Powered By Blogger

lunedì 29 dicembre 2014

I 10+1 FILM DEL 2015

di Matteo Marescalco

Dopo aver steso classifiche e contro-classifiche sui migliori e i peggiori film dell'anno, è arrivato il momento di indossare le vesti da vaticino e provare a concentrare l'attenzione sui film più attesi del prossimo anno.

Il primo film di Matteo Garrone girato in lingua inglese è, senza ombra di dubbio, uno di quelli verso cui sono orientate le più rosee aspettative. Tratto da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, è incentrato su una serie di racconti narrati da dieci anziane in cinque giornate. Chi ha assistito alla presentazione delle prime immagini alle Giornate Professionali del Cinema di Riccione ha detto: «John C. Reilly è riverso a terra vestito di un’armatura medievale, ha alcune ferite al ventre, e un enorme cuore pulsante di drago giace abbandonato al suo fianco. Poco più tardi vediamo la carcassa dell’animale. Una longilinea ninfa delle foreste, lunghissimi capelli rossi e ricci, un corpo bianco e magro, osserva silenziosa la macchina da presa. Una donna in abiti nobiliari si abbuffa di un enorme pezzo di carne cruda al tavolo di un grande salone coperto di marmi. E poi altre scene che definiscono il contorno di un fantasy estremo e crudele, gravido di suggestioni silvestri e cavalleresche, ma virate ad un immaginario pittorico e adulto». Il cast comprende Vincent Cassel, Salma Hayek, John C. Reilly e Toby Jones, la colonna sonora è stata affidata ad Alexandre Desplat. Quasi certa la presenza in concorso a Cannes.

INSIDE OUT DI PETE DOCTER
Gli ultimi tre film della Pixar non sono stati i più fortunati realizzati dallo studio cinematografico che ha gettato le fondamenta dell'animazione digitale. Cars 2, The Brave e Monsters University hanno orientato la produzione della Pixar verso un climax discendente, che ha spinto i geni americani a prendersi un anno sabbatico dall'ipertrofia creativa che ha consentito loro di realizzare ben otto film in otto anni, dal 2006 al 2013. Dopo il momentaneo abbandono di Andrew Stanton e Brad Bird (entrambi si sono dedicati alla live action), il giro di boa era inevitabile. Pleonastico nascondere le aspettative che nutriamo nei confronti di questo film dedicato al complesso mondo delle emozioni, che, personificate, vivono nella centrale operativa situata nella mente di ogni essere umano. In uscita il 19 Agosto 2015. Si ipotizza l'apertura della 61esima edizione del Taormina Film Fest.

L'ULTIMO VAMPIRO DI MARCO BELLOCCHIO 
Nell'Italia del Nord del XVII secolo, una suora accusata di stregoneria seduce un giovane confessore, che però rifiuta di cedere alle sue brucianti tentazioni. La loro è una lotta di desideri, di illusioni e di bugie, che, inaspettatamente, continuerà ad avere effetti e conseguenze anche secoli dopo. La nuova stagione cinematografica italiana si annuncia come una delle più interessanti degli ultimi anni, con il ritorno di autori quali Paolo Sorrentino, Matteo Garrone, i fratelli Taviani, Nanni Moretti e Francesca Archibugi. L'ultimo riservatissimo progetto di Bellocchio che, visto l'affollamento di registi italiani a Cannes 2015, dovrebbe accontentarsi della Mostra del Cinema di Venezia, vede tra i propri protagonisti Filippo Timi (che torna a collaborare con il regista di Bobbio dopo Vincere), Alba Rohrwacher, Roberto Herlitzka e Pier Giorgio Bellocchio. In uscita tra Settembre e Ottobre 2015.

THE VISIT DI M. NIGHT SHYAMALAN
Il ragazzo prodigio del cinema americano che, nel 1999 finì al centro dell'attenzione mediatica con Il
sesto senso, e che, nel corso degli anni seguenti, ha intrapreso un sentiero scosceso che lo ha reso un veleno per gli incassi al box office, ritorna con una storia scritta manu propria, dopo le parentesi de L'ultimo dominatore dell'aria e di After earth. The visit, horror a basso budget acquistato dalla Universal, racconterà la storia di un fratello e di una sorella che vengono mandati dai nonni, in una sperduta fattoria della Pennsylvania. Una volta arrivati, i due bambini scopriranno che la coppia di anziani è coinvolta in qualcosa di profondamente misterioso ed ambiguo, tanto da capire che difficilmente torneranno a casa vivi. Lo aspettiamo perchè il film è prodotto da Jason Blum, padre degli horror più riusciti degli ultimi anni, e perchè M. Night Shyamalan, nonostante gli ingiusti insuccessi, rimane uno degli autori più originali e dei narratori più avvincenti degli ultimi 15 anni di cinema americano. In uscita l'11 Settembre 2015, in tempo per la 72esima Mostra del Cinema di Venezia.

EVERYTHING WILL BE FINE DI WIM WENDERS
Secondo film in 3D per il regista tedesco e prima collaborazione con il poliedrico James Franco, Everything will be fine vede come protagonista lo scrittore Thomas che, un giorno, guidando senza meta dopo una lite familiare, causa accidentalmente la morte di un bambino. Nei successivi dodici anni, allontanatosi dalla famiglia, cercherà di dare un ordine alla sua vita infranta da quel triste incidente. Notevole è la curiosità attorno a quest'ultimo progetto di Wenders, che torna al cinema di finzione sei anni dopo Palermo Shooting, e che verrà insignito dell'Orso d'Oro alla Carriera al prossimo Festival del Cinema di Berlino. Scontato pensare alla sua partecipazione in concorso a Berlino. Altrimenti, il Festival di Cannes sarebbe dietro l'angolo. Sconosciuta la data d'uscita internazionale.

MIDNIGHT SPECIAL DI JEFF NICHOLS
Film di fantascienza scritto e diretto da Jeff Nichols, talentuoso regista di Shotgun Stories, Mud e Take Shelter. Nichols lo ha descritto come uno sci-fi chase film, ovvero, come un film di fantascienza e di fuga. Il cast comprende Adam Driver, Joel Edgerton, Michael Shannon, Scott Haze e Kirsten Dunst. In uscita il 26 Novembre 2015. Si auspica la sua partecipazione alla prossima Mostra del Cinema di Venezia.


