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venerdì 13 ottobre 2017

IT

di Egidio Matinata

Non si prende sottogamba l’infinito.

E’ una frase che pronuncia il personaggio interpretato da Harvey Keitel in Mean Streets di Martin Scorsese.
Ed è anche una citazione che Stephen King pone all’inizio de Il secondo interludio, una delle quattro parti che in IT ripercorrono la storia di Derry, la città in cui è ambientato il romanzo più famoso di King, finalmente e giustamente considerato una pietra miliare della letteratura americana contemporanea, e ora anche l’adattamento cinematografico di Andy Muschietti.

Peccato che una delle pecche maggiori del film risieda proprio nella presenza così poco palpabile di una città costruita proprio per essere uno dei personaggi della storia: un personaggio denso, solido e ben delineato, ma anche sfuggente e fumoso, apparentemente tranquillo e luminoso, ma interiormente marcio.
Ed è un peccato che nel film si perda gran parte della dimensione cosmica che porta il lettore ad affacciarsi sull’infinito; qualcosa (pochissimo) c’è e viene mostrato, alcune cose vengono citate e omaggiate, ma tutto il resto è assente.
Chi ha letto sa di cosa stiamo parlando. Chi non l’ha fatto (shame!shame!shame!) è meglio che lo scopra con i propri occhi.
Il film del regista di origini argentine, autore di Mama (2013), rimane più sul concreto, quindi ripartiamo da lì.

La storia ha inizio con una barchetta di carta di giornale che scende lungo un marciapiede in un rivolo gonfio di pioggia. La piccola imbarcazione è inseguita dal piccolo Georgie Denbrough ed è stata costruita da suo fratello maggiore, Bill, rimasto a casa con l’influenza; nessuno dei due può prevedere che poco dopo sarà inghiottita da un tombino, una delle tante strade che portano alla tana di Pennywise, un mostruoso e malefico essere muta forma che si risveglia ogni ventisette anni per saziare la sua fame millenaria.
Il piccolo Georgie diventerà di lì a poco la prima vittima di un nuovo ciclo di morte e terrore, in una scena a dir poco perfetta, forse la migliore dell’intera pellicola, impeccabile sotto l’aspetto tecnico, oltre ad essere brutale e sconvolgente dal punto di vista emotivo.

Da quel momento in poi il film cala dal punto di vista orrorifico, anche se ci saranno altri momenti molto forti (in particolar modo tutte le scene relative all’elaborazione del lutto di Bill) e si concentra di più sulla caratterizzazione dei protagonisti, il Club dei Perdenti, alcuni dei quali davvero perfetti (Ben, Beverly, Eddie) e altri meno, ma tutto sommato il modo in cui si forma il legame tra i sette e la loro conseguente connessione  è quasi impeccabile e in alcuni punti diventa la cosa migliore del film (la scena della cava e il giuramento, ad esempio).

Anche il lavoro fatto da Bill Skarsgard e Muschietti su Pennywise ha prodotto ottimi frutti. Dal punto di vista estetico, nel linguaggio del corpo, nella voce e nella folle teatralità del personaggio si può facilmente veder affiorare il clown letterario; meno riuscita è invece la scelta di farlo apparire a intermittenza nelle oltre due ore di durata, quando invece una presenza più costante (e più sottile) avrebbe aiutato nella costruzione della tensione. Però, dal punto di vista della resa cinematografica, era difficile fare meglio.

Il film è buono, a tratti molto buono, anche se in alcuni punti si ha la sensazione che il freno a mano sia stato tirato troppo.
Si poteva fare meglio? Sì.
Si poteva fare peggio? Assolutamente sì.
Di certo non è un film che fa storia a sé. Non ha quella forza. E’ esattamente un film figlio del suo tempo, dipendente da esso, di un periodo che ha visto il ritorno di fiamma degli anni ’80.
Tra dieci anni sarebbe stato un film diverso.
Dodici/quindici anni fa, con un influenza maggiore del J-horror, sarebbe stato ancora un’altra cosa.
Nelle mani di Cary Fukunaga (che in un primo momento aveva in mano le redini del progetto, poi abbandonato per divergenze creative), regista della prima stagione di True Detective, l’uomo che è entrato a Carcosa e ne è uscito illeso, chissà cosa poteva diventare.

Quaeque ipsa miserrima vidi,
Et quorum pars magna fui.


Da Scorsese a Virgilio. Prima de Il secondo interludio c’è anche quest’altra citazione.
La traduzione non troppo letterale dovrebbe essere più o meno così: Ho visto le cose peggiori, la maggior parte delle quali erano in me.
Gran parte di IT è contenuta in questa frase. Gran parte della poetica di King è contenuta in questa frase. E anche il film di Muschietti si può ritagliare il suo piccolo spazio in essa, per quello che mostra e per come lo mostra: un viaggio prevalentemente umano e interiore, nel bene e nel male.

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