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mercoledì 29 gennaio 2020

DOLITTLE

di Matteo Marescalco

John Dolittle è un medico prodigioso con il dono di parlare agli animali. Nella magione del dottore, ognuno parla la propria lingua, eppure tutti si comprendono e sono affabili e cortesi gli uni con gli altri. John conduce le sue ricerche insieme alla moglie l'amatissima Lily. La sua morte, però, getta Dolittle nello sconforto. In preda alla tristezza, il dottore rinuncia a tutto e chiude le porte del suo ospedale-riserva per animali. Quando la Regina gli chiede indirettamente di svolgere una missione per lei, il medico, pur tra mille paure, tornerà ad assaporare il gusto dolce-amaro dell'esistenza. 

Bersagliato inspiegabilmente dalla critica e bocciato dal pubblico in numerosissimi test-screening, questo film ha diversi pregi, tra cui quello inveterato di saper costruire un'avventura bigger than life. La missione in cui si getterà a capofitto John Dolittle consiste nella ricerca dello spirito dell'avventura che il dottore credeva di aver perso dopo la morte della moglie. Comprendere gli altri, capire i nostri simili e i diversi da noi è il punto principale per aprirsi al futuro. Senza le differenze che rendono preziosi gli esseri umani, non esisterebbe alcuna possibilità di dialogo e di costruzione di dialettica. 

Robert Downey Jr. mette molto del suo in questo personaggio che somiglia molto a Jack Sparrow ma che, a differenza sua, è orientato all'edificazione di qualcosa di veramente utile. Ovviamente, quindi, lo scopo didascalico del film è palese. Tuttavia, Dolittle non viene mai appesantito ma riesce puntualmente a far convivere l'aspetto più ludico con quello più serio e riflessivo, consentendo ai più grandi di commuoversi in diverse occasioni e ai più piccoli di volare sulle ali della fantasia, facendo tesoro di importanti insegnamenti. 

ODIO L'ESTATE

di Matteo Marescalco

Odio l'estate, scriveva Bruno Martino. E, come il celebre compositore, anche Aldo Giovanni e Giacomo provano sentimenti contrastanti nei confronti della stagione tradizionalmente più amata dai piccoli. 

Aldo Baglio è un meridionale trapiantato da anni a Milano. Tutto è pronto per la vacanza al Sud insieme alla moglie e ai tre figli, due gemelline e un ragazzo beccato a rubare un motorino. Giovanni Storti, invece, porta avanti uno storico negozio di Milano che vende al dettaglio accessori per calzature. Anche Giovanni è sposato e ha una figlia. Infine, Giacomo Poretti è il più benestante tra i tre ma ha una situazione familiare nettamente più complessa, avendo adottato il piccolo figlio della moglie con cui ha un rapporto difficile. A causa di un disguido con l'agenzia, i tre si troveranno a condividere lo stesso appartamento per tutta la vacanza estiva. La convivenza forzata farà emergere i tratti migliori e peggiori delle tre famiglie. 

Dopo il fallimento di Fuga da Reuma Park, clamoroso flop di pubblico e critica che ha seriamente messo a repentaglio le loro carriere, Aldo Giovanni e Giacomo tornano a collaborare con Massimo Venier, regista dei loro migliori film, responsabile della costruzione di un intreccio narrativo molto più solido e coerente dei loro ultimi lavori. Gli ultimi due decenni sono stati decisamente complessi e contraddittori per il trio di comici che, più di tutti, nel corso degli anni, è riuscito ad affermarsi nell'immaginario collettivo italiano. Perchè, se Checco Zalone fa sfaceli al box-office, è altrettanto innegabile che certe battute di Aldo Giovanni e Giacomo segnano costantemente la nostra quotidianità. Merito della loro ironia priva di mordente politico, dalla forte stilizzazione che connota i tre personaggi (il meridionale fesso ma dal gran cuore, il milanese puntiglioso e precisino e, infine, quello più autenticamente antipatico), sempre uguali a sè stessi eppure ogni volta così diversi, e, infine, di un certo carattere fiabesco. Si, proprio fiabesco. I film di Aldo Giovanni e Giacomo, pensandoci bene, sembrano quasi non aderire alla realtà ma sorvolarla con leggiadria ed eleganza. 

