di Matteo Marescalco
Nato a Londra da padre inglese e da madre materese, cresciuto a Pisa, dove ha studiato Lettere, e trasferitosi a Roma, dove si è diplomato in Sceneggiatura al Centro Sperimentale di Cinematografia, il regista Roan Johnson ha presentato lunedì pomeriggio in Aula Odeion alla Sapienza il suo ultimo film, Fino a qui tutto bene.
Commissionato dall'Università di Pisa come un documentario incentrato sulla vita degli studenti iscritti all'ateneo, Fino a qui tutto bene (in origine L'uva migliore) si è trasformato in un lungometraggio di 80 minuti sugli ultimi tre giorni di convivenza di cinque studenti universitari fuori sede.
«Il contesto universitario è l'argomento principale del film. Intendevo riferirmi, tuttavia, ad un preciso momento, quello di chi si è appena laureato ed è in attesa di un qualcosa che stenta ad arrivare. Si attendono borse di studio, assegni di ricerca ed esami di dottorato, con la triste consapevolezza, però, che è finita l'età dei giochi ed è cominciata quella delle responsabilità;»- ha detto Johnson durante l'incontro -«fino alla laurea si può ancora sbagliare. Dopo non più».
Durante gli ultimi tre giorni di convivenza emergono determinati aspetti tenuti nascosti fino al momento della resa dei conti. Fino a qui tutto bene è anche un film sul profondo sentimento di amicizia che lega cinque ragazzi e sull'inevitabile allontanamento che sarà conseguente alle loro scelte di vita.
Secondo il regista: «Gli amici universitari, in genere, non hanno alcun secondo fine. Dopo si entra nel mondo del lavoro, entra in ballo una tipologia differente di amicizia, piuttosto una collaborazione. La mia volontà era quella di mostrare il momento dell'addio, come una clessidra di tempo che sta per finire, con tutte le derive malinconiche e nostalgiche che ne conseguono, partendo da una serie di situazioni che aiutassero narrativamente a raccontare la storia dei cinque personaggi».
Secondo il regista: «Gli amici universitari, in genere, non hanno alcun secondo fine. Dopo si entra nel mondo del lavoro, entra in ballo una tipologia differente di amicizia, piuttosto una collaborazione. La mia volontà era quella di mostrare il momento dell'addio, come una clessidra di tempo che sta per finire, con tutte le derive malinconiche e nostalgiche che ne conseguono, partendo da una serie di situazioni che aiutassero narrativamente a raccontare la storia dei cinque personaggi».
Centro nevralgico della vita degli universitari fuori sede, è ovviamente, il proprio appartamento. É abbastanza risaputo che il sangue di chi esce indenne da una convivenza con altre tre/quattro persone, durante il periodo universitario, contiene anticorpi contro qualsiasi malattia dell'intero globo. L'ambiente universitario in sé non appare in Fino a qui tutto bene lasciando il posto al luogo di convivenza, alle pareti di casa che assorbono e che vivono le storie di tutti i coinquilini, alle lacrime in cucina, alle sbornie post-esame, ai segreti, alle rivelazioni e alle bugie.
Johnson si è soffermato, in modo particolare, sul cambiamento in corso riguardante il progetto: «L'Università di Pisa ci ha chiesto un documentario sull'ateneo. La nostra prima idea era stata intitolata L'uva migliore, sulla base dell'affermazione di un ragazzo intervistato che studiava enologia agraria e che ha detto che una delle cose migliori che ha imparato è che l'uva migliore per fare il vino è quella che ha sofferto. Il problema principale, oltre a quello dell'assenza di attori sociali e di un filo conduttore, riguardava il punto di vista da assumere. Ci risultava complesso, infatti, raccontare un ambiente così vasto come quello universitario, con mille difficoltà e situazioni differenti. Abbiamo deciso di optare, quindi, per il lungometraggio di finzione».
«Io mi sono laureato in Lettere con indirizzo Cinema all'Università di Pisa nel 1999 e mai noi laureati in quel periodo avremmo pensato che la crisi avrebbe raggiunto, quindici anni dopo, livelli così elevati. Allora si faticava ma era molto più semplice trovare lavoro. Oggi, invece, tutte le porte sembrano chiuse. Davvero la situazione è cambiata profondamente. Il cameratismo, l'unione, la complicità con gli amici possono essere i diversi ingredienti di una buona ricetta».
