Powered By Blogger

domenica 29 aprile 2018

A BEAUTIFUL DAY

di Matteo Marescalco

C'è una scena particolarmente commovente in questo A beautiful day che ricorda da vicino una sequenza presente in I'm still here, mockumentary diretto da Casey Affleck pochi anni fa che ha segnato una svolta nella carriera di Joaquin Phoenix. Il filmino familiare dell'immersione in un laghetto del giovanissimo Joaquin sembra tornare come oscuro presagio in questa opera quarta di Lynne Ramsay che utilizza il corpo iconico dell'attore americano in modo molto simile a come aveva fatto Casey Affleck.

I fantasmi di un turbolento passato familiare innervano il racconto di A beautiful day: Joe è un ex marine ed ex agente dell'FBI la cui vita è stata segnata da burrascosi rapporti con i genitori e da brutali scene del crimine. Vive da solo a casa con la madre anziana e malata e percorre gli anfratti più cupi di una New York notturna e alienante come lo è stata poche altre volte al cinema. Come in Two Lovers, anche A beautiful day crea una piena coincidenza tra carattere del protagonista e gorghi oscuri dell'ambiente circostante. In questa società così individualista e priva di amore, Joe si incarica del ruolo di salvare giovani donne coinvolte nel racket della prostituzione. L'ultimo caso con cui ha a che fare è il rapimento della figlia di un senatore che lo porterà a contatto con un giro di pedofilia e corruzione che coinvolge le sfere alte della società. Quest'esperienza cambierà per sempre la sua vita.

Attraverso un perenne lavoro di frammentazione narrativa ed astrazione estetica, la macchina da presa di Lynne Ramsay tallona i movimenti di Joaquin Phoenix, il cui corpo, ancora una volta, domina completamente la scena. I panni del vendicatore imbolsito e dal passato oscuro offrono a Phoenix la possibilità di sfruttare al meglio la sua fisicità ed il suo sguardo magnetico che carica l'inquadratura di sensazioni contrastanti. Joe è, prima di ogni altra cosa, un fantasma brutale che uccide senza particolari rimorsi. Ma è anche un uomo capace di squarci di tenerezza non privi di lirismo. Il tessuto filmico si incarica di restituire tale eterogeneità attraverso la detonazione di improvvisi attimi di violenza accompagnati da scene che ne ribaltano gli stilemi estetici e le modalità comportamentali del suo protagonista. La narrazione segue il punto di vista del protagonista e priva lo spettatore di alcuni spunti che caratterizzerebbero un racconto più classico: ne consegue una carenza di informazioni sulle particolari situazioni in cui, di volta in volta, si trova Joe.

Un cinema del genere, manipolato a proprio piacimento e trattato come un corpus ferito e frammentato, dovrebbe funzionare come un'esperienza sensoriale particolarmente intensa per lo spettatore. Tuttavia, una distanza inammissibile dagli eventi narrati finisce per inficiare il risultato finale. Il sangue che scorre, i salti nei raccordi di montaggio e l'estetizzazione della violenza restano fini a sé stessi e non sono usati come strumenti necessari all'elaborazione di un linguaggio filmico alternativo che possa comunque creare empatia. La forza visuale della regista diventa il suo limite maggiore. Un cinema così contorto e chiuso nel proprio meccanismo “d'avanguardia” rischia di morire affogato nel laghetto delle proprie sperimentazioni e di privare il pubblico dell'ossigeno necessario nonostante la dolorosa umanità di un attore che, questa volta, non riesce a liberarsi del giogo a cui è condannato.

Nessun commento:

Posta un commento