di Matteo Marescalco
Giovedì 26 Marzo, nell'ambito delle attività del Master in Editoria, giornalismo e management culturale del Dipartimento di Scienze documentarie, linguistico-filologiche e geografiche della Sapienza, si è tenuto un incontro con lo scrittore Niccolò Ammaniti. Il programma ha previsto la lettura della raccolta di racconti Fango da parte di Alberto Asor Rosa e l'intervento dei corsisti del Master che hanno posto all'autore una serie di domande sul suo percorso artistico.
Emaciato e smagrito rispetto alle ultime apparizioni pubbliche per lo sprint finale nella stesura dell'ultimo libro, Ammaniti ha partecipato attivamente all'incontro dimostrando profondo interesse nonostante l'esiguità e lo scarso livello qualitativo delle domande poste dai corsisti.
Ad aprire le danze è stato Asor Rosa che ha definito lo scrittore come una delle voci più innovative della nostra recente narrativa che ha sperimentato con grande audacia le possibilità nuove contenute nel nostro linguaggio e ha dato una serie di testimonianze sullo scavo sulla realtà e sui linguaggi contemporanei più vicini a noi.
Ammaniti ha debuttato nel mondo della letteratura con il romanzo Branchie nel 1994, edito inizialmente da Ediesse e poi da Einaudi nel 1997 con sostanziali modifiche, in seguito all'attribuzione dell'etichetta mediatica dei Cannibali.
Il romanzo, seminale a livello stilistico e ancora indeciso sul versante dello sviluppo narrativo, trova nella fallimentare esperienza universitaria dell'autore (Niccolò ha studiato Biologia senza mai laurearsi) il suo punto di partenza. Il libro narra il trip in India allucinato e psicotropo di un ragazzo malato terminale di tumore deciso a non curarsi. Nonostante le evidenti incertezze, Branchie contiene, in stato embrionale, tutti quegli elementi che, da lì a poco tempo, avrebbero caratterizzato la scrittura di uno dei più brillanti narratori italiani contemporanei.
«Branchie è stato il primo romanzo che ho scritto e ha creato un po' tutto senza che nemmeno me ne rendessi conto. Il libro è scritto in prima persona perchè vedevo, in questa scelta, la straordinaria possibilità di narrare eventi che raccontassero le mie passioni principali. Non sapevo cosa dovessi scrivere e mi sono ritrovato con l'idea di fare qualcosa di nuovo».
Risalgono al 1996 Fango e la raccolta di racconti Gioventù Cannibale che è valsa a Niccolò e ad altri autori (tra cui Luisa Brancaccio, Aldo Nove, Stefano Massaron e Alda Teodorani) la nomina di scrittori Cannibali. L'antologia è stata curata da Daniele Brolli per Einaudi.
Ha chiesto un corsista del Master quanto stesse stretta ad Ammaniti questa etichetta e quali fossero state le opere fondamentali per quel gruppo.
«Le opere che hanno fortemente influenzato la generazione dei Cannibali sono state American Psycho di Bret Easton Ellis e Pulp Fiction di Quentin Tarantino. Il pulp in Italia non era chiaro cosa fosse. Lo abbiamo visto arrivare e abbiamo cominciato a capire cosa fosse proprio con Pulp Fiction. All'epoca ero interessato a sperimentare una commistione tra materiale alto e basso, fumetti, cinema e prime strutture narrative dei videogiochi. Con Gioventù cannibale e Fango, mi sono ritrovato a muovermi all'interno di un genere, quello dell'horror, poco frequentato in Italia. Nel nostro Paese, purtroppo, sono arrivate solo copie sbiadite di autori quali Clive Barker e Stephen King. Il mio obiettivo era quello di unire la realtà italiana a qualcosa che non ci riguardasse, cercare una commistione tra storia prettamente italiana e immagini che potessero provenire dall'estero. Il grande successo fu dovuto, in larga parte, alla prefazione di Daniele Brolli che definì la nostra opera «l'anno zero della letteratura italiana. Il segno di un nuovo inizio». Ovviamente queste dichiarazioni fecero incazzare terribilmente l'opinione pubblica e noi finimmo nell'occhio del ciclone. Volevano i cannibali? E noi facevamo i cannibali», ha detto molto francamente Ammaniti.
Fango, pubblicato dalla Mondadori nel 1996, è composto da sei racconti: L'ultimo capodanno dell'umanità, Rispetto, Ti sogno con terrore, Lo zoologo, Fango (Vivere e morire al Prenestino) e Carta e Ferro. Comincia ad affermarsi, grazie a questa antologia, la capacità di Niccolò di gestire complesse narrazioni reticolari e di dar vita ad intrecci che coinvolgono una moltitudine di personaggi alle prese con le loro pulsioni più recondite.