CRIMSON PEAK DI GUILLERMO DEL TORO
Dopo La spina del diavolo, il visionario regista messicano Guillermo Del Toro (autore de Il labirinto

del fauno), torna ad una storia di fantasmi con Crimson Peak. Il cast include Mia Wasikowska, Jessica Chastain, Tom Hiddleston e Charlie Hunnam. Ricco di effetti speciali direttamente realizzati nel profilmico ed ambientato all'interno di una casa infestata, interamente costruita per l'occasione (il regista ha dichiarato di aver preferito l'artigianalità agli effetti digitali), Crimson Peak si annuncia come l'horror dell'anno. Del Toro ha citato Rebecca, Jane Eyre e il particolare technicolor di Mario Bava come fonti di ispirazione per l'atmosfera del film. In uscita negli USA il 16 Ottobre 2015, è lecito sognare un suo passaggio a Venezia (sarebbe eccitante pensare ad una terza apertura consecutiva affidata, dopo Alfonso Cuaron e Alejandro Gonzalez Inarritu, ad un altro regista messicano). Molto più probabile la partecipazione a Cannes.

SEA OF TREES DI GUS VAN SANT
Il nuovo film di Gus Van Sant parla di vita, di dolore, di suicidio ed è ambientato in Giappone, ai piedi del Monte Fuji, in una foresta chiamata, come suggerisce lo stesso titolo, Mare di alberi, in cui si dice che gli uomini perdano se stessi. Matthew McConaughey è il protagonista, affiancato da Ken Watanabe, un uomo che il suddetto incontrerà mentre tenta il suicidio e che lo aiuterà a riscoprire il piacere della vita. Questo dramma favolistico e sospeso potrebbe segnare il riscatto di Van Sant dopo il poco riuscito Promised Land. La data di uscita è sconosciuta.

Fresco vincitore del Premio Oscar al Miglior Film Straniero, Paolo Sorrentino torna dietro la macchina da presa con un film che può vantare un nutrito cast internazionale che comprende Harvey Keitel, Michael Caine, Rachel Weisz, Jane Fonda e Paul Dano. Secondo film girato in lingua inglese, La giovinezza segna la fine della collaborazione con lo sceneggiatore Umberto Contarello, co-autore di This must be the place e de La grande bellezza. Le prime immagini tratte dal film e presentate alle Giornate Professionali del Cinema di Sorrento, mostrano un centro termale extraurbano che ospita decine di anziani. I corpi nudi e cadenti, carichi di acciacchi, annacquati in vasche riscaldate, rinchiuse nelle saune ed esposti a cromoterapia, vengono spostati da grandi ascensori in tunnel che conducono verso altre attività curative. La fissità pensosa dei personaggi è segno di esistenze rassegnate, di corpi parcheggiati in attesa del nulla. Poi, da una vasca all'aperto, irrompe il corpo nudo e formoso di una ragazza. In uscita il 21 Maggio 2015. Scontata la presenza al Festival di Cannes.

Ancora un altro film di genere nella nostra classifica. A dirigere Tomorrowland è Brad Bird, genio creativo del gruppo Pixar prestato al mondo della live action. Al momento, si sa solo che il film è, in qualche modo, ispirato ad Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg. Sceneggiato da Damon Lindelof, co-creatore della serie-tv Lost ed interpretato da George Clooney e Hugh Laurie, il film racconta la storia di una ragazzina curiosa e di un genio disilluso, tra ambientazioni futuristiche e pericoli ed ostacoli da superare. In uscita il 21 Maggio 2015. Papabile per il Fuori Concorso di Cannes.

KNIGHT OF CUPS DI TERRENCE MALICK
Pochi giorni fa è stato rilasciato il primo trailer del film che verrà presentato in anteprima al prossimo Festival del Cinema di Berlino. Sulla falsariga di The tree of life e To the wonder, Knight of cups conferma la prolificità creativa dell'ultimo periodo del regista Terrence Malick. Si tratta di una storia sentimentale che coinvolge persone diverse che lavorano nel mondo del cinema. Il cast all-stars comprende Christian Bale, Natalie Portman, Cate Blanchett, Antonio Banderas e Freida Pinto.

giovedì 25 dicembre 2014

BIG EYES

di Egidio Matinata
 
Un film di Tim Burton. Con Amy Adams, Christoph Waltz, Danny Huston, Krysten Ritter, Jason Schwartzman, Terence Stamp, Jon Polito. Biografico, USA 2014. Durata 104 minuti.

Tim Burton torna dietro la macchina da presa due anni dopo Frankenweenie, decidendo di raccontare la storia di Margaret Keane, sceneggiata da Scott Alexander e Larry Kareszewski, già collaboratori del regista statunitense in uno dei suoi lavori più belli, Ed Wood.
Il film racconta l’incredibile storia vera di una delle più leggendarie frodi artistiche della storia. A cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta, il pittore Walter Keane raggiunse un enorme e inaspettato successo, rivoluzionando la commercializzazione dell’arte con i suoi enigmatici ritratti di bambini dai grandi occhi. Finché non venne a galla l’assurda verità: i quadri erano opera di Margaret, sua moglie.
Gli outsider, i personaggi al limite o emarginati sono sempre stati al centro del cinema di Tim Burton, quindi si può ben capire perché abbia deciso di avvicinarsi a questo progetto, essendo anche amico della pittrice da diversi anni. Quest’ultimo non è un elemento da sottovalutare nella resa finale del film: infatti sembra quasi che abbia deciso di tenere a bada il suo estro visionario restituendo allo spettatore la storia in sé, senza ulteriori rielaborazioni personali. Avrebbe giovato, dal punto di vista della scrittura, invece della voice over del giornalista che ha seguito tutta la storia dei coniugi Keane, il racconto in prima persona di Margaret, concentrando maggiormente l’attenzione sulle ossessioni di questa donna, le cui incertezze e debolezze sono ben rese sullo schermo da Amy Adams. Non si può dire lo stesso di Christoph Waltz, il quale, eccessivamente sopra le righe, non riesce a trovare la chiave per interpretare Walter, diventando in modo sempre più preoccupante una brutta copia di se stesso nelle sue interpretazioni migliori.
Il film resta un buon biopic; ottimo se ci si dimentica che è stato girato da Burton, il cui tocco si vede a sprazzi a inizio film e nelle scene in cui la protagonista, in crisi, comincia a vedere i grandi occhi che dipinge sui visi delle persone che la circondano. Anche il tema dell’arte e della sua legittimazione in quanto tale da parte del giudizio dei critici non viene affrontato come dovrebbe. Nel finale di Ed Wood, in cui il regista riceve il riconoscimento mai avuto in vita, si possono trovare tutte le risposte ai quesiti posti da Big Eyes, un buon film che arriva nel momento sbagliato tra le mani di uno dei registi più visionari degli ultimi trent’anni, in una fase calante della sua carriera.