Ma allora, cosa fare, in un momento delicato come questo? In cui ogni situazione viene vissuta come una sbornia perenne, facendo tesoro di scambi culturali ed umani con le persone più eterogenee, con l'onnipresente senso di vertigine di chi si accinge ad abbandonare il mondo universitario per entrare in quello del lavoro? Continuare a remare, sbracciarsi ed andare avanti, tutti insieme.
«Dedicato a chi continua a remare». É questa la frase finale del lungometraggio che fa la sua comparsa prima dei titoli di coda e dopo l'ultima scena in cui i personaggi sono in barca alla deriva in mare aperto senza remi, in balia della desolazione più totale.
Per finanziare il film è stata utilizzata una formula particolare: la realizzazione in partecipazione. Nessuno dei tecnici e degli attori è stato pagato per il lavoro svolto, ma ad ognuno è stata assegnata una parte in percentuale sugli incassi in sala. Secondo quanto dichiarato da Roan Johnson, straripante come un fiume in piena: «Abbiamo scelto il low budget con cognizione di causa. Quelli della produzione e della distribuzione sono due aspetti principali. I principali agenti produttivi in Italia sono il Ministero della Cultura e Rai Cinema ed è ovvio che entrambi gli organi favoriscono film che rispettano un'idea di cultura avanzata dallo Stato. Quindi, insomma, cifre più elevate avrebbero causato minore libertà creativa. Se avessimo voluto fare un film più “ufficiale” saremmo dovuti passare dalle commissioni di questi due enti con il rischio di eccessiva dilatazione dei tempi e di edulcorazione delle situazioni trattate. Il circuito ufficiale mira al denaro e al soddisfacimento dei gusti popolari; il circuito indipendente, invece, può mettere in campo una serie di scelte di cuore».
Il regista ed Andrea Minuz (docente di Storia del Cinema e di Analisi dei film che ha curato l'incontro) si sono soffermati anche in modo un po' più approfondito sui meccanismi di produzione del film che sfrutta, fondamentalmente, tre forme differenti di finanziamento volte tutte al tentativo di ridurre al minimo le spese: «Il contratto di coproduzione è stato una bella scommessa. Una parte dei finanziamenti proveniva dalla Toscana Film Commission. Esiste una Film Commission per ogni regione italiana. In pratica viene stanziata una determinata cifra che, poi, deve essere reinvestita nel territorio stesso. Ed, infine, abbiamo scelto il tax credit interno ed esterno che ha consentito la detrazione delle tasse».
Pupillo di Paolo Virzì, già regista di un episodio del film 4-4-2 – Il gioco più bello del mondo e de I primi della lista, Roan Johnson è anche l'autore del romanzo Prove di felicità a Roma Est. L'ovvio riferimento è da individuare nella più tradizionale commedia all'italiana. «L'eredità della commedia all'italiana classica è più che scontata. Si va da Divorzio all'italiana a C'eravamo tanto amati fino a I soliti ignoti. Parliamo di film che avevano fatto dell'ironia, dell'autoironia e del cinismo il proprio tratto distintivo. L'influenza di Paolo (Virzì n.d.r.) e di Francesco Bruni si sente. E pure quella di Furio Scarpelli che è stato il loro maestro. Boia, che culo avere Scarpelli come maestro!».
A noi studenti, alle prese con un sistema universitario fossilizzato sulla parte teorica e che offre ben poche opportunità pratiche, non resta altro che far tesoro della lezione di Roan Johnson che, durante l'incontro di un paio d'ore, ha messo a disposizione i propri consigli e le proprie conoscenze, in attesa di tempi migliori che consentano a noi cinque coinquilini alla deriva in mare aperto di tornare a metter piede sulla terra ferma. Senza, ovviamente, nel frattempo, smettere di remare.
mi piace la storia del non compenso, ma in compenso, la partecipazione agli utili...alla frase "il pupillo di Virzì" mi si è stretto un pò il cuore, ma nonostante ciò, credo che andrò a vederlo al cinema, facendo guadagnare sti purazzi!
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