di Egidio Matinata
Tim Burton torna dietro la macchina da presa due
anni dopo Frankenweenie, decidendo di
raccontare la storia di Margaret Keane, sceneggiata da Scott Alexander e Larry
Kareszewski, già collaboratori del regista statunitense in uno dei suoi lavori
più belli, Ed Wood.
Il film racconta l’incredibile storia vera di una
delle più leggendarie frodi artistiche della storia. A cavallo tra gli anni
cinquanta e sessanta, il pittore Walter Keane raggiunse un enorme e inaspettato
successo, rivoluzionando la commercializzazione dell’arte con i suoi enigmatici
ritratti di bambini dai grandi occhi. Finché non venne a galla l’assurda
verità: i quadri erano opera di Margaret, sua moglie.
Gli outsider, i personaggi al limite o emarginati
sono sempre stati al centro del cinema di Tim Burton, quindi si può ben capire perché
abbia deciso di avvicinarsi a questo progetto, essendo anche amico della
pittrice da diversi anni. Quest’ultimo non è un elemento da sottovalutare nella
resa finale del film: infatti sembra quasi che abbia deciso di tenere a bada il
suo estro visionario restituendo allo spettatore la storia in sé, senza
ulteriori rielaborazioni personali. Avrebbe giovato, dal punto di vista della scrittura, invece della voice
over del giornalista che ha seguito tutta la storia dei coniugi Keane, il
racconto in prima persona di Margaret, concentrando maggiormente l’attenzione
sulle ossessioni di questa donna, le cui incertezze e debolezze sono ben rese
sullo schermo da Amy Adams. Non si può dire lo stesso di Christoph Waltz, il
quale, eccessivamente sopra le righe, non riesce a trovare la chiave per
interpretare Walter, diventando in modo sempre più preoccupante una brutta
copia di se stesso nelle sue interpretazioni migliori.
Il film resta un buon biopic; ottimo se ci si
dimentica che è stato girato da Burton, il cui tocco si vede a sprazzi a
inizio film e nelle scene in cui la protagonista, in crisi, comincia a vedere i
grandi occhi che dipinge sui visi delle persone che la circondano. Anche il
tema dell’arte e della sua legittimazione in quanto tale da parte del giudizio
dei critici non viene affrontato come dovrebbe. Nel finale di Ed Wood, in cui il regista riceve il
riconoscimento mai avuto in vita, si possono trovare tutte le risposte ai
quesiti posti da Big Eyes, un buon
film che arriva nel momento sbagliato tra le mani di uno dei registi più
visionari degli ultimi trent’anni, in una fase calante della sua carriera.
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