mercoledì 24 dicembre 2014

TOP TEN 2010-2014

di Matteo Marescalco

Il 2015 è alle porte ed è prassi comune, per qualsiasi rivista che tratti di Cinema, stilare la classifica dei migliori film usciti nel corso dell'anno. Noi di Diario di un Cinefilo lo abbiamo fatto (potete trovarla qua) . Ma siamo anche andati oltre. Abbiamo deciso di selezionare quelli che riteniamo essere i migliori dieci film della prima metà degli anni '10 del 2000. E' stato uno sforzo tremendamente notevole invidiatoci anche dai Cahiers du Cinema e da Peter Travers di Rolling Stone.
A voi i nostri film del cuore degli ultimi cinque anni. I lungometraggi che resteranno più a lungo impressi nell'immaginario collettivo, quelli che, a nostro parere, avranno i maggiori stralci sul Cinema futuro e hanno cambiato il modo di concepirlo.
Sono stati tanti gli esclusi eccellenti. Per questo motivo, abbiamo deciso di selezionare cinque film da Menzione speciale.
Che il Dio del Cinema possa avere pietà di noi.
P.S. Cliccando sul titolo di alcuni film, potete raggiungere la recensione integrale.

1) THE TREE OF LIFE DI TERRENCE MALICK (USA, 2011)
L'oltre-Cinema. Citando Giona Nazzaro: «The Tree of Life è un'opera-mondo che si dispiega con la leggerezza di un poema sinfonico-filosofico. Malick giunge alla fine del mondo e contempla il divenire del mondo come un percorso di scoperta della comunione delle cose e del mondo in un movimento dolcissimo e vertiginoso che abbraccia lo sguardo e lo conduce alle radici e oltre del Cinema» . Si ritorna ad un racconto per immagini che rimanda al Cinema delle origini arricchito da un'attenzione polifonica ai vari elementi della Natura legati da una fitta rete di corrispondenze segrete. Il mistero alla base del movimento cinematografico equivale al fuoco che arde il divenire vitale. 

L'attenzione al microcosmo di due esseri umani, un reduce con il sistema nervoso a pezzi e un uomo che ha dato vita ad una setta religiosa e ha sperimentato un particolare metodo di introspezione, sfocia in un'analisi del macrocosmo e della condizione collettiva della Solitudine, presupposto ontologico del Cinema di Paul Thomas Anderson, caratterizzato da personaggi alienati e sempre profondamente soli, in preda alle oscure forze del destino di cui sono vittime. Un saggio psicoanalitico sulla condizione umana. Per certi versi, affine a The Tree of Life. Quando oltre la forma, c'è molto di più.  

3) BIRDMAN OR (THE UNEXPCTED VIRTUE OF IGNORANCE) DI ALEJANDRO GONZALEZ INARRITU (USA, 2014)
Tra Mulholland Drive e Nodo alla gola, Venere in pelliccia e Synecdoche New York, Inarritu dirige il suo film più visionario e debordante. Birdman è un'opera fiume incentrata su un attore che ha raggiunto il successo planetario nel ruolo di un supereroe alato. Tre piani sequenza bastano a delineare il ritratto di una Hollywood balorda e fagocitante. Il finale, con il controcampo negato, è il più fulgido esempio di massima libertà concessa allo spettatore. 

4) GONE GIRL DI DAVID FINCHER (USA, 2014)
Un saggio sulla regia da manuale del Cinema. Cupo, freddo ed asettico, il thriller con venature horror di Fincher focalizza la sua attenzione sull'altra faccia della medaglia dell'amore. Memorabile il ritratto del personaggio femminile mentalmente polimorfo e l'assassinio finale. L'attenzione agli oggetti, il mcguffin e la suspense rinviano al miglior Hitchcock, con l'ovvio accostamento a Vertigo, rispetto al quale, tuttavia, i ruoli maschile e femminile sono completamente invertiti. La costruzione
drammaturgica perfetta sarebbe da studiare nelle scuole di Cinema.  

5) IL CAVALLO DI TORINO DI BELA TARR (HUN, 2011)
Una creazione che si rivela fine del mondo, in cui l'ultima luce che ci separa dall'inizio del regno delle tenebre è rappresentata da una lanterna che, a suo tempo, diede i natali al Cinema. Un'apocalisse priva della minima possibilità di redenzione cala sulla vita che ha il sapore di un'ossessiva e monotona routine priva di accensioni cromatiche. Alla fine della ragione, non resta nulla, se non il lento, progressivo ma ormai stanco moto di un cavallo che tanto caro fu ai primi studiosi del dinamismo in ottica cinematografica. 

6) GRAVITY DI ALFONSO CUARON (USA, 2013)
L'angosciante e solitaria odissea di due personaggi isolati nello spazio, dalla durata complessiva di 92 minuti, con un piano sequenza iniziale di 17 minuti e 156 piani totali che stridono fortemente con i 1000/2000 richiesti, di solito, per un blockbuster del genere. Cuaron incasella l'ultimo tassello del mosaico della sua Trilogia del viaggio (Y tu mama tambien e I figli degli uomini). Lo spazio è un non-luogo mistico e straniante che fa da preludio ad una ri-soggetivizzazione della coscienza individuale. Dal deserto dei sentimenti fino al giardino della rinascita universale, l'umanesimo di Cuaron non perde un colpo. Pietra miliare della fantascienza del nuovo millennio.

7) TOY STORY 3 DI LEE UNKRICH (USA, 2010)
Verso l'infinito e oltre... Chi non è cresciuto con questa citazione, tratta da Toy Story-Il mondo dei giocattoli, ha indubbiamente avuto un'infanzia molto triste. Ironia a parte, la trilogia creata da John Lasseter ha segnato un'epoca. Cinematografica e non solo. Primo lungometraggio interamente realizzato in CGI, Toy Story è stato il primo grande successo della Pixar che, dal lontano 1995 non ha perso un colpo. Un film on the road che chiude un perfetto viaggio di formazione. A volte, i film d'animazione raggiungono vette ineguagliate dalla maggior parte dei film in live action.

