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mercoledì 29 novembre 2017

GLI EROI DEL NATALE

di Matteo Marescalco

Il periodo natalizio è alle porte e, puntuali, arrivano i numerosi film che allieteranno le nostre feste. Un posto di particolare importanza spetta a Gli eroi del Natale, prodotto della Sony Pictures Animation che rilegge, dal punto di vista degli animali co-protagonisti, la nascita di Gesù. 
Bo è un asinello che sogna di liberarsi dalla stalla in cui è rinchiuso e condannato a far girare la macina di un mugnaio pieno di sè; il suo migliore amico, la colomba Dave, gli dà una mano a fuggire e gli consiglia di seguire il corteo reale che passerà da Nazareth; Maria è una giovane donna alle prese con la propria gravidanza divina. A completare il quadro dei personaggi, Giuseppe, neo-marito di Maria e dubbioso sul proprio ruolo in relazione alla nascita di Gesù. Sullo sfondo della narrazione tradizionale si aggiunge la miriade di personaggi secondari legati all'evento che, in questa rilettura animata, assurgeranno al ruolo di protagonisti assoluti. 

L'idea di rifondare e raccontare diversamente quella che, a ragione, viene definita la più grande storia del mondo (ovviamente, per un target di piccoli) è originale e porta con sè un buon livello di sviluppo e di cura, sul versante narrativo ed animato. Ogni personaggio ha un conflitto e lotta contro qualcosa: l'idea di sè che hanno gli altri, il desiderio di uscire dalle quattro mura domestiche e di mettersi davvero in gioco e contribuire a quello che viene percepito come un evento determinante, l'inadeguatezza nel crescere il re dei re. La tradizionale struttura del viaggio dell'eroe presenta varie sfaccettature e si sviluppa in relazione a tutti gli animali che entrano in gioco. 

Ovviamente, le storyline troveranno il loro punto di detonazione in corrispondenza dell'evento finale, suggellato dalla comparsa della stella cometa che guida il cammino degli eroi. Il film offre una serie di valori su cui poter riflettere, in relazione al comportamento degli animali del presepe: coraggio, dedizione, redenzione e libertà di scelta. Questo interessante backstage della nascita di Cristo riduce al minimo i riferimenti divini. Nella sua semplificazione risiede una delle chiavi del successo del film che si attesta come un piacevole modo per trascorrere un pomeriggio all'insegna del divertimento familiare.

venerdì 24 novembre 2017

ASSASSINIO SULL'ORIENT EXPRESS

di Matteo Marescalco

Un lussuoso treno attraversa un freddo scenario invernale dominato dalla neve e dalle montagne. Dentro il treno l'atmosfera è soffusa ed il cibo è ottimo. Peccato che la calma che regna sovrana venga improvvisamente sconvolta da un omicidio. Ad essere ucciso è Ratchett, un losco individuo dal passato poco chiaro, colpito al petto da svariate coltellate di forte intensità. Chi dei distinti passeggeri è il colpevole? Il compito di condurre le indagini spetta ad Hercule Poirot, celebre invenzione letteraria di Agatha Christie.

Il baffuto personaggio, questa volta, è interpretato da Kenneth Branagh, che ha curato anche la regia dell'adattamento, caratterizzato dalla presenza di un cast che farebbe invidia a tutti: Johnny Depp, Judi Dench, Michelle Pfeiffer, Penelope Cruz, Willem Dafoe, Derek Jacobi e Daisy Ridley ci prendono per mano e ci accompagnano lungo questo estenuante viaggio.

Basterebbe il solo incipit di una decina di minuti a contestualizzare l'operazione produttiva di Branagh, regista ed attore di forte stampo teatrale. Quella mise en abyme delle metodologie di indagine di Poirot restituiscono un personaggio che difficilmente si limiterà ad orchestrare il dramma e a traghettare i personaggi. Branagh pone costantemente sé stesso al centro di ogni scena, dimostrando un egocentrismo di notevole intensità. Ogni sequenza è perfettamente orchestrata e girata, l'attenzione ai dettagli ed ai dialoghi è notevole ma quello che sembra mancare è una certa naturalezza cinematografica. Si ha l'impressione che ogni gesto sia fin troppo teatrale, finendo per restituire allo spettatore un senso di oppressione. I personaggi entrano in scena dopo un lungo piano sequenza che ricerca la spettacolarizzazione chiedendo in sacrificio l'approfondimento psicologico dei caratteri portati sullo schermo.

Il senso veicolato dal racconto passa attraverso le scelte di regia (i movimenti di macchina) piuttosto che attraverso la scrittura. Questa trasposizione di Kenneth Branagh è uno di quei casi in cui la regia non è al servizio della sceneggiatura (che, per quanto riguarda la collocazione dei turning point si mostra anche abbastanza imprecisa). Il rischio di inserire la prima svolta narrativa in corrispondenza del 45esimo minuto è quello di perdere completamente l'interesse dello spettatore. Al termine della visione, rimane ben poco in mente (e peggio ancora, ancorato al cuore). L'unico personaggio a presentare un arco narrativo compiuto è il solo Hercule Poirot (a dimostrazione di quanto sia lui il centro focale del film, anche in vista di una serializzazione del prodotto). I delitti, le passioni, i tormenti e le sofferenze dei personaggi secondari rimangono nel dimenticatoio o, comunque, sono assolutamente insufficienti per delineare la loro trasformazione e la risoluzione di un conflitto.

