Il figliol prodigo è tornato a Cannes, dopo una serie di dichiarazioni che lo avevano etichettato come persona non grata. Ed è tornato con una nuova sfida alla mentalità comune. Come in Nymphomaniac, tocca ancora a voci fuori campo tessere un dialogo su arte e bellezza, razionalità ed istinto, creatività e realizzazione. E, come in Nymphomaniac, anche questo La casa di Jack realizza una commistione tra materiali quanto più eterogenei possibile.
Cinque incidenti avvenuti nel corso di dodici anni ed un epilogo puntellano la narrazione, realizzata a partire dagli anni '70. Jack è un ingegnere psicopatico che trae piacere intellettuale dall'omicidio, che lo spinge ad individuare l'estremo gesto artistico nella morte che dà alle sue vittime. Ma Jack è anche un killer dai gusti estremamente raffinati e dalla spiccata intelligenza che desidera più di ogni altra cosa di essere catturato. Come quando, da bambino, giocava a nascondino lasciando una traccia dietro di sé, attraverso la quale sperava di essere individuato. Il rischio sempre maggiore rappresenta l'esigenza di bellezza assoluta. Ma La casa di Jack non è soltanto questo. Il film, infatti, porta in scena anche un continuo dialogo tra l'ingegnere che avrebbe voluto essere un architetto (il primo costruisce, il secondo crea) e Verge, una sorta di Virgilio che lo segue sempre e che lo traghetterà all'Inferno.
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Fino all'orrorifico finale, il pittorico tuffo nel regno degli Inferi, quando il film sprigiona tutta la propria forza evocatrice ed esplosiva. Ma possono bastare 15 minuti a fronte di una violenza fine a sé stessa lunga ben 145 minuti?
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