La timida apparizione
mattutina del sole nel contesto di un arido e soffocante deserto fa da sfondo
al movimento lento e meccanico di un camion. Il deserto è quello che separa
Messico e Stati Uniti. E il camion trasporta un gruppo di immigrati che spera
di superare il confine e di giungere nella terra dei sogni. Il cammino, già
impervio, è reso ancora più difficoltoso da un problema al camion: uomini e
donne sono costretti a proseguire a piedi il loro viaggio. Tra loro, emerge un
ragazzo, interpretato da Gael Garcia Bernal, sguardo magnetico e doti da
leader. Soccorre e aiuta chi ha bisogno, non temendo il pericolo di restare
indietro. La macchina da presa lo tallona fin dai primi minuti, dopo le
inquadrature lunghe dedicate al vero protagonista della vicenda, il deserto,
come suggerisce il titolo. Gli immigrati proseguono nel loro incedere sofferto,
scindendosi in due gruppi, a causa della lentezza di alcuni di loro. E il road-movie
dalle tinte politiche si tinge di venature horror. Da puro slasher-movie,
infatti, ogni singolo componente del primo gruppo viene colpito da un
proiettile dalla lunga distanza. Autore degli omicidi è un vigilante
squilibrato, interpretato da Jeffrey Dean Morgan, che combatte la sua personale
guerra contro gli immigrati messicani che, a suo vedere, inquinano il suolo statunitense.
Da qui inizia la fuga
scriteriata dei sopravvissuti e il survival-movie à la Gravity fa sentire la
sua inevitabile influenza su questo prodotto ibrido diretto da Jonas Cuaron che
di Gravity fu anche co-sceneggiatore. La fuga si trasforma in movimento in un
luogo senza centro che riserva parecchie insidie ai fuggitivi privi di mappe e
di consapevolezza della zona. A differenza del vigilante che, oltre che su una
mappa, può anche contare su un pastore tedesco da caccia, una sorta di vicario
2.0 del suo sguardo, navigatore satellitare pre-digitale. E lo scontro si
trasforma in un contrasto tra due differenti istanze dello sguardo.
Difficilmente i nemici sono inseriti nella stessa inquadratura, sia perché
poche volte arrivano ad essere così vicini sia perché la loro è una fuga
individuale, la lotta tra uomo e deserto non ammette aiutanti, eccetto
che in occasione di alcune interessanti trovate visive basate sulla geografia
dei luoghi.
La ripetizione monotona
di quattro note (anche in Signs, gran parte della tensione era veicolata da tre
semplici note ascendenti) contribuisce ad accrescere suspense e ritmo.
Nella storia del cinema, il deserto ha sempre rappresentato la dimensione
liminale per eccellenza, luogo dove si gioca l’affermazione della propria
identità. In modo particolare, il rapporto statunitensi-messicani è stato
declinato attraverso una serie di prepotenze dei primi sui secondi.
Molti film di Alfonso Cuaron (Y tu mama tambièn, I figli degli uomini, Gravity)
hanno portato in scena una lotta per la sopravvivenza, un cammino di alti e
bassi in cui lottare per vedere riconosciuta la propria identità,
l’attraversamento spaziale come viaggio interiore. L’alba vista dallo spazio,
in Gravity, è meravigliosa. Dal deserto messicano un po’ meno. Eppure ritorna
due volte, insieme ad un tramonto. La metafora della vita è dietro l’angolo,
accompagnata da quella che ha al proprio centro la delineazione drammaturgica
di una qualsiasi storia, di cui Desierto segue ogni plot-point. Ma, a
differenza, dei film di Alfonso Cuaron, l’opera seconda di Jonas non lascia
ampio spazio alla speranza. Il deserto è stato vinto. Ora resta da affrontare
il sogno americano, al chiaroscuro di un tramonto che lascia soltanto una fioca luce sul
futuro.
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