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venerdì 27 luglio 2018

LUCKY

di Matteo Marescalco

Pochi volti nella storia del cinema sono così riconoscibili come quello di Harry Dean Stanton. Fronte ampia, naso pronunciato, labbra sottilissime e volto un po' allungato. Illuminato da due occhi malinconici rivolti sempre verso un punto imprecisato e lontano. Presenza morale della New Hollywood, durante gli anni '70 e gli '80, Dean Stanton ha recitato in un numero impressionante di film. Presenze delicate, per una durata massima di cinque minuti, quasi come fosse un rapace dell'area piccola entrato in campo per colpire in zona Cesarini. I personaggi interpretati in Alien, nello splendido finale di Una storia vera e ne Il miglio verde ne sono un fulgido esempio.

La scorsa edizione del Festival di Locarno ha ospitato la proiezione di Lucky. Il film, che segna l'esordio di John Carroll Lynch dietro la macchina da presa, racconta la storia di Lucky, un novantenne ateo e con il vizio del fumo, sopravvissuto a tutti i coetanei che abitavano nella sua stessa cittadina. L'anziano cowboy si trova ad affrontare il tramonto dell'esistenza e a tirare le somme sulla propria vita.

Distributori di benzina, tavole calde, abitazioni afose e scolorite, bar/saloon frequentati da tipi quanto meno singolari. Ad attraversare tutti questi ambienti è un corpo iconico della Nuova Hollywood, un personaggio ricalcato sulla vita dello stesso attore e sui caratteri da lui interpretati nel corso della lunga carriera. In tal senso, Lucky è un omaggio a un'iconografia e all'immaginario di un cinema ben preciso, di cui Harry Dean Stanton era una sorta di testimone vivente.
Il viandante dell'anima attraversa, ancora una volta, un luogo di frontiera, portandovi buona parte del proprio vissuto. Il suo viaggio è un elogio alla lentezza di un custode il cui volto cela mille identità ed altrettanti segreti. Ripartire, senza salvezza né redenzione, fungeva da chiosa in Paris, Texas. Viceversa, in Lucky, il testamento spirituale di Stanton è portato a termine in modo stanco ma glorioso e risoluto.

Il pregio principale del film consiste nel racconto di una storia già conosciuta ma che, nonostante tutto, continua ad incuriosire. E lo fa grazie alla rapide pennellate emotive che delinea, ad una certa improvvisazione nell'approccio alle situazioni in determinate scene (la sequenza della festa di compleanno non sembra nemmeno essere stata scritta). Si tratta, indubbiamente, del paradosso di una storia che lavora principalmente su simboli e archetipi, riuscendo comunque ad uscire indenne dal fantasma del già visto. Nonostante non sia esente da una certa furberia e sia più scritto di quanto possa sembrare, Lucky riesce a seguire il moto delle onde e ad accarezzare con delicatezza il corpo dello spettatore. Per un'operazione del genere, in fin dei conti, non servirebbe altro.

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