Il vampiro di Jarmusch è l'ultimo faro protettore della bellezza e del furor emotivo nel mondo, nel contesto di un'umanità giunta alla fine, persa in una routine quotidiana omologante e standardizzata. In una corrispondenza dal sapore romantico tra vampirismo e arte, Adam ed Eve collezionano reliquie della Storia, oggetti che si caricano di valore sacrale e che attestano l'age d'or del mondo che fu. Persino pensare ad una catarsi è impossibile. Non rimane nient'altro che la forza dell'Amore.

9) BALADA TRISTE DE TROMPETA DI ALEX DE LA IGLESIA (ESP, 2011)
Ancora un'altra storia di commistione tra macrocosmo collettivo e microcosmo individuale. A fare da traghettatore, questa volta, è un clown triste, che lega tra loro le principali vicende spagnole del Novecento. Con il suo solito stile debordante e barocco, De la Iglesia si conferma un notevole prestigiatore dei più disparati generi cinematografici: dal melodramma alla commedia, dall'horror al gotico. E, alla fine, non resta nient'altro che l'iperbole di una maschera in lacrime indossata da un uomo che scopre la sua natura ferina. 


10) BLANCANIEVES DI PABLO BERGER (ESP, 2012)
Soventi sono gli esempi di Cinema contemporaneo che alimenta e fa rivivere il Cinema delle origini, quello muto dei Lumiere e di Melies, di Vertov e Griffith, Murnau e Chaplin. Alcuni registi utilizzano le stesse strategie espressive visive dei loro padri spirituali, concentrandosi sui movimenti e le performance attoriali. Altri realizzano progetti di messa in scena che insistono sul ritmo dinamico del montaggio. Altri ancora si concentrano sull'annichilimento della parola. Blancanieves è meno accattivante ma più inventivo di The Artist. Hazanavicius si limitava, infatti, ad una mera mimesi, Berger, invece, commistiona le differenti modalità espressive del cinema muto e di quello moderno.


Menzione speciale a: 

Drive di Nicolas Winding Refn (USA, 2011)
Shame di Steve McQueen (GBR, 2011) 
L'illusionista di Sylvain Chomet (FRA, 2010)

domenica 14 dicembre 2014

TOP TEN E FLOP TEN 2014

di Matteo Marescalco

Dopo quella dei Cahiers du Cinema, arriva la seconda Top Ten dei film del 2014 più attesa dai cinefili di mezzo mondo. Quella stilata dai redattori di Diario di un cinefilo.
Il momento è sacro. Dicembre è arrivato ed è, quindi, tempo di fare bilanci sull'anno cinematografico appena trascorso. Non c'è cosa più divertente che classificare, promuovere o bocciare quanto visto al cinema, con gli inevitabili stralci polemici di cui queste attività si fanno foriere.
Oltre alla Top Ten, abbiamo creato la Flop Ten 2014 che comprende i film che hanno maggiormente deluso le nostre aspettative. Prima di scatenare il putiferio, è opportuno precisare ulteriormente che sarebbe stato inutile scagliarsi contro la Croce Rossa inglobando U.C.O. (Unidentified Cinema Objects) come Mio papà di Giulio Base, I nostri ragazzi di Ivano De Matteo et similia. 
Abbiamo preferito, piuttosto, inserire lungometraggi che, per vari motivi, come già detto, hanno deluso le nostre notevoli aspettative rivelandosi scadenti e ricattatori.
Bando alle ciance, a voi le classifiche!
P.S. Se voleste farvi del male e foste interessati alla recensione dei film in classifica, vi basterebbe cliccare sul titolo.

TOP TEN
Tra Mulholland Drive e Nodo alla gola, Venere in Pelliccia e Synecdoche New York, Inarritu dirige il suo miglior film. Birdman è un'opera fiume incentrata su un attore che ha raggiunto il successo planetario nel ruolo di un supereroe alato. Tre piani sequenza bastano a delineare il ritratto di una Hollywood balorda e fagocitante. Il finale, con il controcampo negato, è il più fulgido esempio di massima libertà concessa allo spettatore. 

Il film della maturità per il regista texano. Puro esercizio di scrittura fotografato da Robert Yeoman e musicato da Alexandre Desplat. Ritornare nel mondo andersoniano è come incontrare i nostri vecchi cari amici e parenti, che ammiriamo, odiamo, invidiamo ed evitiamo. Ma a cui vogliamo, inevitabilmente, un gran bene.

Un'epopea al grand guignol nella monotona vita quotidiana di un gruppo di studenti. Il gioco mortale di Miike è un pastiche cromatico dall'indubbia forza visiva ed ideologica.

Tra cantanti neomelodici che vorrebbero conoscere Belluscone, impresari mafiosi secondo cui, però, la mafia, a Brancaccio, non esiste, e genitori che preferiscono avere i figli in galera anzichè arruolati nelle forze dell'ordine, Maresco dirige il film che, insieme a La Grande bellezza e Reality, potrebbe confluire verso un'ideale trilogia sull'apocalittica distruzione societaria post berlusconiana.

5) GONE GIRL DI DAVID FINCHER 
Un saggio sulla regia da manuale del Cinema. Cupo, freddo ed asettico, Fincher focalizza la sua attenzione sull'altra faccia della medaglia dell'amore. Memorabili il personaggio femminile  mentalmente polimorfo e l'omicidio finale. 

6) INSIDE LLEWYN DAVIS DI JOEL ED ETHAN COEN 
L'odissea di un altro nolente antieroe dei fratelli Coen. La costruzione circolare, la colonna sonora folk, la fotografia fredda che mette ulteriormente in risalto le caratteristiche psicologiche dei personaggi del film contribuiscono ad innalzare il lungometraggio nell'Olimpo del regista a due teste.

Dedicato alla religione cattolica ed incentrato su un killer che viene scambiato da un taxista per un sacerdote, La confessione fa parte del progetto collettivo Words with Gods voluto da Guillermo Arriaga. Il twist ending finale è da schiantare dalle risate, nel segno gotico e barocco del regista spagnolo. 

8) NIGHTCROWLER DI DAN GILROY 
Un Jake Gyllenhall da Oscar porta in scena una storia ancora più cupa ed ambigua del solito sulla fine del sogno americano. In una società in cui vale soltanto l'homo homini lupus non c'è il minimo spazio per l'umanità.

