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giovedì 5 marzo 2015

FOXCATCHER

di Matteo Marescalco
 
Durante le ultime due settimane, hanno fatto la loro comparsa sugli schermi cinematografici italiani due film profondamente diversi tra loro ma accomunati da un sottocutaneo fil rouge. Mi riferisco a Inherent Vice di Paul Thomas Anderson e a Foxcatcher di Bennett Miller
Uno è tratto dall'omonimo romanzo di Thomas Pynchon; l'altro da una storia vera. 
Paul Thomas Anderson traspone fedelmente l'opera di Pynchon, sfruttando l'atmosfera caotica ed allucinata delle segmentazioni magmatiche e delle derive psichiche per delineare il ritratto di un'intera epoca (fine '60/inizio '70) che ha avuto nella tragica annichilazione del Sogno americano il proprio tratto distintivo. Larry “Doc” Sportello è il figlio prediletto di un'epoca che ha visto schiantare i propri ideali contro i paradisi artificiali. La forza sovversiva anti-borghese e le illusioni di un'intera generazione hanno cozzato contro la svolta autoritaria con le paranoie di massa sullo Stato che controlla la vita di tutti. 
Se Inherent Vice mostra, quindi, il periodo di transizione, Foxcatcher, invece, si concentra sulle conseguenze sugli esseri umani di tale cambiamento, prendendo come pretesto una vicenda avvenuta tra il 1988 e il 1996.
Mark Schultz, campione olimpico di lotta, è contattato da John DuPonte, rampollo della famiglia di industriali, che ha l'obiettivo di dar vita ad un team di lottatori che possa tener alto l'onore degli Stati Uniti d'America alle Olimpiadi di Seul. A far parte del team è invitato anche il fratello (anch'egli campione olimpico), Dave Schultz che, inizialmente, rifiuta l'invito per poi, in seguito, accettarlo. Mark vede in questa proposta di DuPonte l'opportunità per affrancarsi definitivamente dal fratello maggiore. 
Con la sua solita attenzione pittorica alla composizione formale delle inquadrature, Bennett Miller realizza un doloroso ritratto sulle più profonde ombreggiature dell'animo umano, realizzando un continuo parallelismo tra personaggi e ambiente che li ospita.
Le prime sequenze del film sono tese a delineare il carattere di Mark Schultz. Campione olimpico di lotta, ormai abbandonato allo squallore di una vita quotidiana fatta di solitudine e monotoni allenamenti, vive in un isolato appartamento in cui i numerosi trofei che custodisce funzionano come feticci che assumono su di sè il ruolo di oggetti memoriali. Il fratello, Dave Schultz, gli fa da coach, dopo averlo cresciuto da bambino in seguito alla separazione tra i due genitori. Le differenze caratteriali emergono subito, e, con esse, anche il risentimento di Mark per una vita eternamente trascorsa all'ombra del fratello. 
Dopo questa prima necessaria presentazione, la parabola discendente del campione olimpico è delineata tramite una serie di campi e controcampi che mostrano Schultz durante una conferenza sullo sport in una scuola elementare. Mark spiega ai bambini l'utilità di una valida preparazione culturale ma appare come un prodotto creato dallo Stato per trionfare ed essere poi gettato in un angolo. 
La possibilità di riscatto gli viene offerta d John DuPonte, personaggio speculare di Schultz, una sorta
di suo supporto negativo.
Il miliardario ha un rapporto morboso con la madre che lo ha metaforicamente castrato, impedendogli di praticare lo sport che lo appassionava. DuPonte reagisce provando, quindi, a proiettare la propria immagine perfetta sulla figura di Mark Schultz. Anche i suoi trofei ottenuti nelle gare d'equitazione vengono sottoposti ad un processo di feticizzazione e assumono una forte valenza sessuale.   
L'attenzione riservata ai corpi attoriali è fondamentale. I protagonisti del film, martoriati di dubbi e malanni psicologici, mostrano, sul proprio corpo, i segni e le ferite di un'intera epoca. Dave Schultz è il doppelganger positivo di John DuPonte, tutto ciò che sarebbe voluto essere per Mark ma che non è mai stato. 
Bennett Miller si concentra sul versante individuale, imputando le colpe ad un'istituzione che, mirando alla costruzione e all'allevamento “in provetta” di campioni sportivi, ne ostacola le più pure aspirazioni individuali e finisce per gettarli in un vortice di malessere esistenziale. 
Alla fine di questo doloroso processo, non esistono vincitori ma solo sconfitti. 

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