di Egidio Matinata
Un film di Valerie Donzelli. Con Anais Demoustier, Jeremie Elkaim. Scritto da Donzelli, Elkaim e Guault. Genere: drammatico, fantastico. Francia 2016. Durata: 103 minuti.
Julien e Marguerite de Ravalet, figli del Signore di Tourlaville, si amano teneramente fin da bambini. Diventati adulti, il loro affetto si trasforma in irrefrenabile passione.
Scandalizzata dal loro legame, la comunità di Tourlaville inizia a dare la caccia ai due fratelli che, incapaci di resistere ai loro sentimenti, decidono di fuggire.
Se c’è una cosa davvero imperdonabile nel cinema, ma anche nella letteratura e nella musica, è la noia. Soprattutto se poi la si intende come un qualcosa di elevato, come un elemento che denota una certa superiorità che può essere intercettata da pochi; ed è giusto puntualizzare che la noia non ha minimamente a che fare con la lentezza. Ogni film, infatti, ha un ritmo interno che va rispettato.
Barry Lyndon non può essere girato e montato come Mad Max: Fury Road (e viceversa) e la ragione naturalmente non sta né dall’una né dall’altra parte. Entrambi i film sono realizzati esattamente nel modo in cui andavano fatti.
Purtroppo non è solo la noia il problema del film di Valerie Donzelli, regista francese arrivata al suo quarto lungometraggio. Il primo elemento che si percepisce è la distanza abissale che separa il pubblico dai protagonisti; neanche per un momento si riesce a identificarsi con i due protagonisti, ispirati a due persone realmente esistite (la sceneggiatura di Jean Gruault era passata tra le mani di François Truffaut che però non la traspose mai).
Anche la cornice della storia, in cui, in un orfanotrofio, delle ragazze si raccontano di notte la vicenda di questi due amanti leggendari, risulta essere una linea narrativa incompiuta e, in fin dei conti, un espediente narrativo inutile.
Eppure, il film presentava dei notevoli spunti di grande interesse, primo tra tutti il tema della distruzione di un’intera famiglia in un mondo totalmente inventato nel quale confluiscono elementi dell’Ottocento e della contemporaneità (e infatti, come ha dichiarato la regista, la sua intenzione era di girare un film in costume; una storia ambientata nel passato, ma che ho immaginato come un film di fantascienza).
L’intenzione era di creare un film di una certa larghezza, con una dimensione di fantasia, di inventare
un mondo, partendo però da elementi reali: il castello, la famiglia Ravalet e i fatti storici.
Peccato che nulla di tutto ciò trovi una sua compiutezza realizzativa. Tutto rimane fermo ai blocchi di partenza, nessuno di questi elementi viene sviluppato davvero; ed è un peccato perché Donzelli dimostra in più occasioni di avere uno sguardo originale e consapevole, di saper creare delle scene molto suggestive, soprattutto negli esterni, quando la macchina da presa sembra essere libera da qualunque vincolo, non come nelle terribili, statiche, infinite scene negli interni.
Marguerite et Julien è un film per niente riuscito, goffo e senz’anima, che non riesce a scalfire minimamente le emozioni dello spettatore.
Sono davvero poche le cose da salvare, tra cui i due minuti finali in cui dei versi di Walt Whitman accompagnano delle bellissime immagini. Quella è l’unica sequenza davvero azzeccata del film.
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