La commedia dark dell'anno. Sotto la vernice della farsa gotica, si nasconde un film sul lato ferino e sulla crudeltà dell'essere umano. Un incipit così scoppiettante e folle non si vedeva al cinema da Las Brujas de Zugarramurdi di Alex de la Iglesia. 

10) EDEN DI MIA HANSEN-LOVE 
Un film tutto cuore sulla realtà musicale e generazionale degli anni '80-'90. Tra dimensione collettiva e spazi individuali, realismo e finzione, Mia Hansen-Love compie un viaggio nostalgico a ritroso volto a scoprire la nascita dell'epoca digitale.


FLOP TEN
La trilogia, in caduta libera dopo il secondo episodio, termina nel peggior modo possibile. La piattezza e la lentezza che si protraggono per tutto l'arco narrativo lasciano l'amaro in bocca principalmente per due motivi: Guillermo Del Toro e Peter Jackson. Chissà come sarebbe stata la Terra di Mezzo vista dagli occhi di uno dei registi più visionari degli ultimi anni. Jackson avrebbe  dovuto cedere il testimone. Sarebbe stato meglio per tutti. (Recensione di Egidio Matinata)

Incentrato sugli ultimi giorni di vita dell'intellettuale bolognese, è un'opera regressiva e accomodante, smorta e sonnacchiosa, che non riesce assolutamente a restituire il vampirismo  pasoliniano.

3) BOYHOOD DI RICHARD LINKLATER
Opera fiume costruita nel giro degli ultimi 12 anni, Boyhood appare privo dell'immediatezza e del realismo che, in realtà, sarebbero dovuti essere i suoi maggiori tratti peculiari. Tutto, a partire dalla messa in scena, sembra progettato nei minimi dettagli, senza alcuno spazio per l'improvvisazione e l'inatteso. 

Eccessivo, strabordante, ridicolo e, a tratti, involontariamente grottesco. La delineazione psicologica dei personaggi è il punto più debole del film.

Woody Allen torna ad ambientare un suo film al confine tra il mondo dell'illusionismo e della realtà. L'impressione è quella di trovarsi davanti ad un autore narciso, vittima della propria cannibalistica magniloquenza creativa, il cui ultimo lungometraggio svanisce come una bolla di sapone o ancor meglio, per restare in tema, come la conseguenza di un'illusione mal portata a termine.

6) ALABAMA MONROE DI FELIX VAN GROENINGEN
Ricattatorio fino al  midollo, Alabama Monroe è uno di quei film che sbattono la tragedia più becera in faccia allo spettatore indirizzandolo prepotentemente senza offrirgli la minima possibilità di pensare con la propria testa. 

Dietro il velo di Maya dell'impegno sociale, un vuoto di fondo. I Dardenne toppano con un film caratterizzato da un meccanismo narrativo farraginoso. Zero coinvolgimento. Ricatti ed opportunismo a go-go.

8) TRASH DI STEPHEN DALDRY
The Millionaire 2-Il ritorno. Serve altro?

Tocca alla fantascienza dimostrare la pochezza dell'immagine nel cinema verboso di Christopher Nolan. Lo spettatore viene condotto per mano in un buco nero che assorbe, al proprio interno, il film stesso. Il finale è talmente ridicolo da far venire la pelle d'oca. 

10) FRANCES HA DI NOAH BAUMBACH
Il film di un hipster per un pubblico di hipster su una serie di personaggi hipster. Soffre, più o meno, gli stessi problemi di Boyhood. 


venerdì 12 dicembre 2014

LO HOBBIT-LA BATTAGLIA DELLE CINQUE ARMATE

di Egidio Matinata
 
Un film di Peter Jackson. Con Ian McKellen, Martin Freeman, Richard Armitage, Evangeline Lilly, Luke Evans, Benedict Cumberbatch, Cate Blanchett, Ian Holm, Christopher Lee, Hugo Weaving, Orlando Bloom. Durata 144 min. Fantastico, avventura. Nuova Zelanda, Usa 2014.

Dopo aver ceduto alla malattia del drago, Thorin Scudodiquercia, sacrifica amicizia ed onore nella ricerca della leggendaria Arkengemma. Incapace di aiutare Thorin, Bilbo viene costretto a fare una scelta disperata e pericolosa. Tutto ciò mentre Sauron, il Signore Oscuro, ha mandato in avanscoperta legioni di Orchi per attaccare la Montagna Solitaria. Le razze di Nani, Elfi ed Umani devono decidere se rimanere uniti o essere distrutti. Bilbo si ritrova a combattere per la propria vita e per quella dei suoi amici, mentre cinque grandi armate scendono in guerra. 
Anche la seconda trilogia di Peter Jackson sulla tolkeniana Terra di Mezzo giunge al termine. E non poteva farlo in modo peggiore. La causa che rende questi tre film deludenti non è tanto nel confronto con Il Signore degli Anelli, quanto nel fatto che tutto il progetto tendeva a voler creare un nuovo Signore degli anelli. 
L’adattamento cinematografico de Lo Hobbit non aveva certo bisogno di essere diviso in tre film. Il romanzo racconta una storia più contenuta, più ristretta. Era un antipasto per quello che sarebbe venuto dopo. L’aggiunta, in fase di sceneggiatura, di nuovi personaggi e sottotrame non presenti nel libro, nelle intenzioni tendeva a creare un maggior senso di coralità ed epicità. Purtroppo, la sensazione che si ha guardando il film volge all’opposto. Il brodo è stato allungato troppo, ed è diventato indigesto. La resa finale è  divisa tra sequenze che dovrebbero essere eroiche e memorabili, ed altre che risultano talmente rocambolesche da sfiorare la parodia. Tutta la saga crolla sotto il peso della sua ambizione, e nel peggior modo possibile: attraverso una parabola discendente. Se Un viaggio inaspettato sembrava promettere bene, La desolazione di Smaug, invece, cominciava a mostrare già tutte le falle del progetto. L’ultimo capitolo soffre di una piattezza e di una lentezza che si protrae durante tutto l’arco narrativo. Il problema non riguarda, però, il ritmo (che resta costantemente elevato), quanto il coinvolgimento. Lo spettatore rimane distaccato di fronte a tutto ciò che succede sullo schermo, ed è una cosa abbastanza grave in un film del genere. Nonostante ci siano battaglie, morti tragiche, amori e addii, il pathos non la fa mai da padrone. Anche dal punto di vista tecnico ci si aspettava molto di più. Scene altamente spettacolari si alternano con facilità ad altre che sembrano uscire direttamente da un videogioco. Cosa che, paradossalmente, non accadeva mai nella precedente trilogia. La sperimentazione dei 48 fotogrammi al secondo, poi, non ha avuto l’impatto rivoluzionario che ci si aspettava, e sembra rimanere qualcosa fine a se stessa.
Lasciamo questa trilogia con l’amaro in bocca, principalmente per due motivi. 
Il primo è Guillermo del Toro, che figura soltanto nelle vesti di sceneggiatore e produttore, e che inizialmente avrebbe dovuto dirigere il tutto. Chissà come sarebbe stato il mondo di Tolkien, visto attraverso gli occhi di uno dei registi più visionari degli anni 2000.
Il secondo è Peter Jackson. Dispiace che lasci la Terra di Mezzo (luogo in cui si è mosso abilmente e che, in qualche modo, ha plasmato e fatto suo) in modo impalpabile. Avrebbe dovuto passare il testimone molto prima. 
Sarebbe stato meglio per tutti.

