Un appassionato di
cinema che non può andare al festival di Venezia è paragonabile a un’adolescente
che non va al ballo di fine anno, ad un giocatore che viene squalificato in
semifinale di Champions League quando la sua squadra ha già archiviato il
passaggio del turno, ad un ciclista che a pochi metri dal traguardo alza in
alto le braccia per esultare e stramazza al suolo goffamente. In poche parole,
è uno sfigato. E cosa sono gli sfigati se non delle comparse che assistono al
grande flusso degli eventi di cui altri sono protagonisti?
Ecco, quest’anno
mi sono trovato dalla loro parte. Non potendo essere al Lido in questo afoso
inizio Settembre, ho seguito comunque con grande interesse le vicende che hanno
animato la 73esima edizione della Mostra; e non è stata affatto una brutta
esperienza. Osservare le cose da un altro punto di vista, senza essere buttato
nella mischia, può garantire una visione d’insieme che agli altri, magari, non
… Ma chi voglio prendere in giro!? La verità è che è stato orribile. Dieci
giorni di agonia e sofferenza. La cosa peggiore è stata il non poter rivivere
la sensazione di essere in un altro mondo, un mondo che ha poco a che fare con
la vita reale e che ha nel Cinema il suo minimo comune denominatore. Un’oasi in
cui ti senti circondato da persone spinte dalla tua stessa passione, in cui
puoi organizzare la giornata in base ai film da vedere, lasciando in secondo
piano cose fondamentali come il cibo e il sonno, uscire dalla proiezione di un
film inveendo contro gli antenati del regista che l’ha realizzato, oppure
dirigerti con le gambe ancora tremanti verso l’uscita della sala dopo aver
visto il capolavoro del festival, riuscendo solo a pensare
«ma che diavolo ho
visto!?».
L’unica cosa che mi è rimasta da fare è stata odiare, ma giusto un
po’, gli amici accreditati (con i quali ho continuato, in maniera più che masochista, a condividere il gruppo WhatsApp Venezia73, mossa che ha sancito definitivamente il mio status di loser). Ora, unendo tutto ciò al fatto che
l’edizione sembrava essere la più promettente degli ultimi anni, potete ben
capire il mio stato d’animo. Indipendentemente dal valore effettivo dei film
approdati in laguna, le scelte dei selezionatori hanno tentato di rendere la
mostra quanto più omogenea possibile, senza seguire una linea ben precisa; il
risultato è stato l’incontro-scontro tra le più varie tipologie di cinema: dai
‘vecchi’ (Wenders, Kusturica, Malick, Naderi, Gibson) alle ‘vie di mezzo’
(Villeneuve, Ozon, Sorrentino, Dominik, Fuqua, Ford), fino ai ‘giovani’
(Amirpour, Larraìn, Chazelle, Cianfrance).
Il cinema italiano
sembra l’unico a uscirne davvero con le ossa rotte da questo festival, ma non è
il caso di iniziare con allarmismi, proteste, luoghi comuni e quant’altro; in
questo caso credo che sia una pura questione di tempistiche (molti autori hanno
già presentato i loro film da un pezzo, altri sono al lavoro sui prossimi).
Considerando che la scorsa annata ha regalato ottimi film che sembrano aver
smosso le acque della nostra cinematografia, l’Italia può al massimo essere
rimandata, ma non bocciata. La giuria, capeggiata dal buon Sam Mendes, ha
incoronato nella giornata di chiusura The woman who left di Lav Diaz, il
temutissimo film filippino di quattro ore, scelta che ha scatenato pareri
molto contrastanti.
E qui c’è un altro
fattore che fa arrabbiare gli sfigati che non partecipano al festival: non
poter essere parte attiva del dibattito, prima di tutto non potendo vedere il
film, sentire davvero l’aria che si respira, confrontarsi con chi il film l’ha
davvero amato o odiato, frainteso o snobbato; in secondo luogo perché l’unica
soluzione sarebbe discuterne sui social network, che però, spesso, diventano
una copia sbiadita di un vero dibattito, una lente deformante che fa sembrare
ogni discussione un vociare confuso e sguaiato. Non sempre, ma molto
frequentemente. Ed è proprio il dialogo, il dibattito, ad essere uno dei punti
positivi di questa edizione. Da un lato ci sono coloro che si sono schierati
dalla parte di Diaz (cinema impegnato e impegnativo, cinema da festival, di
nicchia), dall’altro chi avrebbe preferito un vincitore diverso, un’opera in
grado di fare da ponte e allargare, metaforicamente, la dimensione della
manifestazione, porgendo la mano ad un pubblico più ampio. Partendo dal
presupposto che sono due punti di vista ugualmente validi, forse è proprio la
discussione in sé ad essere un buon segno, anzi, una vittoria. In un’epoca in
cui si parla tanto della morte del cinema e dell’avanzare di nuovi linguaggi
audiovisivi, dibattiti come questo ci ricordano che il cinema è vivo e vegeto,
ha tanti volti e tante forme. Credo che questo sia il lascito più importante di
questa edizione: l’attestazione di un cinema che sa ancora dividere e far
parlare di sé, e che fin quando lo farà non potrà mai morire. Quindi viva
Arrival, Lav Diaz e Ford, viva Malick, La La Land e The Bad Batch, viva Ozon,
The Young Pope e Kusturica, viva Naderi, Wenders e Larraìn.
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