Odio l'estate segnala quella che probabilmente è l'evoluzione definitiva (e che sarebbe un eccellente modo per salutare i fan - anche se speriamo che il trio possa tornare nuovamente a raccontare storie al cinema) del loro modo di narrare. I comici sono cambiati e non serve a niente guardare al passato con malinconia e nostalgia. Anche il canovaccio su cui Venier e gli sceneggiatori hanno costruito la loro storia ha subito diverse modifiche rispetto ai precedenti migliori film del trio. Il peso della famiglia grava sui personaggi e li dota di una serie di riflessioni che rendono la trama ancora più compatta. I fan più accaniti troveranno una marea di omaggi - che non scadono mai nell'autocelebrazione ma sembrano mostrare la sedimentazione del trio nell'immaginario popolare - , dai più nascosti ai più palesi. Se i tempi sono cambiati, farebbe comodo credere che Aldo Giovanni e Giacomo, nonostante tutto, sono rimasti sempre gli stessi. E' vero soltanto in parte. E questo film, che riesce a toccare le corde del pubblico generalista, lo dimostra in pieno. 

VILLETTA CON OSPITI

di Matteo Marescalco

Tra le atmosfere in stile Parasite e i segreti di provincia celati ne Il capitale umano, si muove la borghesia di Ivano De Matteo in Villetta con ospiti, suo ultimo lungometraggio. Il regista torna alle atmosfere a lui più congeniali. Siamo nell'Italia Settentrionale e la famiglia protagonista è la più in vista nel borgo in cui vive. L'erede della fortuna dei genitori è Diletta, una donna fragile e insicura, che impegna la propria quotidianità in cause che vedono come artefice Don Carlo, un uomo attratto dalle parrocchiane. I figli di Diletta attraversano il difficile percorso dell'adolescenza e suo marito è il tipico parvenu che deve tutto alla moglie ma che, nonostante ciò, tradisce ripetutamente. In paese tutti sanno tutto. A completare il quadro, si aggiungono un poliziotto napoletano corrotto, un medico venduto e Sonja, cameriera della famiglia altoborghese e madre di Adrian, ragazzo combattuto tra l'onestà della madre e la furbizia criminale dello zio. 

Perchè il film di De Matteo ricorda Parasite? Senza dubbio, per l'intreccio che coinvolge i numerosi personaggi che nascondono oscuri segreti dietro la facciata di perbenismo. A differenza che nel titolo di Bong, però, in cui tutto è calibrato al millesimo, Villetta con ospiti offre allo spettatore la possibilità di sfuggire alle maglie del controllo totale e ai suoi personaggi di evadere da un percorso di libertà che nel film coreano sembra negato. Pur cadendo in una rappresentazione dei personaggi a tratti macchiettistica o, quanto meno, abbastanza schematica, il film lascia che l'intreccio dei loro rapporti emerga lentamente fino al drammatico finale, il cui impianto teatrale è legato al momento delle numerose rivelazioni. 

Il cast di primo livello supporta la drammaturgia ben organizzata e, nel complesso, aiuta il film ad attestarsi su buoni risultati. 

GRAZIE A UNIVERSAL, YESTERDAY ARRIVA IN HOME-VIDEO!

di Matteo Marescalco

Cosa succederebbe se tutto il mondo (tranne te) dimenticasse i Beatles? Yesterday, ultimo film diretto da Danny Boyle e sceneggiato da Richard Curtis, prova ad immaginare uno scenario simile. 

Jack Malik è un musicista di scadente successo. A parte Summer Song, unica canzone che qualche suo amico ricordi, la sua carriera non ha dato vita a niente di promettente. In lui crede soltanto Ellie, la sua manager e amica d'infanzia che, probabilmente, ha anche una cotta nei suoi confronti. La sera in cui il ragazzo decide di farla finita con la musica, in tutto il mondo accade qualcosa di molto strano. Un improvviso black-out, infatti, unito ad un incidente in cui Jack resta coinvolto, priva il mondo delle canzoni dei Beatles e tutti gli esseri umani del loro ricordo. Tutti tranne Jack, che coglie l'occasione al volo per costruirsi una carriera sui testi e sulle musiche dei Fab Four. 

Sulla carta, il concept di partenza della commedia inglese è davvero eccellente. D'altronde, da uno sceneggiatore che ha alle spalle titoli quali Quattro matrimoni e un funerale, Notting Hill, Love Actually e Il diario di Bridget Jones, cosa aspettarsi se non un copione ricco di tipi umani in grado di sorprendere lo spettatore e di conquistarlo con le loro insicurezze? Yesterday è una buona commedia che sfrutta anche la regia al cardiopalma di Danny Boyle e che ha nei fan dei Beatles il target principale. 