giovedì 11 dicembre 2014

JIMMY'S HALL

di Egidio Matinata 
 
1932. Dopo dieci anni di esilio negli Stati Uniti, Jimmy Gralton torna nel suo paese per aiutare la madre a occuparsi della fattoria di famiglia. L'Irlanda che ritrova non è più quella di una volta. Dieci anni dopo la fine della Guerra Civile ha un go verno tutto suo e tutto è ormai permesso. Su sollecitazione dei giovani della contea di Leitrim, Jimmy, nonostante la sua poca voglia di provocare l'ira dei suoi vecchi nemici, la Chiesa e i proprietari terrieri, decide di riaprire l'“Hall”, locale aperto a tutti dove ci si incontra per ballare, studiare o discutere. Il successo è ancora una volta immediato. Ma la crescente influenza di Jimmy e le sue idee progressiste danno fastidio a molti abitanti del villaggio.
Ken Loach, regista che si è sempre contraddistinto per la forte valenza politica che caratterizza la sua filmografia, torna alla regia con questo dramma, volgendo il suo sguardo verso ambienti e temi già esplorati. Viene subito in mente Il vento che accarezza l’erba, film che gli valse la Palma d’oro a Cannes nel 2006. Ed è un problema, perché anche facendo il paragone con quest’ultimo, ci si rende conto dei difetti del suo film, non completamente riuscito.
Risulta tale anche perché arriva dopo La parte degli angeli, che sotto il velo dell’ironia e di una maggiore “spensieratezza”, portava avanti al suo interno tutti i temi cari al regista britannico. E lo faceva, appunto, in maniera nuova, frizzante, vivace. La sensazione che si ha, invece, di fronte a quest’opera, è quella di trovarsi di fronte ad un passo falso. Soprattutto per l’approccio con cui vengono affrontate le tematiche del film, e per come quest’ultimo è stato costruito nella fase di scrittura. Proprio la sceneggiatura, da molti definita giustamente troppo schematica, contiene al suo interno gli elementi che non riescono a far funzionare il film. Prima di tutto il conflitto ideologico, superficialmente ridotto ad uno scontro tra buoni e cattivi, marcatamente divisi su entrambi i fronti; la sottotrama riguardante la storia d’amore, poi, non riesce a coinvolgere o emozionare. Cosa che riesce a fare, invece, quella Hall. Luogo in cui poter ballare, studiare arte e letteratura, fare sport. Vivere.

Jimmy’s Hall purtroppo non risulta essere incisivo come vorrebbe dal punto di vista politico, perché soffre di un’impostazione datata e poco coraggiosa. Riesce, in alcuni punti, ad arrivare al cuore dello spettatore, ma sostanzialmente non aggiunge niente di nuovo alla poetica del suo autore.

IL RICCO, IL POVERO E IL MAGGIORDOMO

di Matteo Marescalco
 
Dopo quattro anni di assenza dal grande schermo, torna al cinema uno dei sodalizi artistici più noti e amati della storia dello spettacolo italiano degli ultimi decenni. Stiamo parlando di Aldo, Giovanni e Giacomo. 
Il loro ultimo film si intitola Il ricco, il povero e il maggiordomo ed è incentrato su tre personaggi di differente estrazione sociale. Giacomo è un ricco e spregiudicato broker appassionato di golf. Giovanni interpreta il suo fido maggiordomo, con la fissa per le arti marziali e la filosofia giapponese. Aldo è un venditore abusivo che vive ancora con la madre burbera e combattiva che lo tratta come un inetto. Nel tempo libero, allena una squadra di calcio composta per lo più da bambini extracomunitari. Durante una rocambolesca fuga dai vigli urbani, Aldo viene casualmente investito in auto da Giovanni e Giacomo, che lo soccorrono frettolosamente e gli offrono un risarcimento per chiudere la questione.
Ma un'inaspettata debacle finanziaria colpisce la fortuna di Giacomo. Tutto è perduto: la villa, i risparmi che avrebbero consentito a Giovanni di sposarsi e i soldi per il risarcimento promesso ad Aldo. Un matrimonio, un funerale, un appuntamento al buio e un'irruzione di massa a suon di musica mariachi contribuiranno a gettare ulteriore scompiglio all'interno della vicenda.
Tra La banda dei babbi natale e Il ricco, il povero e il maggiordomo son trascorsi ben quattro anni, anzichè i soliti due anni di distanza con cui i comici milanesi hanno realizzato tutti i loro film a partire dal debutto di Tre uomini e una gamba. Ogni loro vicenda cinematografica è sempre stata caratterizzata dallo sviluppo di una serie di situazioni comiche che potevano comunque contare su una forte narrazione ad assicurare le fondamenta. Non a caso, i loro migliori film risultano essere Chiedimi se sono felice e Così è la vita, ovvero quei due che possono vantare un racconto più articolato e con un twist ending finale. La situazione è precipitata con Il cosmo sul comò, film composto da cinque episodi privi di collegamenti. 
Il problema de Il ricco, il povero e il maggiordomo non risiede soltanto in gag poco brillanti ed incisive ma anche nella mancanza di un vero e proprio meccanismo diegetico che viene, fin troppe volte, superato dalle situazioni comiche che, alla lunga, finiscono per minare la compattezza del tessuto narrativo. 
Ad orientare ulteriormente il film verso il disordine anarchico più totale è anche la presenza di ben quattro figure femminili che ruotano attorno al trio protagonista. Si sente l'assenza di un solo personaggio femminile che fungesse quasi da arbitro nei battibecchi e nelle trovate comiche interindividuali. Le donne di quest'ultimo lungometraggio appaiono prive di appigli, quasi senza bussola, sballottate qua e là all'interno di una vicenda abbastanza inconcludente e buonista e soprattutto, prive di personalità. Sentiamo la mancanza delle figure femminili dei primi film del trio comico. 
Insomma, dopo aver risalito la china con La banda dei babbi natale ed aver parzialmente recuperato dal flop de Il cosmo sul comò, Aldo, Giovanni e Giacomo incontrano un altro ostacolo che non fa altro che acuire il nostro sentimento di nostalgia nei confronti dei loro anni migliori, ma, ormai, inesorabilmente andati.  

