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mercoledì 27 marzo 2019

CAPTIVE STATE

di Maria Concetta Fontana

Nel 2016, Chicago viene invasa da una misteriosa razza aliena che ne prende il comando. Da allora, sono trascorsi nove anni e i potenti del Paese si sono alleati con i dominatori. Come in ogni dittatura, il controllo esercitato sulla popolazione è a livelli altissimi: ciascun abitante ha sottopelle una cimice che permette di sapere in ogni momento dove si trova. A ciò si uniscono le oceaniche manifestazioni durante le quali tutti i partecipanti, come robot, ripetono gli stessi gesti osannando il nuovo ordine. Pace, unità e armonia è lo slogan appeso sui grattacieli dal governo, il quale si vanta di aver debellato povertà e disoccupazione. Ma il prezzo per tale “sicurezza” è come sempre la libertà. A differenza, però, di altri tipi di dittature in cui a governare sono comunque membri della stessa razza umana, in questo caso la popolazione diventa suddita di un’altra specie. Così, proprio come nel suo precedente lavoro, L’alba del pianeta delle scimmie, anche in questo suo ultimo film, Captive State, il regista Rupert Wyatt mette in scena lo scontro tra due gruppi diversi.

La pellicola dapprima segue il giovane Gabriel (interpretato da Ashton Sanders, uno dei protagonisti di Moonlight), rimasto orfano durante l’invasione e da qualche anno privo anche del fratello maggiore, che si è unito al gruppo di ribelli chiamato la Fenice. Il giovane protagonista lavora in una fabbrica in cui vengono archiviati nei computer governativi i materiali presenti nelle vecchie memorie telefoniche. Nella società raccontata in Captive State, ogni mezzo tecnologico è bandito così da evitare qualsiasi tipo di contatto. In realtà, però, Gabriel conserva alcuni di questi oggetti illegali per rivenderli al mercato nero e accumulare così un po’ di soldi che gli servono per fuggire da quella prigione che è ormai diventata Chicago. I suoi piani però sono destinati ad andare in frantumi quando viene agganciato sia dal fratello maggiore Rafe che da un poliziotto, il quale sta indagando per sventare qualsiasi azione anarchica. A questo punto il giovane deve decidere se è disposto a sacrificarsi insieme ai ribelli oppure allearsi con i collaborazionisti e diventare la loro spia.

In particolare l’obiettivo della Fenice è distruggere la Sears Tower, il centro di controllo alieno che
sorveglia gli abitanti della città e allo stesso tempo impedisce loro di comunicare con l’esterno. Così, nella parte centrale della pellicola si perde di vista Gabriel per dedicarsi al racconto di questa decisiva azione di resistenza, tramite un montaggio incalzante coadiuvato dall’altrettanto adrenalinica colonna sonora. Tale cambio di prospettiva, in cui si abbandona per un po’ il giovane protagonista, ancora insicuro su come agire, insieme al finale ricco di azione, rende il tutto non perfettamente armonico e in parte confusionario.

Una delle caratteristiche dell’invasione raccontata in Captive State è che gli occupanti si vedono molto poco, anche perché abitano in una zona sotterranea dove soltanto ad alcuni esseri umani è concesso di accedere. Il fatto che la minaccia sia quasi invisibile rende tutto ancora più temibile, poiché non conoscere di persona il proprio nemico lo fa diventare ancora più difficile da combattere. Ma ciò che stupisce è come alcuni uomini, pur di continuare ad avere una parte del potere, siano disposti a sottomettere altri essere umani, in una gerarchia in cui comunque non possono essere loro al vertice. Così durante il golpe organizzato dalla Fenice per far cadere il governo invasore, viene utilizzato come arma inconsapevole proprio uno dei collaborazionisti.

Come ogni distopia, anche l’opera di Wyatt ha molti rimandi alle realtà politiche contemporanee, in particolare a quei regimi totalitari in cui nessuno può dirsi al sicuro, dato che ogni parte della propria vita è sotto controllo e chiunque può essere una spia. Non a caso il regista, che insieme alla moglie Beeney ha firmato anche la sceneggiatura, annovera tra i suoi modelli di riferimento per Captive State il cineasta francese Jean-Pierre Melville, il quale è stato membro della Resistenza durante la Seconda Guerra Mondiale. Proprio come in quel periodo storico anche nel film di Wyatt la popolazione si è trovata di fronte al dilemma: obbedire e mantenere un’esistenza tranquilla, come può esserla però quella di prigionieri, oppure disobbedire e rischiare tutto, anche i propri affetti più cari.

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