuto. Inoltre, dal film emerge un’immagine del sistema giudiziario americano particolarmente cinica, in cui il governo federale inizialmente ricatta un quattordicenne per ottenere il suo aiuto e dopo averlo usato, quando è lui ad aver bisogno, si disinteressa della sua situazione, non impegnandosi veramente a tirarlo fuori dal grave guaio in cui si è cacciato.
Particolarmente toccanti sono le ultime scene in cui Rick viene arrestato e poi condannato. Preso da una sorta di apatia, lo si vede piangere soltanto per pochi momenti, ma anche in queste occasioni la sua reazione appare fin troppo composta. Non si lascia andare alla disperazione che ci si aspetterebbe da un adolescente a cui viene detto che trascorrerà il resto della propria vita in prigione. Forse ciò è dovuto proprio al fatto che questo ragazzino cresciuto a Detroit non ha mai nutrito grandi speranze per se stesso, si è goduto la vita tra spaccio, donne e soldi finché è durata, bruciando subito tutte le tappe, ma consapevole di un futuro segnato fin dall’inizio. Non a caso per sdrammatizzare nei momenti difficili una battuta che scambia con la sorella è: «Meno male che non hai perso la bellezza… perché non l’hai mai avuta».
Così alla fine del film al diciassettenne Rick vengono trovati 8 chili di cocaina, il doppio del peso che aveva quando era nato, un tempo ormai lontano in cui il padre poteva ancora immaginare per lui un’esistenza migliore della sua.
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