mercoledì 3 dicembre 2014

IL RAGAZZO INVISIBILE

di Matteo Marescalco
 
Dopo le sperimentazioni di genere relative al ventennio 1960-1980 (Sergio Leone, Dario Argento, Mario Bava, Lucio Fulci, Ruggero Deodato) che avevano consentito l'affermazione e l'esportazione all'estero del Cinema italiano, la nostra produzione nazionale si è quasi esclusivamente dedicata al mortifero binomio dell'indisponente e criptico cinema d'autore e della volgare commedia popolare. Non c'è più stato spazio per generi quali il poliziesco, il noir, il fantasy o la fantascienza che vengono costantemente etichettati come impossibili da realizzare in Italia, sia per l'elevato sforzo economico alla base della loro produzione sia per l'ampia distribuzione di film americani situati sulla stessa lunghezza d'onda che cannibalizzano il mercato italiano.
Una felice eccezione è rappresentata da Gabriele Salvatores che, nel 1997, reduce dal Premio Oscar ricevuto nel 1991 per Mediterraneo, ha diretto il film di fantascienza Nirvana, il noir Quo Vadis Baby? e si è inoltrato nel territorio del fantasy con Il ragazzo invisibile, in uscita il 18 Dicembre in Italia.
Il lungometraggio ha per protagonista Michele, un adolescente come tanti, invisibile per la ragazza che gli piace e fin troppo visibile per i bulli che lo prendono costantemente in giro. Michele vive a Trieste con la madre vedova e conduce un'esistenza piuttosto monotona. Fino a quando, un evento inaspettato ribalta nettamente la situazione: il ragazzo si guarda allo specchio e, all'improvviso, si scopre invisibile. Come gestire questa nuova condizione?
E' possibile individuare due filoni principali all'interno della carriera di Gabriele Salvatores: quello del road movie da una parte, e del rapporto genitori-figli dall'altra. Al primo appartiene la trilogia ideale Marrakech Express, Turnè e Mediterraneo. Al secondo Io non ho paura, Come Dio comanda (entrambi tratti da un romanzo di Niccolò Ammaniti) e, in parte, Il ragazzo invisibile. Mediterraneo è la summa dei temi più cari al primo Salvatores, il desiderio (la Sehnsucht del Romanticismo) di fuga da una realtà che non si comprende o che non si vuole accettare accompagnato dallo struggimento della Heimweh, la nostalgia di casa. «In tempi come questi, la fuga è l'unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare» recita la frase di Henri Laborit che appare in sovrimpressione all'inizio del lungometraggio, ratificando l'idea secondo cui il nucleo tematico del film sia da rintracciare nell'idea romantica di viaggio.
Nella seconda parte della sua carriera, il regista napoletano adottato dall'ambiente teatrale milanese, ha concentrato la propria attenzione sul rapporto genitori-figli e sull'adolescenza quale periodo di transizione e di grandi trasformazioni sul piano identitario, rapportandosi al punto di vista dei giovani adulti. Trattasi sempre, in effetti, di un viaggio, anche se, in questo caso, metaforico e privo di dislocazione spaziale.
Il ragazzo invisibile è fenomenicamente caratterizzato dall'intrecciarsi di due linee diegetiche: da una parte lo sviluppo fantasy è il centro focale del film, dall'altra viene attenzionato il solito rapporto tra mondo degli adulti e degli adolescenti.
Uno dei pregi risiede nel fatto che Salvatores non abbia mai cercato di scimmiottare il superhero
movie americano con esplosioni e botte da orbi ma si sia focalizzato maggiormente sulle dinamiche interpersonali.
«Ho sempre pensato che l'adolescenza fosse uno dei periodi più difficili nella vita di un essere umano. Il tuo stesso corpo diventa estraneo, ti guardi allo specchio e non ti riconosci, senti che dentro di te sta nascendo un potere (un super potere?) che non sai come usare. Anche perchè ancora non hai ben capito chi sei e che posto hai nel mondo» -ha dichiarato il regista in conferenza stampa- «Sono sicuro che tutti gli adolescenti si sono sentiti almeno una volta invisibili. O avranno desiderato esserlo. E tutti, almeno una volta, avranno desiderato di avere un potere speciale che li protegga o li renda eroi almeno just for one day, come canta David Bowie».
L'aspetto più interessante del film è legato alla dinamica dello sguardo e alla pulsione scopica (che Salvatores ha analizzato anche in Nirvana). Il semiologo Christian Metz ha proposto, in relazione al contesto cinematografico, la teoria dello psicanalista Jacques Lacan secondo cui il momento in cui il bambino riconosce allo specchio l'immagine di un altro (generalmente la madre) accanto a quella che intuisce essere la propria è fondamentale per la costituzione della soggettività  individuale. Paradossalmente, ne Il ragazzo invisibile, Michele comincia a pensare a se stesso come ad un io attante dal momento in cui si scopre invisibile. Ed il meccanismo di riconoscimento-misconoscimento avviene proprio dinnanzi ad uno specchio.
Andreij, personaggio interpretato da Christo Jivkov (che riporta alla figura di Tiresia), è un uomo cieco dall'identità misteriosa che ha il potere di leggere nelle menti altrui e, quindi, di predire il futuro. D'altronde, la dinamica del sapere è strettamente connessa se non direttamente consequenziale a quella del vedere.
«Il cinema ha due anime, quella reale dei fratelli Lumiere e quella fantastica di Melies. Ne Il ragazzo invisibile abbiamo voluto attingere più alla sua componente fantasmatica. Jacques Derrida affermava che il Cinema è l'arte di evocare fantasmi. E, in effetti, il protagonista, Michele, si trasforma in un vero e proprio fantasma. In sala assistiamo tutti quanti a storie che ci riguardano, ci troviamo di fronte alle nostre utopie, ai nostri desideri anche alle nostre paure più recondite. Il paradosso della società contemporanea è legato al fatto che per essere notato si deve scomparire. Nel mondo in cui ciò che conta è apparire, l'invisibilità si carica di un senso più profondo. L'aspetto più difficile del film è stato filmare l'invisibile e rendere la dicotomia tra sguardo del pubblico e dei personaggi del film», secondo quanto affermato da Salvatores.
Il ragazzo invisibile colpisce anche per l'artigianalità degli effetti speciali e per alcune sequenze che ricordano il cinema di fantascienza di Steven Spielberg. Come non pensare ad E.T., durante le scene iniziali in cui il protagonista si muove in bicicletta? La sceneggiatura è ricca di omaggi virati verso l'immaginario cinematografico con cui siamo stati svezzati più o meno tutti: si va da I Gremlins a Il sesto senso, da Spider Man a X-Men, da Lasciami entrare a Shining, da Super 8 a  I Goonies.
Particolarmente riuscita è la descrizione e l'ambientazione dell'antefatto in una Russia fredda e solitaria, appena uscita dal disastro nucleare di Chernobyl che ha mutato il DNA di alcune persone. Si chiamano in causa anche una serie di implicazioni legate al dark side del potere.
Nonostante non sia esente da difetti che riguardano principalmente alcuni raccordi sceneggiaturali, non abbia un vero e proprio target di riferimento e manchi di carica viscerale nella rappresentazione dei sentimenti adolescenziali, il film affascina e conquista mostrando, attraverso la metafora dell'invisibilità, la transizione di un individuo da uno stato all'altro.
Gabriele Salvatores si conferma un grande autore sempre coerente con il suo percorso filmico che, in fondo, non è mutato più di tanto nel corso degli anni. La sperimentazione linguistica consentita dai generi gli ha permesso, ancora una volta, di nascondere sotto al velo del film per ragazzi un'interessante indagine su quel lungo viaggio alla scoperta di se stessi che è l'età adolescenziale.