Ben poco si salva di questa operazione, mero divertissment posticcio ed artificioso, insincero ed incapace di trasformarsi in qualcosa di davvero interessante.

SMETTO QUANDO VOGLIO-AD HONOREM

di Matteo Marescalco

Nel 2014, il primo capitolo di Smetto quando voglio, che avrebbe poi dato inizio alla trilogia realizzata grazie al favore positivo del pubblico, è stato accolto con entusiasmo da critici e spettatori. Il secondo capitolo, Masterclass, uscito a Febbraio, è stato preceduto da un battage pubblicitario senza eguali per un film italiano: Roberto Recchioni, Zerocalcare, Giacomo Bevilacqua e Riccardo Torti hanno realizzato le quattro copertine da collezione dedicate ad un fumetto su Smetto quando voglio in vendita in edicola. La partnership con la Sapienza (in cui sono stati girati i due sequel) ha attivato l'attenzione della città universitaria. Insomma, il pubblico cinematografico italiano ha avuto il suo fenomeno popolare. Gli incassi, nonostante questo, sono stati inferiori al primo episodio (e quindi alle aspettative).

Smetto quando voglio-Ad Honorem è stato accompagnato dal lancio sui vari canali social di un filmato che rilegge in chiave ironica i video americani che, nell'ampio spettro del marketing di un prodotto, utilizzano un linguaggio scientifico e forbito per sottolinearne i pregi. Il breve filmato parte dal concetto che questo terzo episodio è molto più divertente dei precedenti due; poi analizza il volto di Luigi Lo Cascio, villain del film, molto più cattivo di Pennywise, Joker e persino del Geometra Calboni. Il fatto che uno strumento di marketing faccia ironia su sé stesso e sul prodotto che presenta, con una scrittura certosina e millimetrica, riflette alla perfezione lo spirito della saga di Smetto quando voglio, che ha fatto del precariato un pretesto per la commedia e l'action.

Il primo episodio portava in scena la vicenda di Pietro Zinni e della sua banda di ricercatori che, sulla scia di Walter White di Breaking Bad, sintetizzavano una sostanza stupefacente non ancora messa al bando dal ministero. In Masterclass, con la premessa di uno sconto di pena e la ripulitura della fedina penale, la banda collabora con le forze di polizia all'arresto dei principali trafficanti di smart drugs romani. Peccato che le cose prendano, ancora una volta, una piega inaspettata. Zinni e co. se la dovranno vedere con un nuovo personaggio che li mette in serie difficoltà. Questo nuovo villain, il principale generatore di conflitto in Ad Honorem, è Walter Mercurio, il cui passato è oscuro e coinvolge anche il Murena.

La chiusura della trilogia di Sydney Sibilia compatta quanto visto finora e getta una luce su alcune zone d'ombra del passato. Se i precedenti episodi cercavano l'effetto sorpresa (il primo nel territorio “sicuro” della commedia, il secondo invadendo la rischiosa palude dell'action movie), questo Ad Honorem chiude il cerchio e regala inaspettati approfondimenti umani che costituiscono un solido background su cui innervare la vicenda di momenti ironici. Smetto quando voglio esiste e sancisce la nascita di un'epica popolare nel cinema di genere italiano che annovera, dopo Enzo Ceccotti di Lo chiamavano Jeeg Robot, una nuova banda di supereroi. Sibilia e la Groenlandia (la società di Matteo Rovere, regista di Veloce come il vento) hanno dimostrato che è possibile, in Italia, progettare un cinema diverso, che riesca ad echeggiare la grande organizzazione industriale hollywoodiana, fatta di high concept, struttura narrativa rigida e costruita sulla base di predeterminati modelli narrativi, effetti speciali funzionali alla storia narrata che si configura come un prodotto medio frutto di un enorme ed intelligente sforzo produttivo. Quando un film è ben scritto e presenta conflitti pienamente strutturati e sviluppati, il risultato non può che essere questo.

lunedì 20 novembre 2017

CONFERENZA STAMPA COCO

di Matteo Marescalco

Due anni dopo l'arrivo di Pete Docter a Roma in occasione della presentazione stampa di Inside Out, giunge nella capitale un altro membro dei Pixar Studios. Stiamo parlando di Lee Unkrich, regista di Toy Story 3 e produttore esecutivo e co-regista di molti altri film dello studio di animazione digitale americano. In questo suo tour europeo, Unkrich è stato accompagnato da Darla K. Anderson, produttrice ed addetta alla supervisione dei film Pixar.

In un variopinto villaggio messicano fervono i preperativi in occasione del Dia de los muertos, una particolare forma di celebrazione tipica della cultura sudamericana che si colloca tra l'1 ed il 2 Novembre. Il dodicenne Miguel si getta a capofitto nei festeggiamenti, strimpellando la sua chitarra e coltivando il sogno di poter suonare, un giorno, dinnanzi a platee ben più ampie. La famiglia, tuttavia, a causa di un'antica maledizione, gli impedisce di suonare e di seguire la sua passione. Proprio nel giorno della festa che celebra i morti, Miguel trafuga la chitarra del suo cantante preferito. Questo atto lo trasporterà in un universo magico dalle tinte orrorifiche: il ragazzino si troverà catapultato nel mondo dei morti. Come uscirne?

