di Egidio Matinata
Un film di Peter Jackson. Con Ian McKellen, Martin Freeman, Richard Armitage,
Evangeline Lilly, Luke Evans, Benedict Cumberbatch, Cate Blanchett, Ian Holm,
Christopher Lee, Hugo Weaving, Orlando Bloom. Durata 144 min.
Fantastico, avventura. Nuova Zelanda, Usa 2014.
Dopo aver ceduto alla malattia del drago, Thorin
Scudodiquercia, sacrifica amicizia ed onore nella ricerca della leggendaria
Arkengemma. Incapace di aiutare Thorin, Bilbo viene costretto a fare una scelta
disperata e pericolosa. Tutto ciò mentre Sauron, il Signore Oscuro, ha mandato
in avanscoperta legioni di Orchi per attaccare la Montagna Solitaria. Le razze
di Nani, Elfi ed Umani devono decidere se rimanere uniti o essere distrutti.
Bilbo si ritrova a combattere per la propria vita e per quella dei suoi amici,
mentre cinque grandi armate scendono in guerra.
Anche la seconda trilogia di Peter Jackson sulla
tolkeniana Terra di Mezzo giunge al termine. E non poteva farlo in modo
peggiore. La causa che rende questi tre film deludenti non è tanto nel
confronto con Il Signore degli Anelli,
quanto nel fatto che tutto il progetto tendeva a voler creare un nuovo Signore
degli anelli.
L’adattamento
cinematografico de Lo Hobbit non
aveva certo bisogno di essere diviso in tre film. Il romanzo racconta una
storia più contenuta, più ristretta. Era un antipasto per quello che sarebbe
venuto dopo. L’aggiunta, in fase di sceneggiatura, di nuovi personaggi e
sottotrame non presenti nel libro, nelle intenzioni tendeva a creare un maggior
senso di coralità ed epicità. Purtroppo, la sensazione che si ha guardando il
film volge all’opposto. Il brodo è stato allungato troppo, ed è diventato
indigesto. La resa finale è divisa tra sequenze che dovrebbero essere eroiche
e memorabili, ed altre che risultano talmente rocambolesche da sfiorare la
parodia. Tutta la saga crolla sotto il peso della sua ambizione, e nel peggior
modo possibile: attraverso una parabola discendente. Se Un viaggio inaspettato sembrava promettere bene, La desolazione di Smaug, invece,
cominciava a mostrare già tutte le falle del progetto. L’ultimo capitolo soffre
di una piattezza e di una lentezza che si protrae durante tutto l’arco
narrativo. Il problema non riguarda, però, il ritmo (che resta costantemente
elevato), quanto il coinvolgimento. Lo spettatore rimane distaccato di fronte a
tutto ciò che succede sullo schermo, ed è una cosa abbastanza grave in un film
del genere. Nonostante ci siano battaglie, morti tragiche, amori e addii, il
pathos non la fa mai da padrone. Anche dal punto di vista tecnico ci si
aspettava molto di più. Scene altamente spettacolari si alternano con facilità
ad altre che sembrano uscire direttamente da un videogioco. Cosa che,
paradossalmente, non accadeva mai nella precedente trilogia. La sperimentazione
dei 48 fotogrammi al secondo, poi, non ha avuto l’impatto rivoluzionario che ci
si aspettava, e sembra rimanere qualcosa fine a se stessa.
Lasciamo questa trilogia con l’amaro in bocca, principalmente
per due motivi.
Il primo è Guillermo del Toro, che figura soltanto nelle vesti
di sceneggiatore e produttore, e che inizialmente avrebbe dovuto dirigere il
tutto. Chissà come sarebbe stato il mondo di Tolkien, visto attraverso gli occhi di
uno dei registi più visionari degli anni 2000.
Il secondo è Peter Jackson. Dispiace che lasci la Terra di Mezzo (luogo
in cui si è mosso abilmente e che, in qualche modo, ha plasmato e fatto suo) in modo
impalpabile. Avrebbe dovuto passare il testimone molto prima.
Sarebbe stato
meglio per tutti.
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