martedì 2 dicembre 2014

MOMMY

di Macha Martini
 
Vincitore ex aequo del Premio della Giuria alla 67esima edizione del Festival di Cannes, Mommy è stato presentato in anteprima a Roma giovedì 27 novembre all’Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive (Anica). Il film sarà distribuito in Italia dalla Good Films il 4 dicembre e sarà la prima opera di Xavier Dolan ad approdare nelle sale italiane.
Il prodigioso venticinquenne regista canadese, al suo quinto lungometraggio, decide ancora una volta di non staccarsi dai temi che rappresentano, come afferma lui stesso, una parte di sé e/o del quartiere in cui è vissuto. Con Mommy ritorna a parlare dell’adolescenza, ma soprattutto delle dinamiche madre-figlio. Un tema da cui il giovane enfant prodige non può staccare la spina è proprio la madre, «ciò da cui deriviamo, è chi siamo, e chi siamo diventati (…), una parte indelebile di noi stessi».  Se nel suo primo lavoro (J’ai Tué ma Mère) il regista afferma di aver voluto «punire» sua madre, «LA madre in senso lato», in quest’ultimo cerca di vendicarla, rendendola protagonista e caratterizzandola come «un soldato inarrestabile». Diane Després, chiamata in modo ossimorico “Die”, è un personaggio sguaiato e comico, che, però, sotto all’apparenza è una combattente nata, una donna capace di ricominciare tutto daccapo, «che non accetterebbe mai un “no” come risposta». L’intento di Dolan è di creare un personaggio che si allontani il più possibile dalla «solita retorica della depressione», un personaggio realistico che risulti vincente, qualsiasi cosa possa accadergli. Un essere umano non ritratto attraverso i suoi fallimenti, che sfugge a un’identificazione basata sulle avversità e sulle etichette, ma che è definito tramite i suoi sentimenti e i suoi sogni. Mommy è un film che dunque tenta in ogni modo di staccarsi da «una prevedibile nebbia grigia e umida», obiettivo che raggiunge, soprattutto con il mancato controcampo finale, che dona speranza indipendente da qualsiasi cosa non mostrataci possa avvenire. Tuttavia, tale obiettivo non è realizzato perfettamente. Infatti, in alcune scene il regista cade brevemente nel tranello, dando talvolta un’atmosfera buonista.
Mommy innesca grandi emozioni, raggiungendo una transazione inconscia, grazie a un approccio diegetico. Il film coinvolge il pubblico nell’autenticità dei personaggi grazie alla musica. Il regista riesce a creare un contatto studiando alla perfezione l’associazione tra un brano musicale con una determinata scena e un certo tipo d’inquadratura. Come nei film di Scorsese «le canzoni non suonavano sul film, ma nel film». Ogni canzone presente proviene dal Die & Steve Mix 4ever, una playlist del defunto marito della protagonista.  Il CD è come un leitmotif e ciò è enfatizzato dalla scelta del formato d’immagine: 1:1, lo stesso «rapporto delle copertine degli album nell’industria dei CD». Questa scelta è congeniale a focalizzare l’attenzione del pubblico sulla nuda realtà dei personaggi.  Grazie a questa tecnica «il personaggio è il nostro soggetto principale, inevitabilmente al centro della nostra attenzione. I nostri occhi non possono perderlo, o perderla». Il carattere dei personaggi è enfatizzato dagli stacchi delle inquadrature e dal passaggio narrativo da una scena a un’altra. La loro turbolenza, data da alcuni stacchi bruschi, evidenzia la precarietà, simbolo di una crisi esistenziale, di uno stato di pace, con il quale si apre il film. Le prime inquadrature che vediamo, infatti, sono molto poetiche e riprendono in cinemascope “Die” in un giardino vicino a un melo, ma sono spezzate da un brusco incidente della protagonista che annuncia l’espulsione del figlio da un centro specializzato per ragazzi con problemi comportamentali.
Se dal punto di vista meramente tecnico, Xavier Dolan e André Turpin (Direttore della Fotografia) conquistano il gusto estetico del pubblico, grazie anche alla fotografia calda e patinata, purtroppo lo lasciano interdetto a causa di buchi della sceneggiatura, che fanno sembrare il tema poco approfondito. In conclusione, Mommy è un film che, nonostante il grande potenziale, si ferma a pochi passi dal traguardo, non soddisfacendo a pieno lo spettatore.