di Matteo Marescalco
Dopo ben sei anni di assenza, torna sul grande schermo Michael Mann, con la sua ultima fatica, Blackhat.
Dopo ben sei anni di assenza, torna sul grande schermo Michael Mann, con la sua ultima fatica, Blackhat.
Michael
Mann è uno di quei registi i cui film sono attesi da critici e
pubblico come un grande evento. Sarebbe superfluo nascondere
l'elevato livello di aspettative che ha alimentato l'attesa, come
sempre, enormemente ripagata.
Protagonista
di Blackhat è Chris Hemsworth, che interpreta Nick Hathaway,
criminale informatico arruolato dall'FBI per individuare l'autore di
un cybercrimine che ha, nel giro di pochi minuti, causato
l'esplosione di una centrale nucleare nei pressi di Hong Kong e
l'improvviso aumento del prezzo della soia in seguito ad un attacco
alla borsa di Chicago. Hathaway si troverà coinvolto in un'enorme
rete di crimine che lo costringe ad intraprendere una battaglia
personale per portare in salvo la sua vita.
Superficialmente,
la trama sembra rispettare i più stantii e logori clichès di
genere. Tuttavia, una lettura più attenta consente di cogliere la
profonda riflessione intessuta da Mann attorno alla natura delle
immagini, che fa della forma e della percezione filmica il proprio
punto di forza. I film dell'autore americano ci hanno sempre
insegnato che, al cinema, ciò che più conta non è quanto si
racconta ma il modo in cui lo si fa. Ecco il motivo per cui il cinema
di Michael Mann non si può e non si deve assolutamente etichettare
come mero action.
Attento
entomologo della vita metropolitana, tra masse di persone, luci al
neon, cartelli e vie buie e fredde, Mann affianca il suo sguardo
sull'ambiente artificiale a quello, altrettanto presente, che ha
nell'uomo il suo oggetto. Non sono, infatti, pochi i momenti in cui
il regista compie la scelta (suicida per un qualsivoglia film
d'azione tradizionale) di soffermarsi sulla reazione e sulle
espressioni dei suoi personaggi un attimo prima di una scena
particolarmente concitata. La solitudine, le paure e le angosce,
l'alienazione metropolitana caratterizza profondamente ogni singolo
carattere manniano. Gli attimi di sospensione in cui Hathaway (o i
protagonisti di Collateral e di Heat) deve prendere una scelta che
potrebbe condannarlo per il resto della sua vita restano impressi
nella memoria dello spettatore.
Il
cinema di Mann è anche profondamente umanista. Gli uomini (e
l'ambiente in cui vivono), pur essendo spesso defilati nell'economia
del quadro visivo, sono il cuore pulsante di ogni suo film.
Le
prime sequenze del film di forte impatto sono un manifesto
programmatico. Quello che il regista porta in scena è un mondo
chiuso su se stesso, una scatola perfettamente e continuamente
riproducibile, sempre uguale a se stessa. La base di questo universo
informatico ipersemiotizzato, in cui ogni informazione rimanda ad
un'altra senza, però, un corrispettivo oggetto fisico tangibile, è
un semplice codice binario, di volta in volta estendibile. Ecco che
gli eroi del film si trovano a combattere un nemico invisibile.
Capiamo,
quindi, che la scelta di Mann di utilizzare il digitale e di
realizzare riprese con videocamere ad alta definizione non è segnata
da una volontà meramente estetica o formale. Alla base di questo suo
gesto, è rintracciabile il desiderio di giungere all'ossatura stessa
della realtà, di osservare, con sguardo quanto più realistico
possibile, la società contemporanea. Il sistema numerico binario è
la base, per l'appunto, l'ossatura della società digitale.
Nella
società postmoderna ipersemiotizzata, le immagini rimandano di
continuo a se stesse, in un meccanismo a scatola chiusa che richiama
alla memoria il concetto di simulacro. Nel mondo informatico, le
informazioni, a loro volta, non rimandano ad un universo tangibile,
ma ad ulteriori informazioni. Ciò che si è perso, quindi, è il
contatto con la realtà tout court.
Nello
scontro finale, quello in cui Hathaway ha modo di affrontare
fisicamente i cybercriminali, persino i loro movimenti sembrano
ridotti a schematici e rettilinei “moti digitali”. Il corpo umano
sembra lentamente informatizzarsi, seguendo traiettorie simili a
quelle percorse dagli impulsi elettrici nelle prime sequenze.
L'analogico diviene digitale.
L'elemento
ponte tra i due statuti mediali è rivestito dall'atto del guardare,
dalla vista. É la
singolarità dell'immagine affezione a garantire il residuo
dell'elemento umano nell'universo digitale.
Hathaway,
che pure potrebbe essere il personaggio più lontano dalla realtà,
è, in realtà, il più pratico, quello che riesce a vedere meglio la
situazione globale. Le sequenze finali ambientate nel deserto
(che consentono la risoluzione della vicenda) offrono un essere
umano riplasmato e rinato nel suo sguardo.
Ciò
che rende grande Michael Mann risiede nella lucida analisi delle
dinamiche percettive, nel loro continuo innesto nella forma filmica
ed, infine, nello sfruttamento delle più tradizionali dinamiche di
genere che gli consente di realizzare un cinema sempre profondamente
onesto e coerente.
Ottima recensione! Mi hai tolto un gran peso... da grande estimatore di Mann tremavo per le pessime critiche ricevute dal film oltreoceano (dove è stato un fiasco colossale). Ora posso andare al cinema più tranquillo ;)
RispondiEliminaGrazie! Va' tranquillo, non te ne pentirai assolutamente!
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