di Matteo Marescalco
Per provare a pubblicare un pezzo di analisi differente dalle solite recensioni, ho chiamato a raccolta quattro dei miei sette coinquilini veneziani chiedendo loro di scegliere due dei film più amati e due dei più odiati visionati
all'ultima Mostra del Cinema e di parlarne brevemente. Oltre ad aver condiviso con loro bat-caverne negli anfratti della cucina, bagni dalla (in)dubbia pulizia, attacchi in massa di zanzare, cavallette, locuste e chi più ne ha più ne metta, spritz gentilmente offerti dal bar del Movie Village, proiezioni-sonnifero, appostamenti e Pabli Larrain ubriachi, mi trovo a riflettere sui film che hanno maggiormente suscitato le nostre emozioni, in positivo e in negativo. Di seguito, i
film più amati dagli hateful five che partecipano alla conversazione.
Per i film più odiati, cliccate qui.
Jackie di Pablo Larrain
Più che un biopic convenzionale, con la sua struttura frammentaria, Jackie è l'analisi dell'elaborazione del lutto. Nel racconto dei tre giorni che passano dall'omicidio del presidente John Kennedy nel 1963 al suo funerale, il volto di Natalie Portman, scavato e triste, ma al tempo stesso magnetico e dignitoso, sempre inquadrato attraverso lancinanti primi piani, è la bussola che ci guida tra il dolore privato di una donna e quello pubblico di una nazione ferita. Il regista Pablo Larrain, che ha una sensibilità sua diversissima da quella dei colleghi americani, concepisce un film tutto interiore interamente su un volto esteriore, accogliendoci in un dolore che non si può superare. Semmai imparare a conviverci.
El ciudadano ilustre di Gaston Duprat e Mariano Cohn
Se non ci fosse stato il sogno incarnato da Maradona e il terrore rappresentato dalla dittatura, la storia ed il sentimento popolare dell'Argentina si potrebbe racchiudere nel percorso che va dall'umiliazione per il mancato Premio Nobel a Jorge Luis Borges fino alla gioia per l'elezione a Papa di Jorge Bergoglio. E, non a caso, questi personaggi sono citati tutti in El ciudadano ilustre, uno spaccato ironico ed arguto di commedia umana sulle figure che la popolano. Ironico e corrosivo, esilarante ma anche molto malinconico, il film racconta il conflitto universale che noi tutti attraversiamo: cosa vale la pena realizzare nella vita e come affrontare le conseguenze delle proprie scelte? Far ridere svelando con intelligenze l'ipocrisia e l'insoddisfazione umana è forse il più grande risultato che un film possa raggiungere.
MATTEO MARESCALCO (
Cinemonitor, Cinema4Stelle,
Il Giornale di LettereFilosofia e
Diario di un cinefilo)
The bad batch di Ana Lily Amirpour
L'idea che
The bad batch possa essere un sequel non ufficiale di
The Truman Show di Peter Weir è assai allettante. La presenza di Jim Carrey a fare da traghettatore conferma questa mia ipotesi. Nel film del 1998, Truman Burbank riusciva ad evadere dalla realtà fittizia costruitagli intorno da Christof. Nel lungometraggio lisergico della Amirpour, Carrey interpreta un barbone che vaga per un deserto al di fuori della civiltà, il "lotto difettoso, tra una comunità di cannibali e Comfort, villaggio guidato dal Grande Sogno, santone new age che dispensa perle di saggezza e violenta le proprie donne. La realtà non è mai stata così dura e meno soddisfacente della sua creazione spettacolare. Sfilacciato e sbilanciato ma potente, come i corpi muscolosi degli attori che vi fanno parte. Decisamente, il colpo di fulmine dell'ultima Mostra del Cinema.
La La Land di Damien Chazelle
Dopo
Gravity,
Birdman ed
Everest, la Mostra del Cinema di Venezia riesce a trovare un'altra apertura con il botto grazie allo shakeratissimo
La La Land del giovane Chazelle. Il film è una gioia per gli occhi e le orecchie, porta via con sé un pezzo di cuore, affascina e cattura. Inizia con un ritmo frastornante tra coreografie autostradali e, man mano, riesce a placare il suo baricentro su un amore impossibile che vive della propria affermazione artistica, che cresce e diminuisce, si rinforza e si indebolisce. Fino all'onirico finale,
sliding doors che demoliscono, con la leggerezza di un'utopia, tutto ciò che è accaduto, lasciando spazio ad un ultimo sprazzo di sogno nella
city of stars. Il dispositivo cinematografico non è mai stato così attraente e amaro.