Dal 21 Gennaio, Universal Home Entertainment ha reso disponibile l'edizione home-video del film, che può contare su diversi contenuti speciali che faranno gola ai cinefili e ai musicofili più accaniti. Finale Alternativo e Scene Tagliate offrono allo spettatore la possibilità di "intervenire" sul film e di apprezzare una serie di sequenze espunte dal montaggio finale. Poi, il Commento del regista Danny Boyle e dello sceneggiatore Richard Curtis, ovviamente, arricchiscono la visione di dettagli su regia e sceneggiatura. Infine, il Live agli Abbey Road Studios contiene alcune cover cantate da Himesh Patel. 

Si tratta di un DVD da non perdere per trascorrere una tranquilla serata tra amici! E, perchè no, anche per rispolverare quei cari vinili dei Beatles a cui teniamo così tanto. 

Scheda tecnica
Supporto: DVD
Titolo: Yesterday
Durata: 1h 51minuti
Genere: Commedia
Produzione: Regno Unito, Russia, Cina 2019
Regia: Danny Boyle
Sceneggiatura: Richard Curtis
Cast: Himesh Patel, Lily Collins, Joel Fry, Ed Sheeran
Distribuzione: Universal Home Entertainment
Data di uscita: 21/01/2020
Formato video: 2.39:1 Anamorphic Widescreen
Audio: Dolby Digital 5.1 Italiano, Inglese
Sottotitoli: Italiano, Inglese
Contenuti Speciali: Finale alternativo, Scene tagliate, Commento del regista e dello sceneggiatore, Live agli Abbey Road Studios

lunedì 20 gennaio 2020

JOJO RABBIT

di Macha Martini

«Il mondo è così grande, così complicato, così pieno di meraviglie e sorprese, che ci vogliono anni affinché molte persone inizino a notare che è irrimediabilmente rotto. Chiamiamo questo periodo di ricerca “infanzia”». È così che Michael Chabon descrive la filmografia di Wes Anderson. Una constatazione che sembrerebbe anche cogliere appieno l’essenza di Jojo Rabbit, ultimo film di Taika Waititi.

A partire dal romanzo di Christine Leunens, Il cielo in gabbia, l’artista neozelandese, tramite una scrittura sia di penna che visiva, decide di immettere lo spettatore in un mondo pieno di ironia e di “meraviglie” pronte a spezzarsi irrimediabilmente nel percorso di crescita di Johannes Betzler, soprannominato Jojo. «Oggi diventi adulto» confessa ad alta voce a inizio film. 

Il bambino, infatti, sta per cimentarsi in una nuova avventura: l’ingresso al campus per piccoli nazisti, dopo il quale si diventa appunto degli adulti, ritenuti in grado di combattere per il proprio Paese. Jojo, fanatico nazista, non desidera altro che servire il proprio Führer, tanto da trasformarlo in amico immaginario. Questo Adolf fantoccio, qui interpretato dallo stesso Taika Waititi, che fornisce al pubblico una performance affascinante, rappresenta per il bambino l’unica possibilità di sopravvivere al suo sentirsi fuori posto in un mondo che sembra non cogliere quella poesia tipica dell’immaginazione di un bambino. Il piccolo Jojo, pieno di creatività e voglia di divertirsi, ma anche di umanità, sebbene non gli piaccia ammetterlo, si sente solo, incompreso e non integrato in alcun gruppo. Tale mancanza si presenta come un inizio di rottura e come elemento che, da una parte, nella creazione di un amico immaginario, lo rende più meraviglioso e più spumeggiante del normale, un personaggio alla “Wes Anderson”, ma che, dall’altra, lo fa sentire così tanto disagiato e brutto da non permettergli né di notare l’imminente disfatta della Germania nazista né le idiosincrasie di quel cieco credo, quello per Hitler, che sembrava essere l’unica via per una possibile integrazione. Esattamente come afferma Chabon per Wes Anderson, durante l’infanzia l’individuo, nella ricerca del proprio posto nel mondo, non riesce pienamente a cogliere come questo sia in frantumi. 

Jojo non può credere al male fatto agli ebrei. Può solo credere in un universo fantastico dove questi ultimi, caratterizzati da enormi corna, dominano le menti delle persone e dormono a testa in giù. Tale visione viene accentuata dalle persone che ruotano intorno a lui, come il Capitano Klenzendorf (alias un magnifico Sam Rockwell), il suo assistente Finkel (interpretato brillantemente da Alfie Allen) e da Fräulein Rahm (Rebel Wilson), ma anche dalle situazioni a cui si trova ad assistere o a partecipare, dall’esplosione nel primo plot point della bomba a mano fino a Yorkie (forse suo unico amico, ma non considerato da lui, Jojo, realmente tale in quanto “bambino”) alle prese, nonostante la giovanissima età, con un lancia missili per “salvare la nazione”. In tutto ciò entra in gioco Scarlett Johansson, madre del protagonista, che, per amore del figlio, recita nel mondo fiabesco e pieno di meraviglie da lui creato, senza però smettere di provare a fargli aprire gli occhi verso tutte quelle crepe che lo circondano e che, a fine film, in un’ottica ormai da adulto, Jojo vivrà in prima persona.


