di Egidio Matinata
Scritto da Nic Pizzolatto, diretta da Cary Joji
Fukunaga. Con Matthew
McConaughey, Woody Harrelson, Michelle Monaghan, Michael Potts, Tory Kittles,
Kevin Dunn, Alexandra Daddario. Drammatico, poliziesco.
Durata: otto episodi da 60 minuti.
Negli ultimi anni il livello qualitativo delle serie
tv è salito in maniera esponenziale, sanando il divario che le separava dal
cinema. Il termine “artistico”, riferito ad un prodotto televisivo, era cosa
rara (nonostante vi fossero illustri precursori come Twin Peaks e Ai confini della
realtà, per citarne due). Diversi sono i motivi di questo cambiamento. Alla
base c’è sicuramente il fatto che il format seriale facilita e allo stesso
tempo espande le modalità di narrazione in un modo che il cinema non può fare;
e permette di approfondire in modo più accurato la psicologia dei personaggi e
il mondo che essi abitano. L’unione, poi, di un numero sempre crescente di
spettatori, alla presenza di volti noti dell’industria cinematografica, sia
interpreti che autori, ne ha sancito definitivamente il successo sul versante commerciale
True
Detective rappresenta una delle vette più alte, degli ultimi
anni e non solo, nell’ambito delle serie
televisive. Scritta interamente da Nic Pizzolatto e diretta da Cary Joji
Fukunaga, è andata in onda nel 2014 sul canale HBO, riscuotendo ampi consensi
sia dalla critica che dal pubblico. Le vite dei detective Rust Cohle (Matthew McConaughey) e Marty Hart (Woody
Harrelson) si intrecciano inesorabilmente nella lunga caccia a un serial killer
in Louisiana, in un arco temporale di diciassette anni, dal 1995 al 2012, anno
in cui il caso viene riaperto.
La serie racconta apparentemente la storia più
vecchia del mondo: il Bene che combatte contro il Male. Ma lo fa in un modo
diverso. Più reale, più cupo, più pessimista. Analizzando l’essere umano in
tutte le sue sfaccettature e nel rapporto che ha col mondo in cui vive, ne
porta a galla tutti gli aspetti che lo caratterizzano, i quali finiscono per
risultare, nella maggior parte, negativi.
“L’uomo è
l’animale più crudele” recita una delle frasi promozionali della serie. Ed
è proprio attraverso questa lente che l’essere umano viene messo a fuoco: come
animale spinto da pulsioni primarie, come specie che si è evoluta
eccessivamente, arrivando ad una consapevolezza maggiore di sé. Una
consapevolezza, però, illusoria errata.
Rust, cinico e pessimista, sembra essere l’unico personaggio ad avere
accesso a questa verità e attraverso i suoi (fantastici) sproloqui filosofici,
i grandi temi che caratterizzano l’esistenza di tutti vengono messi sotto esame
e arrivano allo spettatore sotto una luce nuova. Una luce più nera che mai.
L’evoluzione, la coscienza, la religione, l’amore, la vita e la morte diventano
concetti effimeri. E cedendo alla falsa
speranza (o paura) creata da essi, si cede alla consapevolezza illusoria che
caratterizza l’umanità.
Marty fa parte
sicuramente di questa categoria di persone. Personaggio meno complesso, rimane
costante in tutto l’arco narrativo nella sua falsità di facciata. Padre di
famiglia, marito fedele e bravo investigatore. Apparentemente. L’ipocrisia che
lo caratterizza sarà alla base dello sfaldamento della sua famiglia e, in
parte, del suo rapporto professionale con Rust.
Questi due uomini, così diversi tra loro, si
ritrovano a combattere insieme non solo i loro demoni interiori, ma anche i demoni
che si trovano appena fuori dalla nostra porta. Simboli di una malvagità pura,
primordiale e, cosa ancora più spaventosa, umana. L’ambiente inquietante in cui
si muovono i personaggi sembra permeato da un alone di malvagità costante: gli
alberi, le case, le chiese abbandonate. Nonostante la serie sia avvolta da un
alone surreale, l’orrore e la paura che si provano durante la visione risalgono
a un’origine terrena, che risulta terrificante perché inspiegabile. Le due linee diegetiche, quella personale e professionale,
vanno di pari passo durante le puntate, intrecciandosi vicendevolmente. Così
come la stessa struttura della serie, che raggiunge la sua perfezione e la sua
compattezza nell’andare avanti e indietro nel tempo, senza mai lasciare lo
spettatore nella frammentarietà, ma portandolo, attraverso i flashback, ad una
sensazione di omogeneità.
True
Detective è un capolavoro sotto tutti i punti di vista.
Stilisticamente è difficile trovargli degli eguali, anche in ambito
cinematografico, sia per quanto riguarda la sceneggiatura che per la qualità
prettamente tecnica. Molte scene sono già diventate cult, come il piano
sequenza della quarta puntata.
Gli attori riescono a dare vita a due personaggi
che sono già entrati nell’immaginario collettivo. Ogni coppia di poliziotti che
vedremo al cinema o in televisione nei prossimi anni dovrà reggere il confronto
con loro.
Il finale, da molti accusato di scarsa coerenza con
il tono generale della serie, può risultare ottimista solo ad un primo livello
di lettura. La scena che si svolge al di fuori dell’ospedale non deve essere
interpretata come un dantesco “uscimmo a riveder le stelle”. In quel momento i
due personaggi, guardando verso il cielo, non vedono altro che un riflesso di
ciò che succede sulla Terra. Il microcosmo e il macrocosmo si specchiano l’uno
nell’altro e si riconoscono come simili. Una volta c’era solo l’oscurità. Ora
la luce sta avanzando, ma il suo prevalere è ancora lontano.
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