La prima domanda in conferenza rimarca la somiglianza tra Coco, La sposa cadavere di Tim Burton (e, in genere, l'intero immaginario burtoniano) e Il libro della vita di Jorge R. Gutierrez (che annovera Guillermo del Toro tra i produttori). «Su Tim Burton, sapevamo benissimo quando abbiamo iniziato a lavorare su questo film, che, avendo a che fare con scheletri, automaticamente saremmo stati correlati a lui. Noi abbiamo provato a differenziarci, creando personaggi belli da guardare ed interessanti. E abbiamo aggiunto gli occhi che sono una sorta di finestra sulla loro anima. Per quanto riguarda Il libro della vita, si è trattato di una mera coincidenza. Abbiamo iniziato a lavorare su Coco ben sei anni fa, ovvero due anni prima dell'uscita del film di Gutierrez. In giro ci sono tantissimi film sul Natale quindi non capisco perché non ci possano essere più film dedicati al Dia de los muertos. Noi abbiamo visto e apprezzato il suo film e lui ha visto e apprezzato il nostro. La storia è completamente diversa».

«Voi della Pixar avete girato un film su un evento fondamentale della cultura messicana e lo avete presentato in anteprima mondiale proprio in Messico. Considerando il fatto che avete un presidente che vuole costruire un muro con il Messico, mi sembra una bella dichiarazione di intenti». Secondo il regista: «Abbiamo lavorato su Coco per sei anni. Ed il mondo, sei anni fa, era ben diverso da quello che è oggi. Sin dall'inizio, l'idea era quella di lavorare su un film che fosse prova del nostro profondo amore nei confronti del popolo messicano e della sua cultura. Ci auguriamo che possa contribuire a costruire un ponte. L'obiettivo era mostrare la ricchezza di questa cultura, sperando che si possano dissolvere le molte barriere artificiali frapposte».

Per quanto riguarda i dettagli dell'animazione, mai così fotorealistica (in molte scene, l'impressione è quella di assistere ad un film in live action), l'attenzione si è concentrata sul personaggio di Dante, il cane di Miguel: «La lingua di Dante è completamente incontrollabile, indipendente dal suo volere. Si tratta di una razza particolare e specifica del Messico. Risale a migliaia di anni fa ed è parte della cultura azteca. Il gene del dna di questa razza controlla crescita del pelo e crescita di denti. Per questo motivo, in Messico ci sono parecchi cani senza pelo e senza denti. Non avendo denti, la lingua non riesce ad essere trattenuta. Per quanto riguarda la tecnologia usata, è la stessa che abbiamo utilizzato per la realizzazione dei tentacoli di Hank di Alla ricerca di Dory».

Nel 2013, Coco fu al centro di una controversia relativa alla registrazione, come marchio commerciale, da parte della Walt Disney Company della frase Dia de los Muertos. La comunità messicana negli Stati Uniti non tardò a manifestare il disaccordo, convinta che si trattasse di appropriazione indebita, da parte della Disney, di usi e tradizioni messicane. Lee Unkrich ha ricordato l'accaduto: «Dia de los Muertos è stato uno dei primi titoli che abbiamo preso in considerazione per il film. Poi, a seguito dell'episodio con la comunità latina, ci siamo affranti molto e abbiamo cercato altre strade da percorrere. Tutto ciò, però, ha finito per dare un effetto positivo alla realizzazione. Abbiamo ingaggiati altri esperti e consulenti che, alla fine, probabilmente, ci hanno reso possibile realizzare un film migliore di quello che avevamo in mente».

Coco, diretto da Lee Unkrich e distribuito da Walt Disney Studios Motion Pictures, arriverà nelle sale italiane dal 28 Dicembre. Il nostro consiglio è quello di affollare completamente i cinema!

sabato 18 novembre 2017

GLI SDRAIATI

di Matteo Marescalco

Chi sono gli sdraiati? Adolescenti che guardano il mondo dal punto di vista del divano di casa loro, alternando lo sguardo su smartphone, diventato a tutti gli effetti un prolungamento corporeo, e tv. Tito, il figlio di Giorgio Selva, è uno sdraiato. Lui e i suoi amici (la banda dei froci) sono alti, grassi, puzzano, si raccontano balle e stanno sempre insieme, da scuola al divano fino al letto. Finchè non irrompe Alice, la nuova compagna di classe, che spezza la quotidianità dei ragazzi e di cui Tito finisce per innamorasi. Giorgio Selva è uno stimato volto della tv pubblica, conduce un programma di approfondimento e vive con il figlio in un'area ipermoderna di Milano, all'interno di un grattacielo che è un po' il suo rifugio in cui nascondersi. Ha un suocero che adora, un figlio che non lo considera (Tito), una ex moglie giornalista che non incontra da anni, una ex domestica con cui, 17 anni prima, ha avuto una relazione extraconiugale e la banda dei froci che, insieme a Tito, gli rende le giornate infernali.