Tramite una regia pop ed eccentrica, coadiuvata da un montaggio sempre ritmato, da una fotografia accesa e da un cast artistico fuori dal comune, tra i quali spiccano per la giovane età Roman Griffin Davis (Johannes Betzler) e la Johansson, capace di incantare il pubblico grazie alla sua bravura nel passare da uno stile a un altro in accordo con un personaggio tutt’altro che scontato ma anzi magnetico, Jojo Rabbit, seppur con qualche pecca a livello di ritmo narrativo, si mostra come un film pieno di spunti e capace di incantare lo sguardo, soprattutto di chi è ancora perso in quel periodo di ricerca da alcuni chiamato “infanzia”, da altri “meraviglia”.

RICHARD JEWELL

di Macha Martini

Un uomo, grossa statura, sguardo timido, un po’ ingenuo. 
La camera lo segue, mentre si sentono le urla off-screen di Sam Rockwell, qui nel ruolo dell’avvocato Watson Bryant. 

Già dalla prima scena, la regia, nella sua freddezza quasi clinica, crea un’ambiguità. Un uomo buono. Un uomo servizievole che vuole solamente proteggere le persone. Un uomo che fa tenerezza. Eppure, c’è uno straniamento nei silenzi, nel modo in cui la macchina da presa indugia in sguardi e in situazioni. Nel modo in cui l’occhio meccanico sembra pedinare sia il protagonista che tutte quelle figure che, negativamente, lo accerchieranno, soffocandolo. La suspense cresce a ogni immagine, a ogni suono, nel tentativo di far credere al pubblico, anche solo per un secondo, che il colpevole sia lui, Richard Jewell. 

A 89 anni, Clint Eastwood, decide di tornare a girare argomenti spinosi, in questo caso la storia di Richard Jewell: una persona normale, il classico americano che, ritrovatosi in una situazione straordinaria (il salvataggio di numerose vite a Centennial Park da un attentato terroristico), invece di iniziare il proprio percorso eroico e di ricevere un riconoscimento, inizia una discesa negli inferi, mentre l’opinione pubblica e le autorità federali cercano di “friggerlo”, di “mangiarlo vivo”. Eastwood non vuole però raccontare il solito dramma. Il suo intento è quello di scuotere le coscienze e, per farlo, utilizza gli strumenti più raffinati del cinema come la già citata suspense, arricchita sia da situazioni drammaturgiche che proprio da espedienti di regia. 

Tra questi ultimi, lo stile freddo, quasi chirurgico, già riscontrato in Mystic River, e il dilatamento delle inquadrature oltre il normale minutaggio, che permette una nuova codifica del silenzio. Silenzio che aiuta, piano piano, a portare gli spettatori dentro la mente di Jewell, fino alla sua esplosione, ricca di dolore. Dolore per il quale il pubblico si sente sia partecipe sia, in parte, colpevole, a causa di quella ambiguità iniziale. Ambiguità che non è casuale ma che serve nel processo di accusa al governo americano, all'FBI e ai media, tra i principali incriminati tramite la figura di Kathy Scruggs, interpretata da una magistrale Olivia Wilde, la cui performance, come quella di Paul Walter Hauser (Richard Jewell), entra nelle ossa e riverbera anche fuori dal buio della sala cinematografica, seguita in secondo piano da Kathy Bates (Bobi Jewell), candidata per questo ruolo agli Oscar, e da Sam Rockwell.