«Dopo aver scritto Branchie, non sapevo se avrei continuato con la scrittura. La prima domanda che mi sono posto, inserendo nel libro ogni residuo anarchico che mi era rimasto, era capire cosa fare. Provare a studiare lo sviluppo di una storia. Fino a quel momento, non sapevo sviluppare e costruire un libro. La mia preparazione giovanile si basava unicamente sui classici inglesi e su Il giovane Holden. Poi ho cominciato a leggere i minimalisti americani. Il mio obiettivo divenne mostrare il mondo dal mio punto di vista, come se fossi un Dio artefice che costruisce attorno ai suoi personaggi un panorama in cui muoversi. E ho provato a scrivere una serie di racconti anzicchè un romanzo. Così è nato Fango. Nel primo racconto, la lezione del montaggio al cinema mi è stata molto utile. Avevo imparato a staccare tra i personaggi alla maniera cinematografica. Ho immaginato un'unità di luogo e di tempo con tanti personaggi di cui potessi osservare, come Jeff ne La finestra sul cortile, situazioni e propositi che, nell'anno incipiente, avrebbero dovuto migliorare le loro aspettative di vita. Provavo un goliardico divertimento nel vedere i miei personaggi massacrati. La struttura di questo primo racconto ricalca quella di America oggi di Altman e di Magnolia di Anderson. Devo molto anche ai racconti di Carver che portava sulla carta le deviazioni di un'America tranquilla di fronte a strane storie.
Il secondo racconto, invece, parte dall'idea della prima persona plurale. Ho assunto il punto di vista del branco e ho descritto un terribile stupro in cui i resti della nottata bagorda venissero paradossalmente nascosti dal sorgere del sole.
Nell'ultimo racconto traspare, indubbiamente, l'influenza del cyber-punk e di manga quali Akira e Full Metal Alchemist. Diciamo che alla base di molti miei scritti si può ritrovare lo stesso meccanismo che domina il mondo di Alfred Hitchcock o degli episodi di Ai confini della realtà: personaggi normali a cui capitano fatti assurdi».
Nel 1999 è il turno di Ti prendo e ti porto via, edito da Mondadori, che segna una cesura all'interno della sua carriera artistica.
«In Ti prendo e ti porto via ho abbandonato le mie passioni e mi sono concentrato sui rapporti sociali. Ho provato a costruire una storia d'amore ai margini della società e ho assunto il punto di vista di due adolescenti. Penso che solo attraverso l'ingenuità dello sguardo dei bambini si possa realmente analizzare la società».
Questo romanzo rappresenta, molto probabilmente, lo zenit della produzione ammanitiana che assume sempre più la veste del viaggio di formazione. Il libro narra la storia di Pietro e Gloria e, attraverso un flashback, mostra anche le vicende di altri personaggi le cui esistenze si aggrovigliano con quelle dei due protagonisti. A fare da padrone è una sensazione di inevitabile fatalismo, continuamente insediato, tuttavia, da fugaci illuminazioni epifaniche. Non sembra esistere alcuna via di scampo per i personaggi del romanzo, condannati tutti quanti ad una esistenza marginale, ad alzarsi per poi cadere rovinosamente.
La dialettica buio-luce ed il rapporto genitori-figli vengono ampiamente trattati in Io non ho paura (edito da Einaudi nel 2001) e in Come Dio comanda (Mondadori, 2006) che gli vale il Premio Strega.
Entrambi i romanzi rappresentano il percorso che porta alla presa di coscienza dei due giovani protagonisti (Michele Amitrano e Cristiano Zena) nei confronti della realtà e dei loro genitori, con una sostanziale differenza.
Nel primo romanzo, Ammaniti colloca il suo protagonista in bilico tra il mondo degli uomini e il mondo dei mostri, in un luogo liminale tra luce e buio. Michele scopre la sofferenza e il male dell'età adulta in un'oscura buca che nasconde un terribile segreto nella vastità di un dorato campo di grano. Tornare indietro è impossibile e al bambino non resta altro da fare che affrontare i fantasmi che lo porteranno alla maturità, consapevole del fatto che «(...) i mostri non esistono. I fantasmi, i lupi mannari, le streghe sono fesserie inventate per mettere paura ai creduloni. Si deve avere paura degli uomini, non dei mostri».
Nella prosecuzione ideale,
Come Dio comanda, Cristiano è precipitato nella buca nera cui era accorso Michele. Anche la progressiva caduta nella reiterazione dell'orrore quotidiano, sotto la pioggia battente, tuttavia, può nascondere una serie di attimi luminosi, che vengono vissuti, probabilmente, solo a livello mentale ma che sono in grado di donare la speranza al giovane protagonista.
Ammaniti e Asor Rosa si sono soffermati, infine, sui rapporti tra cinema e letteratura. Diverse sono state, infatti, le trasposizioni cinematografiche tratte dai libri dello scrittore romano che ha dichiarato di preferire L'ultimo capodanno di Marco Risi, nonostante sia stato un netto flop commerciale.
Al termine dell'incontro, Niccolò si è congedato con una frase che esprime in pieno il suo carattere e il suo stile di scrittura: «Lo scrittore deve vivere poco. Piuttosto, deve saper osservare. Siamo, più che altro, dei voyeur. Lo scrittore non è quello che balla al centro della pista, ma più l'osservatore ai margini, quello che nota le dinamiche immerso in un timido silenzio».
E noi non abbiamo potuto fare altro che notare la timidezza di Ammaniti, la sua ironia ed autoironia (maschera per eccellenza dei timidi), e il sorriso malinconico che sembra aver trasmesso direttamente ai suoi personaggi, sempre in bilico tra parossismo grottesco e realismo più crudo, alle prese con la devastazione della vita, ma sempre in attesa di un qualche lampo che li prenda e li porti via.