di Matteo Marescalco
Dopo La vedova Winchester, questo 2018 vede arrivare al cinema un altro racconto di fantasmi. L'ectoplasmatico popola le tre Ghost Stories che danno il titolo al film di Jeremy Dyson ed Andy Nyman, già autori dell'omonima pièce teatrale di genere horror che, a Londra, ha tenuto banco per più di due anni.
«Il cervello vede solo ciò che vuole vedere». Si tratta della battuta pronunciata da uno dei personaggi del film che meglio riesce a racchiudere lo spirito del lungometraggio horror. Il Professor Philip Goodman è un investigatore televisivo del soprannaturale e ritiene che ogni falsità possa essere smascherata senza troppi problemi. Sarà lui il collante che tiene unito le tre ghost stories. Il mito di gioventù di Goodman è un altro uomo di televisione, il divulgatore Charles Cameron, che faceva il suo stesso mestiere ma che è scomparso da anni. Quando, improvvisamente, Charles contatta il Professore, Goodman è sorpreso nel trovare un uomo che ha ripensato tutte le sue certezze e che, addirittura, crede che il soprannaturale possa realmente esistere. Per dimostrargli questa sua nuova convinzione, gli presenta tre casi privi di soluzione: quello di Tony Matthews, custode di una struttura correttiva abbandonata che viene aggredito dal fantasma di una bambina; il caso di Simon Rifkind, ossessionato da visioni sataniche da quando si è inoltrato nel bosco con l'auto rubata ai genitori; ed, infine, la vicenda di Mike Priddle, finanziere rampante alle prese con un poltergeist che rovina l'ordine totale della cameretta della figlia deceduta alla nascita. I tre racconti, apparentemente a sé stanti, hanno, in realtà, il loro termine comune proprio nel Professor Goodman, totalmente ignaro delle conseguenze che lo sviluppo dei tre casi gli procurerà.
Prendendo in considerazione due dei ghost-movies che nei primi anni 2000 alzavano gli standard del genere, Il sesto senso e The others, ed il recente caso de La signora Winchester, Ghost Stories si colloca a metà strada. Supera nettamente il film di Fratelli Spierig perché non ha bisogno di costruire il racconto soltanto sui jump-scares ma è in grado di articolare una riuscita dialettica tra visibile e non visibile, campo e limiti dell'inquadratura che incatena lo spettatore all'interno del congegno costruito senza dargli scampo. I tratti immateriali e fantasmatici, le entità inquietanti, i riflessi che spariscono in battito di ciglia, i giochi di luce, le ombre e le illusioni sono al servizio di tre racconti apparentemente slegati tra loro ma che raggiungono la totale comprensione soltanto nel finale.
Tuttavia, il percorso dei propri peccati e la fuoriuscita dalla prigione delle proprie colpe avviene facendo leva sulla rottura del patto spettatore-autore che caratterizza ogni narrazione. Mentre il twist-ending de Il sesto senso è costruito su un meccanismo percettivo che ci mostra la verità fin dai primi minuti e che, comunque, attraverso varie scelte di decoupage e di messa in scena, ci fornisce la possibilità di individuare il reale e il fittizio, Ghost Stories ci spaccia per reale ciò che, in corrispondenza del finale, viene puntualmente distrutto, con la mera scusa che si tratti di un colpo di scena particolarmente ben congeniato. Fornire prove false non è il massimo della moralità per un film che vorrebbe raccontare sensi di colpa.
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