Un film di Jennifer Kent. Con Essie Davis, Noah Wieseman, Barbara West, Daniel Henshall. Horror. Australia 2014. Durata: 89 minuti.
Scriveva François Truffaut nell’introduzione al libro-intervista Il cinema secondo Hitchcock:
«Credo che sia necessario classificare Hitchcock nella categoria degli artisti inquieti come Kafka, Dostoevskij, Poe. Questi artisti dell’angoscia non possono evidentemente aiutarci a vivere, perché vivere per loro è già difficile, ma la loro missione è di dividere con noi le loro ossessioni. Con questo, anche ed eventualmente senza volerlo, ci aiutano a conoscerci meglio, il che costituisce un obiettivo fondamentale di ogni opera d’arte».
Questo concetto può essere esteso al genere horror. Spesso e volentieri sottovalutato e relegato ai margini sia dalla critica che dal pubblico come “minore”, ancora oggi viene difficilmente considerato come cinema d’autore o comunque “elevato”.
L’horror affonda le sue radici nelle origini della settima arte: i primi esempi si trovano nei film di Méliès e nel cinema espressionista tedesco. Successivamente molti grandi cineasti si sono cimentati in questo genere utilizzandolo e plasmandolo a seconda delle tematiche o di determinate influenze. L’horror, ponendo l’uomo di fronte all’impossibile, lo fa confrontare con le proprie paure e le proprie ossessioni e lo rende più consapevole di se stesso e del mondo.
Niente a che vedere con la sciatteria contemporanea che troppo spesso affligge questa categoria. Molti dei sottogeneri che hanno preso piede a partire da The Blair Witch Project prima, e Paranormal Activity poi, hanno aperto la strada a decine e decine di emulatori che si preoccupano esclusivamente di spaventare lo spettatore, dimenticandosi totalmente di costruire un senso, una narrazione o semplicemente di rispettare determinate regole del linguaggio cinematografico. Per fortuna c’è ancora chi crede che si possa fare grande cinema attraverso l’orrore.
L’evocazione di James Wan e Oculus di Mike Flanagan sono due importanti film recenti che, in modi diversi, hanno portato una boccata d’aria fresca al genere: il primo grazie ad una regia efficacissima e ad una rielaborazione intelligente di temi e situazioni classiche; il secondo con un uso inconsueto dei tempi narrativi e di un montaggio innovativo e funzionale alla storia.
The Babadook, della regista australiana Jennifer Kent, è un esempio di come si possa fare un film nuovo utilizzando un personaggio cardine dell’immaginario collettivo: l’uomo nero.
Sei anni dopo la violenta morte del marito, Amelia deve fare i conti con gli incubi di Samuel, l’iperattivo (e spesso ingestibile) figlio di sei anni. I sogni del bambino sono tormentati dalla presenza di un mostro che ha intenzione di uccidere lui e sua madre. Quando un inquietante libro di fiabe chiamato Mister Babadook viene ritrovato in casa, Samuel si convince che sia proprio il babadook la creatura che non lo lascia in pace. A poco a poco anche Amelia comincia a percepire un'inquietante presenza intorno a sé, realizzando che ciò di cui Samuel la avvertiva potrebbe essere reale.
The Babadook è un film riuscitissimo che già dalla prima sequenza porta lo spettatore a immedesimarsi nella protagonista (l’attrice Essie Davis in stato di grazia) e i suoi problemi, angosce e paure, con la quale condividerà tutta l’evoluzione della vicenda. La regia è sapiente nel gestire tutti i momenti di tensione e, nella parte iniziale, nel giocare sul non visto.
Anche la messa in scena e la fotografia puntano su colori cupi che favoriscono la creazione di un’atmosfera fredda, inospitale e terrificante, ma allo stesso tempo tangibile, non distaccata dalla realtà.
Jennifer Kent dimostra di conoscere ed amare il genere anche nelle sequenze in cui cita determinati film, mai in un gioco fine a se stesso. Dai film di Méliès a Rosemary’s Baby, da Shining a I tre volti della paura di Mario Bava.
Molto spesso tanti difetti delle pellicole horror si possono trovare in una gestione sbrigativa e banale della parte finale. Purtroppo in molti non hanno apprezzato l’epilogo di The Babadook, quando invece è probabilmente la parte più significativa del film, innovativa sul versante narrativo e potente nel suo valore morale. Ciò che lo rende un’opera fondamentale del genere: un film sull’accettazione della perdita e sul coraggio di affrontare il dolore e il Male.
Concordo. In genere amo proprio gli horror che cercano di raccontare qualcosa. Lo spaventare o inquietare deve essere non il fine ma lo strumento . Questo è molto bello. Il finale è perfetto come morale e contenuto, ma è veloce. Non sbrigativo, ma pofeva essere più lungo. :-)
RispondiEliminaGrazie per la tua opinione, Sam!
RispondiEliminaSplendido, uno dei migliori film dello scorso anno secondo me
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