Gli sdraiati è anche il titolo del libro di Michele Serra, pubblicato nel 2013 da Feltrinelli Editore, da cui Francesca Archibugi e Francesco Piccolo hanno tratto questo film. Lo sguardo della regista alterna punti di vista diversi, osservando le ragioni che spingono Giorgio Selva a sentirsi un padre escluso dalla vita del figlio e quelle che caratterizzano l'atteggiamento di Tito, in cerca di maggiore libertà ed indipendenza. Il problema nel rapporto tra i gruppi di personaggi di età diversa risiede nella povertà di immaginario e di soluzioni creative che la regista e lo sceneggiatore propongono. Gli adulti sono tutti pezzi grossi dei media o della vita intellettuale italiana (la vita dei pochi proletari presenti viene trattata in modo esageratamente didascalico); i ragazzi, dal canto loro, si muovono tutti in bici e presentano atteggiamenti ai limiti della sopportabilità, all'interno di quel cantuccio sicuro che è offerto loro dalla ricchezza dei genitori. Tutto sommato, si poteva cercare un approccio che si allontanasse dalla superficie opaca dello stereotipo e che attingesse al materiale di partenza in modo diverso.

Nel mosaico di personaggi che popolano Gli sdraiati, un gigantesco punto interrogativo riguarda
Antonia Truppo, costantemente sopra le righe nell'interpretare la domestica trapiantata al nord che riveste un ruolo fondamentale nell'economia dello sviluppo narrativo del film. Il mondo in cui si muove la Archibugi è un ben preciso universo radical chic popolato da ragazzini menefreghisti e genitori che consentono loro ogni comportamento, anche il più esagerato, tra appartamenti affollati di libri, piscine al coperto, vigneti e ville vista mare. Il ritratto generazionale non funziona perché ogni elemento portato in scena è spinto al parossismo finendo per privare il pubblico del piacere della condivisione di sensazioni con i personaggi, figurine monodimensionali prive di umanità e che stancano dopo pochi minuti.

mercoledì 15 novembre 2017

JUSTICE LEAGUE: LA TRISTE PERFEZIONE DEL BATMAN DI BEN AFFLECK

di Matteo Marescalco

*recensione pubblicata per Sensi di Cinema

Chi vi scrive ha trascorso la propria giovane vita alle prese con una mamma innamorata di Ben Affleck. E come criticarla?! Mascella volitiva e fisico da quarterback, Affleck ha attraversato da protagonista, nel bene e nel male, gli anni 2000. Armageddon, Shakespeare in Love, Bounce, Pearl Harbor, Daredevil, Amore estremo, Hollywoodland sono le tessere che hanno contribuito a costruire quel gigantesco mosaico fatto di odio e amore/fallimenti e vittorie nei confronti di un attore che ha sempre dato l'impressione di avere un talento particolare nell'inimicarsi i pareri della critica che, a sua volta, gli ha spesso riservato il fondo di un oceano viscoso e particolarmente oscuro difficile da risalire. Come non provare affetto per quel mascellone dalla stazza titanica che incappava in film il più delle volte dalla discutibile qualità? Sguardo perso nel vuoto e bocca semiaperta, Ben Affleck ha sempre dato l'impressione di mettercela tutta ma di non riuscire a raggiungere esiti soddisfacenti nell'arte della recitazione.
Fino alla rinascita del 2007 con Gone baby gone e i successivi The Town e Argo che lo porta al secondo Oscar (La legge della notte è stato un totale flop nel mondo, emblema chiarissimo dello sfortunato destino del suo autore). E giù con complimenti, processi di redenzione ed il «Ma quindi non era lui lo scemo della coppia Ben Affleck-Matt Damon!».

Tutto questo preambolo dalla parvenza inutile, in realtà, serve per giustificare l'affetto smisurato che chi scrive prova per il regista/attore americano ed un concetto che innerva il pezzo critico: non esiste miglior Batman di Ben Affleck.
Nessuno meglio di lui è stato in grado di portare sulle sue spalle il peso di un progetto (il DC
Extended Universe) nato nel 2013 con Man of Steel (lo stesso anno in cui è stato dato l'annuncio che il Batman post-Christian Bale sarebbe stato interpretato proprio da Affleck) per rincorrere i successi al botteghino del Marvel Cinematic Universe (omologato su un unico tono ma, quanto meno, ben più solido sul versante produttivo rispetto al colpo di coda finale del team DC). Zack Snyder è stato garante di un'operazione sbilenca, una corsa contro il tempo che ha dato linfa vitale ad un nuovo modo di concepire il blockbuster supereroistico, lontano dal mediocre appiattimento della Marvel, e più vicino ad una concezione autoriale dell'operazione: lo sguardo di Snyder è totalitario sui primi quattro film alla base dell'universo condiviso, rispecchia il suo modo di concepire il cinema come assalto multisensoriale allo spettatore volto a destrutturare l'epica classica di supereroe (e a mettere in scena persino la sua morte). Tutto è andato a buon fine? Non troppo. E quest'ultimo Justice League, primo film totalmente corale del team DC, è la perfetta sintesi degli aspetti più problematici che pendono come una spada di Damocle sul suo capo nonché emblema di ciò che il futuro, molto probabilmente, ci riserverà.

