Dopo
la spettacolare odissea di Gravity, ultimo episodio della trilogia del viaggio di Alfonso Cuaron, culminante nella descrizione del
cammino dell'evoluzione umana, e i due piani sequenza su vizi e virtù
della Hollywood contemporanea di Birdman di Alejandro Gonzalez
Inarritu, è toccato ad Everest di Baltasar Kormakur aprire la
72esima edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica
di Venezia (al link potete trovare i cinevoti dei film visti).
Tratto
dal saggio Aria sottile di Jon Krakauer, già autore di Nelle terre
estreme, che ha dato i natali ad Into the wild di Sean Penn, Everest
vede nel grande cast un suo punto di forza. Jake Gyllenhall, Josh
Brolin, John Hawkes, Jason Clarke, Robin Wright ed Emily Watson sono
i protagonisti di questo dramma, ambientato sulla vetta più alta
della Terra con i suoi 8848 metri di altitudine, che ripercorre la
scalata del 10 Maggio 1996 gestita da Rob Hall e dalla sua società,
l'Adventure Consultants.
Anche
solo dando una semplice occhiata alla locandina del film, sorge
spontaneo pensare al topos della montagna, tanto caro all'ambiente
romantico, che ha costruito sulla sua ascensione, sull'altitudine,
sull'andamento verticale e sulla sfida con le intemperie della
natura, gran parte della sua poetica. Impossibile, anche, non volgere
la mente alle imprese di Werner Herzog sulla natura estrema tra cui
Grido di pietra e The Dark Glow of the Mountains. L'autore tedesco è
stato spesso affascinato dalla natura maestosa dotata di grande
bellezza ma anche di un'immane potenza in grado di distruggere l'uomo
in tempi assai rapidi e che sfugge ad ogni regola. A tal proposito,
Herzog ha detto:
«Io credo che il denominatore comune dell'universo
non sia l'armonia, ma caos, conflitto e morte. Per me, un autentico
paesaggio non è solo la rappresentazione di un deserto o di una
foresta. Mostra uno stato interiore della mente, letteralmente
paesaggi interiori, ed è l'animo umano ad essere presente nei
paesaggi dei miei film
».
Come
in Gravity lo spazio esterno rappresentava l'oggettivazione del vuoto
interiore della protagonista, donna dalle fattezze androgine
impegnata in un percorso di redenzione e di rinascita individuale, e
in Birdman il dedalo dei camerini e del dietro le quinte teatrali si
configurava come uno spazio mentale popolato dai fantasmi della mente
di Riggan Thompson, così anche lo spazio del monte Everest diventa
proiezione degli spettri che offuscano le vite dei quattro scalatori
protagonisti. La sfida lanciata dalla vetta e rimarcata dalla domanda
di Jon Krakauer:
«Perchè siete qui? Per quale ragione vi siete
lanciati in questa impresa?» non fa altro che rimarcare l'esistenza
di un vuoto da colmare con l'ansia di dominio nei confronti della
Natura.
Natura
che accoglie e abbraccia. Ma che sa essere ostile, trasformando il
suo abbraccio da benevolo a mortifero.
La
prima parte del lungometraggio è dedicata al racconto intimista
della vita dei protagonisti in preparazione per affrontare la
spedizione. Colpisce la descrizione così umana di persone che
desiderano coronare il loro sogno per diversi motivi: chi per evadere
dalla grigia quotidianità, chi per regalare esperienze fuori dal
comune a persone ordinarie, chi per superare i propri confini e
sfidare l'ignoto, chi, ancora, per una promessa fatta ad alcuni
bambini d'asilo.
La
seconda parte, probabilmente, spinge eccessivamente sul pedale dei
sentimenti facili e sembra voler gettare lo spettatore in apnea
spiattellandogli in viso, nel modo più becero possibile, la tragedia
dei protagonisti. E così, tra buchi di sceneggiatura e telefonate al
cardiopalma, si perde tutta la “religiosità” iniziale dello
scontro con la vetta divina, in una ricattatoria discesa verso il
campo base che connota come terrena l'impresa del gruppo di
scalatori.
C'è, tuttavia, da prendere atto del carattere fortemente umanistico della vicenda. Nell'epoca dei blockbuster dove regna un tripudio di effetti speciali, film quali Avatar, Gravity, Everest e persino Avengers: Age of Ultron, non perdono di mira l'assoluto protagonista di ogni miracolo (e di ogni pixel) digitale: l'Uomo. Segno di un cinema (quello hollywoodiano) che, nel bel mezzo del cambiamento del proprio statuto, continua ancora ad affidarsi all'artefice concreto che gli ha dato i natali.
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