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martedì 22 maggio 2018

MEKTOUB, MY LOVE: CANTO UNO

di Matteo Marescalco

La prima sequenza del nuovo film di Abdellatif Kechiche, che reca il destino nel proprio titolo, funge da manifesto programmatico del cinema del regista tunisino e dei successivi 170 minuti circa. Amin è un aspirante sceneggiatore, nonché appassionato di fotografia, che vive a Parigi e torna per l'estate nella sua città natale, una piccola comunità nel sud della Francia. L'occasione è perfetta per incontrare parenti, amici e amori mai sopiti. Amin trascorre la maggior parte del suo tempo con Ophelie, la migliore amica per cui prova un segreto amore, e Tony, il cugino che piace tanto alle donne. Il ristorante di specialità tunisine, il bar del quartiere, la discoteca e l'assolata spiaggia sono i luoghi più frequentati da ragazzi e ragazze in estate. Amin è totalmente incantato dalle numerose figure femminili che lo circondano e lo avvinghiano, sirene estive che stordiscono i sensi e gettano nell'euforia i corpi maschili. Tuttavia, il ragazzo sembra essere privo della forza di seduzione che caratterizza suo cugino Tony.

Si diceva della prima sequenza: Amin arriva a casa di Ophelie e trova l'amica impegnata in atti sessuali (restituiti dal regista in modo molto naturalistico) con Tony. Il ragazzo non va via ma, dalla finestra, osserva lo spettacolo con interesse e curiosità. E si tratta di ciò che farà per l'intero corso del lungometraggio. Tutti si sfiorano e si toccano, i corpi sudano ed emanano feromoni ma Amin si manterrà sempre ai margini della pista, punto di vista privilegiato sulle vicende e sul fluire della vita su schermo. I pedinamenti della macchina da presa provano a replicare il tempo della vita, le azioni non sono mai interrotte ma vengono seguite, tempi morti compresi, allontanando l'assunto del loro potenziale narrativo. Tutto è vissuto (o, comunque, portato in scena?) con l'obiettivo di esaltare la carica e la vitalità dei corpi femminili, veneri vittime dell'invadenza voyeuristica di Amin (e di noi spettatori) che diventa presto insopportabile.

Perchè, Mektoub, My Love: Canto Uno conferma tutti i limiti nello sguardo di Abdellatif Kechiche. La costruzione della sua immagine, nonostante l'apparente libertà, è totalmente asfittica. Allo spettatore non è offerta alcuna via di fuga né spazi dialettici. Ciò che si mostra è l'unica cosa che si vede e il film è edificato in modo tale da ingabbiare chi guarda nella superficie delle sue immagini. Le sequenze si dilatano ma lo spettatore non è mai catturato emozionalmente ma solo percettivamente: il fondoschiena e il corpo erotizzato sono i visual effects dell'immagine povera di Kechiche (e il suo film si attesta come un blockbuster su corpi eccedenti performanti). Raramente si sono visti film che hanno giocato in modo così spudorato con i corpi femminili, sbattuti continuamente in faccia allo spettatore senza il minimo ritegno.

Qual è l'effetto collaterale? Il venir meno della loro erotizzazione. L'esposizione frontale e sfacciata, le danze disinibite e dai ritmi frenetici azzerano i margini di movimento e la curiosità suscitata da un occultamento che avrebbe evitato la perversione dello sguardo del protagonista (e del suo regista). Attenzione: il problema non consiste in ciò che si mostra ma nel modo in cui lo si porta in scena. La forma estremamente scopica scelta da Amin ne suggella lo sguardo perverso e restituisce l'impressione di un film simulato che vive dei propri limiti e, per di più, li mostra con orgoglio.

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