di Matteo Marescalco
Chi non ha mai visto la
trilogia dedicata a Jesse e Celine, giovane coppia conosciutasi a Vienna nel
lontano 1995? Chi non ha vissuto le peripezie di quei due giovani tra le mani
del destino, pedine danzanti tra le note del tempo? O ancora, allargando il
discorso, chi non ha sognato di passare una notte insieme ad una ragazza
sconosciuta e di poter trascorrere insieme a lei i migliori attimi della
propria vita? In fondo, la vita è una questione di attimi che ci colgono al
volo. Questo, Richard Linklater lo sa bene. Dopo aver assottigliato il confine
tra vita e cinema, lo scultore del tempo ha realizzato la sua opera più
ambiziosa, per la quale ha pedinato un ragazzo dal 2002 al 2013, epoca di
grandi trasformazioni sociali e di immani cambiamenti cinematografici. E,
guardando Boyhood, lo spettro di Antoine Doinel si aggira furtivo all’interno
della nostra mente. Si ferma e ci fissa. Il movimento si blocca nel tempo e la
stasi si protrae all’infinito. La vita è una questione di attimi, per
l’appunto.
Da La vita è un sogno
alla trilogia di Before, da Boyhood fino a quest’ultimo Tutti vogliono
qualcosa, è chiaro che Richard Linklater non è semplicemente uno dei vari autori
da etichettare sotto la targhetta “indie”. C’è qualcosa di più in ballo. Il
minimalismo dei suoi film, spesso caratterizzati da lunghi piani sequenza,
unito alla semplicità delle situazioni drammaturgiche, restituisce
un’istantanea su momenti ben precisi che sembrano spesso appartenere ad un
contesto onirico. Poco importa che si tratti di una storia d’amore vissuta a
Parigi, a Vienna o in Grecia. O, ancora, degli ultimi giorni prima dell’inizio
delle lezioni al college per un gruppo di giovani ragazzi. Linklater è sempre
andato alla ricerca del tempo perduto, trattandolo come l’essenza stessa del
suo fare cinema, pedinando i tempi morti che, solitamente, non contribuiscono
allo sviluppo di un film tradizionale. Al di là delle costruzioni registiche tradizionali
e, per l’appunto, come già detto, degli sviluppi drammaturgici semplificati
(Boyhood è quanto più in linea con l’idea americana di coming-of-age possa
esistere), resta un’acuta ricostruzione del tempo filtrato attraverso gli occhi
dei suoi protagonisti che ne vivono il lento incedere anche attraverso lo
sviluppo dei fenomeni mass-mediali.
Insomma, guai a chi etichetta Tutti vogliono qualcosa
come l’ennesimo filmetto post-adolescenziale su ragazzotti che, a pochi giorni
dal college, passano il tempo a fare sesso e ad ubriacarsi. Di questo viaggio
alla ricerca di un mood che non esiste più rimane la purezza dello sguardo, la
chiarezza del filtro, gli interrogativi sul futuro, con una certezza. La vita è
sempre una questione di attimi. Da cui farsi depredare, da cogliere al volo e
di cui essere assoluti protagonisti.
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