The Young Pope di Paolo Sorrentino
Tutti a pensare che la serie di Sorrentino sarebbe stata tutt’al più un remake con più soldi de Il giovane Ratzinger, e invece dai primi due episodi che sono stati presentati in anteprima ne è emerso un lavoro ottimale, divertente e d’intrigo. Una House of Cards vaticana diretta da un italiano con tre punte di diamante: Jude Law, Diane Keaton e Silvio Orlando (nessuno mai si sarebbe aspettato di vederli nella stessa inquadratura). Il Sorrentino onirico si condensa nei primi cinque minuti del primo episodio, per poi lasciare spazio al suo sguardo cinico e disincantato, lavorando su una storia ben scritta e dalle grandi potenzialità che porta alla luce, anzi, all’ombra, un papa italo americano che fuma, non vuol essere fotografato e che al suo primo discorso affacciandosi in Piazza San Pietro lascia intravedere solo la sua oscura silhouette, inveendo pesantemente contro i fedeli che non riescono a vederlo. Un personaggio destinato a far parlare di sé. Plauso a Sorrentino.
Brimstone di Martin Koolhoven
La critica è stata concorde nello stroncare il western al femminile con Dakota Fanning e Guy Pearce, nonostante sia notevole e sicuramente più meritevole di altri orrori piazzati in Concorso. Il film ricalca molto il modello tarantiniano: è un western, è diviso in capitoli, è violento e pulp e, nella sezione finale, la carrozza che avanza nella neve è un richiamo evidente a
The Hateful Eight.
Brimstone è diviso in quattro capitoli, anche se l’ordine cronologico non viene rispettato: le sezioni centrali sono quindi dei grossi flashback che portano avanti la trama con molta attenzione. Pecche condivisibili con chi il film l’ha stroncato: la durata (avrebbe giovato se lo script fosse stato asciugato di una ventina di pagine, soprattutto nella parte finale) e l’immortalità e inossidabilità del villain che finisce per avere una punizione finale ingiusta e poco violenta: con tutto quello che i personaggi del film hanno patito, il pan per focaccia sarebbe stato cosa buona e giusta. Ciononostante, è un sì.
MARA SIVIERO (
Sensi di cinema e
Diario di un cinefilo)
Arrival di Denis Villeneuve
Uno dei film che sicuramente mi ha maggiormente soddisfatto è stato
Arrival. Considerarlo come il solito film sugli alieni sarebbe un terribile errore. Villeneuve analizza il rapporto che si può creare tra due identità diverse attraverso un livello di comunicazione adeguato ad entrambe le parti. Alieni buoni o cattivi? La solita domanda, si direbbe. La bravura del regista consiste nel tenere catalizzata l'attenzione sulle fasi precedenti alla risposta. La protagonista che vive l'intrecciarsi di diverse dimensioni temporali è un mezzo al servizio dello spettatore che viene guidato alla comprensione e alla conoscenza tramite un processo lento e graduale. Villeneuve mostra quanto comunicare con il diverso sia sempre possibile e quanto ciò possa assurgere a simbolo sulla comunicazione tra noi stessi e i nostri simili.
La La Land di Damien Chazelle
Annunciato come musical-omaggio ai tempi d'oro che furono del suddetto genere, ci si domandava se, in effetti, Damien Chazelle sarebbe stato in grado o meno di mettere in piedi uno spettacolo dalla storia intrigante e nel frattempo di omaggiare il passato senza perdere pezzi per strada.
La La Land racconta la nostalgia verso qualcosa o qualcuno che si sta perdendo insieme alla tensione per qualcosa che, invece, si sta edificando. Il cammino di una ragazza che tenta di diventare attrice e quello di un ragazzo che cerca di salvaguardare un genere come il jazz si incrociano in una strada fatta di canzoni e di danze, segni di un passato trattato con le pinze dell'innovazione e della modernità. Il passato è solo un'entità di tempo da cui bisognerebbe trarre al nostro servizio gli insegnamenti necessari ed adattarli al presente ed al futuro.
ELISA TORSIELLO (
Above the line,
Cinema4Stelle e
Radioeco)
One more time with feeling di Andrew Dominik
La macchina da presa danza malinconica sulle note di Nick Cave, in uno dei momenti peggiori, ma artisticamente più elevati, nella vita dell'artista. La rielaborazione del lutto attraverso la composizione musicale ha dato vita ad un'opera sublime e commovente, che avvolge lo spettatore e lo fa danzare insieme alla cinepresa.
La La Land di Damien Chazelle
Chazelle prende il genere
musical e lo fa suo, aggiungendo, ai colori sognanti di
Un americano a Parigi e alla rincorsa ai propri sogni di
E' nata una stella, una capacità registica matura e solida e una storia mai mielosa ma realistica. Il risultato che ne deriva è un film che va ben oltre il genere
musical, che ne travalica i confini per elevarsi a mero specchio della realtà o, se vogliamo, a frammento di vita vissuta.