La trama è più che mai lineare: dopo la morte di Superman, la Terra è presa di mira dalla più malvagia forza aliena di sempre, Steppenwolf, che approfitta della sua vulnerabilità provocata dalla fine del figlio di Krypton (la vicenda è lievemente più complessa e tira in ballo concetti quali speranza e paura ma, al momento, non è necessario approfondire). Batman, sempre più stanco del proprio ruolo, mette insieme una straordinaria Lega per contrastare il Male. Wonder Woman, Aquaman, The Flash e Cyborg si uniranno e combatteranno insieme in difesa dell'umanità. 

Il progetto di Justice League è da tempo nell'occhio del ciclone: pochi mesi fa, Zack Snyder, a seguito di un lutto familiare, ha abbandonato la regia del film e ha lasciato la post-produzione e la regia delle riprese aggiuntive a Joss Whedon, celebre papà degli Avengers cinematografici (insomma, JL è passato al nemico). Il film, inizialmente, sarebbe dovuto constare di due parti, ridotte ad una, abbondantemente superiore alla durata di due ore, ulteriormente limate alle due ore. Abbandono di Snyder ed ingresso repentino di Whedon hanno complicato ulteriormente i piani, finendo per rendere Justice League un prodotto ben più omologato dei suoi fratelli maggiori al panorama del blockbuster contemporaneo e manchevole di una compattezza, nonostante la breve durata. Le atmosfere narrative cupe e la magniloquenza tematica sono state abbandonate per cercare un'ibridazione (i punti di vista di Snyder e Whedon sono diversi) che mina la tenuta complessiva del film.

Tuttavia, a maggior ragione, un film così martoriato, con un Ben Affleck in piena terapia riabilitativa
per dipendenza da alcool e reduce dal clamoroso insuccesso di La legge della notte, che  dice, insieme al suo Batman, di non essere più in grado di tenere le redini del gruppo (l'abisso della sua solitudine, del senso di colpa e del rancore non è mai stato così profondo), crea un incredibile cortocircuito tra finzione e realtà ed attesta la perfezione dell'attore americano per quel ruolo. E se il cuore del progetto DC risiedesse proprio nelle crepe che rendono la sua struttura traballante? Nella goffaggine quasi infantile che caratterizza l'ammissione di colpevolezza di Batman? Se fossero proprio i deragliamenti del tessuto produttivo a far tremare l'ossatura ma a mantenerla, allo stesso tempo, viva? Una clamorosa deflagrazione, nella sua imperfezione ben più perfetta di quella dei precedenti episodi, che porta ad una piena coincidenza tra vicende private e pubbliche e dota Justice League di un cuore gigantesco (lo stesso che, a tempi alterni, abbatte Ben Affleck e gli dona nuova vita) difficilmente ravvisabile altrove.

lunedì 13 novembre 2017

BORG MCENROE

di Matteo Marescalco

*recensione pubblicata su Point Blank

«(…) I live my life for the stars that shine. (…) Tonight I'm a rock 'n' roll star. Tonight I'm a rock 'n' roll star», canta, con un certo piacere, dal 1994 Liam Gallagher, co-fondatore degli Oasis, i cattivi ragazzi per eccellenza della musica inglese degli anni '90. 

Per restituire il fulgore della finale di Wimbledon del 5 Luglio 1980, il regista Janus Metz concentra la sua attenzione sul concetto di rock star, un concentrato immortale di demoni interiori e di volontà di apparire e di donarsi ai media, una celebrità “sporca” che detta la moda di un ben preciso tempo storico. Da un lato, c'è Björn Borg, l'iceborg svedese, fascia alla fluente chioma vichinga, sguardo da duro e collanina ad incorniciare il collo e a sfiorare il colletto aperto della polo. Dall'altro, John McEnroe, il super brat americano del tennis, genietto ribelle e precoce, carattere irascibile, carnagione chiara e massa di capelli ricci.  

*continua a leggere su Point Blank: http://www.pointblank.it/recensione/borg-mcenroe/ 

NEMESI

di Matteo Marescalco

*recensione pubblicata su Point Blank

(…) and I always sleep with my guns when you're gone
(…) when I'm all alone the dreaming stops
and I just can't stand


Nel cinema come atto di resistenza e di reincarnazione quale è Nemesi, un fondamentale punto di vibrazione del testo filmico è costituito dalla sequenza (auto-)ripresa dalla microcamera dello smartphone in cui (il fu) Frank Kitchen si rivolge allo spettatore e gli punta contro la pistola, poco prima di abbandonarsi ad un futuro tutto da costruire. «Change is gonna come!». Quindi, probabilmente, non abbiamo ancora sentito/visto niente? 