Richard Jewell, ultima opera di Clint Eastwood, tratta da una storia vera e basata sull’articolo “American Nightmare: The Ballad of Richard Jewell” di Marie Brenner, è uno di quei film capaci, tramite una maestria, soprattutto di regia, ma anche data dalla bravura del cast artistico, di lasciare lo spettatore col fiato sospeso, per un così intenso stato di coinvolgimento in cui viene trasportato. Ogni possibile difetto, dal più semplice al più grave, come la mancanza di messa in sincrono in alcune inquadrature della sequenza dedicata al primo concerto, passa in secondo piano e, nonostante la durata abbastanza classica di 129 minuti, il pubblico sembra chiederne ancora di più, aspettando non solo che “il mondo conosca il nome e la verità relativa a Richard Jewell”, ma un riconoscimento e una giustizia, che purtroppo lo schermo non può mostrarci, in quanto parte di una scena mai girata nella realtà americana. Richard Jewell è il dolore del silenzio, provato davanti a uno schermo nel buio della sala cinematografica.

domenica 5 gennaio 2020

PICCOLE DONNE

di Macha Martini

Immagine scura in controluce. Un piano americano che vede una figura femminile di spalle, a testa china, che sospira. Stacco. La protagonista della storia, Jo, interpretata, da Saoirse Ronan, entra in una casa editrice. La macchina da presa si ferma su dita sporche d’inchiostro che giocherellano nervose. Un paio di stivali si muove tra la folla, in una corsa che molto ricorda quella della stessa regista, Greta Gerwig, in Frances Ha. Un sorriso spensierato lascia la cornice cittadina per un quadro impressionista che introduce Amy, qui interpretata da una magnetica Florence Pugh. In una carrozza, insieme alla giovane ragazza, troviamo Meryl Streep nella parte della zia, che, in questo remake, perde la personalità arcigna per ampliare il proprio lato umano. 

Lo sguardo annoiato di Amy, rappresentato tramite una soggettiva in rallenti, introduce Laurie, alias Timothée Chalamet che, dopo una scena scandita da un dialogo calzante, si allontana mentre un controcampo inquadra un nuovo sorriso, anche se meno speranzoso e più malinconico, stavolta quello della giovane March, che permette alla camera di staccare su Meg (Emma Watson). Prosegue un climax che conduce lo spettatore in un’atmosfera sempre più cupa, che dalla povertà di Meg si trascina verso Beth (Eliza Scanlen), intenta a suonare il pianoforte. Inizia così il nuovo adattamento dei romanzi di Louisa May Alcott: Piccole donne e Piccole donne crescono, protagonisti di numerose trasposizioni, tra cui quella del 1933 di George Cukor con Katherine Hepburn, quella del 1994 con Winona Ryder, Christian Bale e Susan Sarandon (forse la più famosa per il grande pubblico), fino alla miniserie del 2017 della BBC One con Maya Hawke, acclamata per il suo recente ruolo nella terza stagione di Stranger Things

Proprio alla luce della fama di quello che è considerato uno dei classici degli adattamenti audiovisivi, la regista e sceneggiatrice californiana decide di reinventare la struttura letteraria di questa storia ottocentesca. Carrellate, stacchi che a tempo di musica cambiano prospettiva e che mixano il classicismo con uno sguardo contemporaneo, facendo entrare lo spettatore nel vivo della storia. Greta Gerwig, ormai alla sua seconda regia, dimostra di aver lasciato lo sguardo incantato ma forse un po’ inesperto di Lady Bird e di essere approdata a una regia più raffinata e studiata nei minimi dettagli. Dettagli che permettono una sincronia tra il montaggio, la sceneggiatura (l’aspetto più innovativo di tutto il film) e i dialoghi ritmati. Tale elemento emerge anche dalla scelta di non raccontare nuovamente la storia come è stata sempre portata in scena ma di giocare tra passato e presente, tra romanzo e realtà. Realtà fattuale che molto riecheggia nella contemporaneità, come fosse una luce calda ma piena di ombre, la stessa che caratterizza lo stile che il direttore della fotografia Yorick Le Saux (Personal Shopper, High Life) utilizza nella maggioranza delle sequenze del film.

«Non riesco a superare la delusione di essere nata donna» ammette amareggiata Jo, il cui personaggio, però, non si limita alla consapevolezza di questa condizione, ma, prendendone atto, decide di affrontare in modo creativo lo svantaggio per trarne un vantaggio, come la stessa Gerwig fa con questa trasposizione, dando così forse l’unica risposta degna di nota al #Metoo. In conclusione, il Piccole donne del 2019 riesce a rendere appetibile una storia ormai nota che non smette mai di stancare grazie ai costumi e alle scenografie, che ritrovano una freschezza, soprattutto, nella sceneggiatura, nel montaggio e nella regia, sia visiva che più strettamente legata alla direzione degli attori. Senza ricorrere a troppi fronzoli, la regista trova così l’unico modo possibile, in epoca contemporanea e dopo i numerosi adattamenti, di trasmettere al pubblico il cuore e l’autenticità dei romanzi, riuscendo a far convivere il classico al contemporaneo.