Tra le nebbie notturne di una luna che non lascia mai posto al sole, Frank Kitchen è un terribile killer a pagamento (incarnato dal corpo di Michelle Rodriguez, sacrificio in difesa dell'universo digitale di Pandora) che popola le confessioni della dottoressa Rachel Jane, ricoverata in un centro psichiatrico ed immobilizzata da una camicia di forza, a cui presta il volto Sigourney Weaver, madre per eccellenza delle contaminazioni post-moderne. Kitchen si aggira come uno spettro. È un fantasma che non lascia tracce e che nessuno ha visto, tanto da far credere all'analista Ralph Galen che si tratti di un mero parto immaginario di Rachel Jane, un semplice transfert delle sue insicurezze private. In realtà, il serial killer ha ucciso il fratello della dottoressa che, per vendicarsi, lo ha sottoposto ad un'operazione di cambiamento di sesso, ri-assegnando il suo ghost ad un nuovo supporto fisico.

*continua a leggere su Point Blank: http://www.pointblank.it/recensione/nemesi/

mercoledì 8 novembre 2017

OGNI TUO RESPIRO

di Matteo Marescalco

Breathe: il costante rumore di sottofondo della narrazione.

Campagna inglese del 1957, campi lunghissimi, la visuale si restringe su una partita di cricket e, progressivamente, sui volti di due giovani: Robin Cavendish e Diana Blacker. Lui è impegnato nel gioco ma la sua attenzione è concentrata più su Diana che su altro; dal canto suo, la giovane Blacker viene descritta da un compagno di gioco di Robin come un'amante scatenata che cambia sempre uomo, una preda decisamente non alla sua portata. I piani sempre più stretti sui volti dei due personaggi principali delineano l'itinerario che sarà intrapreso dal film e che trova perfetto compimento nei rapidi minuti successivi. 

Come in Up, anche in Ogni tuo respiro la relazione tra Cavendish e Blacker viene presentata tramite il montaggio di alcuni momenti fondamentali: il primo bacio, il viaggio in Africa e la dichiarazione d'amore accompagnata dalla proposta di matrimonio. Tutto procede per il verso giusto; la coppia è incredibilmente bella ed affiatata e si trasferisce in Kenya dove Robin lavora alla ricerca di produzioni di tè da lanciare sul mercato inglese.
Alla fine di una partita di tennis, tuttavia, Robin inizia a soffrire di una serie di sintomi che lo condurranno alla paralisi pressoché totale del corpo. La poliomielite lo ha colpito, condannandolo ad un'esistenza bloccato su un letto, alle prese con un respiratore artificiale che scandisce (e determina) la sua vita.

Con queste premesse, favorite dal fatto che la regia fosse del debuttante Andy Serkis (che ha comunque alle spalle la lunga esperienza di direttore della seconda unità della trilogia de Lo Hobbit di Peter Jackson), l'idea del biopic inondato di sentimentalismo e di buone intenzioni più che un'ipotesi sembrava realtà. E, invece, Ogni tuo respiro è un prodotto magistrale in cui la scansione del racconto è costruita su una trama principale coadiuvata da una serie di sottotrame che forniscono il pretesto per conoscere meglio i protagonisti della vicenda ma, soprattutto, per tenere vigile l'attenzione dello spettatore. Al di là del quesito principale («Riuscirà Robin a condurre una vita degna di essere vissuta o, quanto meno, a superare il limite previsto dal medico che lo ha in cura?»), il racconto ne sviluppa altri paralleli che ne ossigenano la spina dorsale. Si riflette sulla questione dell'autodeterminazione dei malati, sul diritto all'eutanasia e sul testamento biologico, sulla battaglia di un amore che ha resistito nonostante tutte le avversità.

Ogni sequenza è costruita su un abile bilanciamento delle immagini (la cui successione è basata sul classico principio causa-effetto) ma, soprattutto, su un intelligente sviluppo dei desideri e delle necessità dei personaggi, cuore pulsante del film. Dietro l'attenzione formale, si nasconde un rumore onnipresente, quello del respiratore artificiale, che puntella ogni sequenza. Sembra quasi di poter ascoltare il respiro autonomo del film, il movimento incessante della sua anima. La collocazione dei punti di svolta è attenta alle dinamiche di sviluppo dei protagonisti, che compiono un buon arco di trasformazione e si trovano ad affrontare, di volta in volta, problemi che necessitano un maggiore sforzo.

A pensarci bene, potrebbe non esserci stato regista più adatto di Andy Serkis a dirigere questa storia. L'essere umano dietro King Kong, Gollum e Cesare, gli esseri sintetici più famosi del cinema contemporaneo. L'analogico alla base del digitale. Il fattore umano in grado di dare linfa vitale ad un racconto altrimenti schiacciato su banali stereotipi. 

domenica 5 novembre 2017

NUT JOB: TUTTO MOLTO DIVERTENTE

di Matteo Marescalco

*recensione pubblicata per The Huffington Post Italia: http://www.huffingtonpost.it/la-festa-dei-millennials/nut-job-2-il-sequel-non-brilla-come-il-precedente-ma-la-pixar-sa-bene-come-raggiungere-il-target-famigliare_a_23264317/

Uno scoiattolo-leader in crisi che non sa più guidare la comunità di appartenenza, un cane fedelissimo al metodo Stanislavskij, un gruppo di topolini bianchi che, sotto la parvenza esteriore, nascondono capacità degne delle migliori armi di distruzioni di massa, un sindaco corrotto dedito a speculazioni edilizie ed una bambina con evidenti problemi di peso e di nervosismo.
 
Sono loro il cuore pulsante di Nut Job: tutto molto divertente, sequel dell’omonimo film di animazione del 2014 di cui si è poco parlato in Italia. Il variegato gruppo di roditori, capitanato da Spocchia e dal topo muto Buddy, è minacciato dal progetto del sindaco di trasformare il parco in cui vivono in una luna park. Obiettivo del gruppetto? Dare una bella lezione ai cattivi e ristabilire l’ordine a Liberty Park.
 

I, TONYA

di Matteo Marescalco

*recensione pubblicata per The Huffington Post Italia: http://www.huffingtonpost.it/la-festa-dei-millennials/i-tonya-trionfo-e-caduta-di-unex-pattrinatrice-artistica_a_23261611/

Jorge Luis Borges ha definito Quarto Potere di Orson Welles “un labirinto senza centro”. I, Tonya di Craig Gillespie non è, di certo, il nuovo Quarto Potere ma presenta una struttura prismatica di interessante fattura, in grado di shakerare nel modo più brillante possibile un mix di generi che lo rendono un frullato variegato e dai sapori contrastanti. Al quarto giorno di kermesse, la Festa del Cinema di Roma ha già visto i film che, molto probabilmente, concorreranno alla prossima edizione dei Premi Oscar: Jake Gyllenhall per Stronger e Steve Carell per Last Flag Flying sono particolarmente quotati per la vittoria finale come Attore Protagonista e Non. 

I, Tonya, d’altronde, si inserisce di prepotenza nella corsa all’Oscar grazie alla magistrale performance di Margot Robbie nel ruolo di Tonya Harding, pattinatrice americana di fama mondiale che, nel 1994, insieme al marito Jeff Gillooly, pagò un uomo per aggredire la sua rivale Nancy Kerrigan ed eliminare, in tal modo, la concorrente dalle competizioni ufficiali. Il film inizia come un mockumentary girato da una sorta di Wes Anderson sotto acidi con interviste agli attori che interpretano i personaggi reali, per poi evolversi ed abbracciare diversi generi.

*continua a leggere su The Huffington Post Italia: http://www.huffingtonpost.it/la-festa-dei-millennials/i-tonya-trionfo-e-caduta-di-unex-pattrinatrice-artistica_a_23261611/

CUERNAVACA

di Matteo Marescalco

*recensione pubblicata per The Huffington Post Italia: http://www.huffingtonpost.it/la-festa-dei-millennials/cuernavaca-storia-di-un-ragazzo-alla-ricerca-delle-sue-radici_a_23261608/

Siamo quasi al giro di boa di questa dodicesima edizione della Festa del Cinema di Roma. Ad animare la prima proiezione stampa della mattinata è stato Cuernavaca di Alejandro Andrade che ha riportato sugli schermi della Festa il volto di Carmen Maura, protagonista de Le streghe son tornate, irriverente ed esagerato film di Alex de la Iglesia presentato a Roma nel 2013, ai tempi in cui l’allora direttore artistico Marco Muller sguazzava nel calderone primordiale del più variegato cinema di genere. 

Personaggio principale della vicenda è Andy, la cui vita cambia improvvisamente a causa della scomparsa della madre, ferita a morte durante una rapina in un bar. Il ragazzino è costretto a trasferirsi a Cuernavaca, a casa della nonna paterna, che sembra nascondere numerosi segreti. Andy è irritato dal suo comportamento e decide di andare alla ricerca del padre con l’aiuto di Charly, l’attraente ma pericoloso figlio del giardiniere che lavora nella tenuta della nonna.  

*continua a leggere su The Huffington Post Italia: http://www.huffingtonpost.it/la-festa-dei-millennials/cuernavaca-storia-di-un-ragazzo-alla-ricerca-delle-sue-radici_a_23261608/ 

THE BREADWINNER

di Matteo Marescalco

*recensione pubblicata per The Huffington Post Italia: http://www.huffingtonpost.it/la-festa-dei-millennials/the-breadwinner-e-una-fiaba-che-riscatta-i-diritti-delle-bambine-dal-regime-di-kabul_a_23258406/

‹‹Grazie per avermi salvato la vita, Story››, diceva Paul Giamatti in Lady in the water, diretto da M. Night Shyamalan. In quel caso, i personaggi erano impegnati in un lavoro collettivo sotto forma di una narrazione da costruire. Attraverso l’arte del racconto (incarnata dal personaggio di Story), si rafforzava e si perpetuava l’esistenza dei singoli e delle comunità sociali. Allo stesso modo, anche The Breadwinner, film di apertura di Alice nella città, sezione parallela della Festa del Cinema di Roma, si dimostra profondamente cosciente delle origini storiche di ogni narrazione condivisa.

Parvana è una bambina undicenne che vive a Kabul, sotto il regime dei Talebani, che obbligano le donne ad uscire in compagnia degli uomini e ad indossare il burqa. Il padre e la madre, insegnante e scrittrice, incoraggiano la figlia ad usare l’immaginazione e a raccontare fiabe. Tra storie su Alessandro Magno e Gengis Khan, viene messa in scena la storia di un’Afghanistan martoriata da innumerevoli occupazioni nell’arco dei secoli. Quando suo padre viene arrestato, la piccola Parvana si traveste da ragazzo pur di mantenere la famiglia e rischia la vita per provare a liberarlo. L’appartamento che la bambina condivide con la madre, le due sorelle ed il fratello, si trasforma progressivamente in un carcere da cui Parvana riesce a fuggire grazie alle storie che le raccontava il padre perché ‹‹le storie rimangono nel cuore anche quando tutto il resto se n’è andato››.

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HOSTILES

di Matteo Marescalco

*recensione pubblicata per Cinemonitor 

Non si poteva augurare miglior inizio a questa dodicesima edizione della Festa del Cinema di Roma. Hostiles di Scott Cooper con Christian Bale e Rosamund Pike, in un certo senso, ne rispecchia l’animo. Robusto, compatto e capace di creare un’ottima tensione drammatica nonostante non brilli, di certo, per originalità.

La storia è nota ed è stata battuta già volte dal western, il più classico tra i generi cinematografici americani. Il capitano Joe Blocker è sul punto di andare in pensione quando riceve un incarico che non può non portare a termine: dovrà condurre a casa nel Montana il Capo Cheyenne Falco Giallo, in fin di vita per una malattia terminale. Blocker non accetta il compito di buon grado e prova a tirare in ballo il sanguinario passato di Falco Giallo sostenendo che sia necessario che il Capo Cheyenne continui a marcire in galera. Ciononostante, sarà costretto ad organizzare una spedizione e a dare inizio al viaggio a cui si unirà casualmente anche Rosalie, una donna a cui è stata trucidata la famiglia da una banda di ladri Comanche in cerca di cavalli da razziare.

Lo spirito che il film vorrebbe perseguire è dichiarato da una citazione di H.D. Lawrence, secondo cui l’America ha un cuore duro e stoico che, nel corso dei secoli, non si è minimamente ammorbidito. A partire da una dichiarazione di intenti del genere, è facile immaginare che la delineazione dei personaggi sia legata ad una ben precisa serie di archetipi: da una parte ci sono i buoni (che nascondono un oscuro passato) e dall’altra i cattivi (da cui, in fin dei conti, i buoni non differiscono poi così tanto). Facile, poi, innestare su un background del genere e nel corso di un viaggio che conduce al cuore di tenebra dell’America, dubbi, incertezze ed interrogativi sulla propria identità, che finisce per essere molto più liquida di quanto ogni singolo personaggio potesse pensare.

Eppure, nel corso di questo canovaccio ben noto, non manca lo spazio per determinate aperture che finiscono per ossigenare lo sviluppo del racconto. “Sono stanco, Joe. Dicono che ho la malinconia”. Un dialogo, dal tono lento e distante, tra Blocker ed un suo sergente, provoca uno squarcio nel buio e restituisce due personaggi che, nell’oscurità dell’età adulta, si lasciano andare alla nostalgia dei tempi passati. L’orizzonte malinconico e crepuscolare del western innerva Hostiles e trasforma il film in una sfida contemplativa attenta anche ai chiaroscuri dell’anima.
L’atmosfera dolente e contraddittoria e l’attenzione estetica dedicata al film restituiscono un racconto che si ammorbidisce con il passare dei minuti senza, tuttavia, che la propria durezza ne risulti smaccatamente intaccata. Scott Cooper sia conferma un buon regista, consapevole delle modalità di costruzione di un robusto film di intrattenimento ma sempre attento al mantenimento di una delicatezza che fa in modo che rigide figure si trasformino in personaggi desideranti.

CINEVOTI FESTA DEL CINEMA DI ROMA 12

di Matteo Marescalco


La ragazza nella nebbia di Donato Carrisi ★★1/2
Hostiles di Scott Cooper ★★★
Una questione privata di Paolo e Vittorio Taviani ★★
The Breadwinner di Nora Twomey ★★★
Romarcord, Storia dei cinema romani a cura di Andrea Minuz e Damiano Garofalo ★★★
Detroit di Kathryn Bigelow ★★★★
Stronger di David Gordon Green ★★1/2
Capitan Mutanda di David Soren ★★
Abracadabra di Pablo Berger ★★★1/2
Cuernavaca di Alejandro Andrade ★★
I, Tonya di Craig Gillespie ★★★★
Pipì, Pupù e Rosmarina in Il mistero delle note rapite di Enzo D'Alò ★★
Last Flag Flying di Richard Linklater ★★★★
Please Stand By di Ben Lewin ★★
Addio fottuti musi verdi di Francesco Ebbasta ★★1/2
Nut Job: tutto molto divertente di Cal Brunker ★★
The only living boy in New York di Marc Webb ★★
The Changeover di Harcourt e McKenzie ★★1/2
Logan Lucky di Steven Soderbergh ★★★1/2
Trouble no more di Jennifer Lebeau ★★1/2
Borg McEnroe di Janus Metz ★★★★
Nysferatu-Symphony of a century di Mastrovito ★★
Babylon Berlin Ep. 1-2 ★★
In un giorno la fine di Daniele Misischia ★★★
Ducktales di Youngberg ★★★
The Place di Paolo Genovese ★★1/2
Spielberg di Susan Lacy ★★★1/2