di Matteo Marescalco
*recensione pubblicata per Sensi di Cinema
Chi vi scrive ha trascorso la propria giovane vita alle prese con una mamma innamorata di
Ben Affleck. E come criticarla?! Mascella volitiva e fisico da quarterback, Affleck ha attraversato da protagonista, nel bene e nel male, gli anni 2000.
Armageddon,
Shakespeare in Love,
Bounce,
Pearl Harbor,
Daredevil,
Amore estremo,
Hollywoodland sono le tessere che hanno contribuito a costruire quel gigantesco mosaico fatto di odio e amore/fallimenti e vittorie nei confronti di un attore che ha sempre dato l'impressione di avere un talento particolare nell'inimicarsi i pareri della critica che, a sua volta, gli ha spesso riservato il fondo di un oceano viscoso e particolarmente oscuro difficile da risalire. Come non provare affetto per quel mascellone dalla stazza titanica che incappava in film il più delle volte dalla discutibile qualità? Sguardo perso nel vuoto e bocca semiaperta, Ben Affleck ha sempre dato l'impressione di mettercela tutta ma di non riuscire a raggiungere esiti soddisfacenti nell'arte della recitazione.
Fino alla rinascita del 2007 con
Gone baby gone e i successivi
The Town e
Argo che lo porta al secondo Oscar (
La legge della notte è stato un totale flop nel mondo, emblema chiarissimo dello sfortunato destino del suo autore). E giù con complimenti, processi di redenzione ed il «Ma quindi non era lui lo scemo della coppia Ben Affleck-Matt Damon!».
Tutto questo preambolo dalla parvenza inutile, in realtà, serve per giustificare l'affetto smisurato che chi scrive prova per il regista/attore americano ed un concetto che innerva il pezzo critico:
non esiste miglior Batman di Ben Affleck.
Nessuno meglio di lui è stato in grado di portare sulle sue spalle il peso di un progetto (il
DC
Extended Universe) nato nel 2013 con
Man of Steel (lo stesso anno in cui è stato dato l'annuncio che il Batman post-Christian Bale sarebbe stato interpretato proprio da Affleck) per rincorrere i successi al botteghino del Marvel Cinematic Universe (omologato su un unico tono ma, quanto meno, ben più solido sul versante produttivo rispetto al colpo di coda finale del team DC).
Zack Snyder è stato garante di un'operazione sbilenca, una corsa contro il tempo che ha dato linfa vitale ad un nuovo modo di concepire il blockbuster supereroistico, lontano dal mediocre appiattimento della Marvel, e più vicino ad una concezione autoriale dell'operazione: lo sguardo di Snyder è totalitario sui primi quattro film alla base dell'universo condiviso, rispecchia il suo modo di concepire il cinema come assalto multisensoriale allo spettatore volto a destrutturare l'epica classica di supereroe (e a mettere in scena persino la sua morte). Tutto è andato a buon fine? Non troppo. E quest'ultimo
Justice League, primo film totalmente corale del team DC, è la perfetta sintesi degli aspetti più problematici che pendono come una spada di Damocle sul suo capo nonché emblema di ciò che il futuro, molto probabilmente, ci riserverà.
La trama è più che mai lineare: dopo la morte di Superman, la Terra è presa di mira dalla più malvagia forza aliena di sempre, Steppenwolf, che approfitta della sua vulnerabilità provocata dalla fine del figlio di Krypton (la vicenda è lievemente più complessa e tira in ballo concetti quali speranza e paura ma, al momento, non è necessario approfondire). Batman, sempre più stanco del proprio ruolo, mette insieme una straordinaria Lega per contrastare il Male. Wonder Woman, Aquaman, The Flash e Cyborg si uniranno e combatteranno insieme in difesa dell'umanità.
Il progetto di Justice League è da tempo nell'occhio del ciclone: pochi mesi fa, Zack Snyder, a seguito di un lutto familiare, ha abbandonato la regia del film e ha lasciato la post-produzione e la regia delle riprese aggiuntive a Joss Whedon, celebre papà degli Avengers cinematografici (insomma, JL è passato al nemico). Il film, inizialmente, sarebbe dovuto constare di due parti, ridotte ad una, abbondantemente superiore alla durata di due ore, ulteriormente limate alle due ore. Abbandono di Snyder ed ingresso repentino di Whedon hanno complicato ulteriormente i piani, finendo per rendere Justice League un prodotto ben più omologato dei suoi fratelli maggiori al panorama del blockbuster contemporaneo e manchevole di una compattezza, nonostante la breve durata. Le atmosfere narrative cupe e la magniloquenza tematica sono state abbandonate per cercare un'ibridazione (i punti di vista di Snyder e Whedon sono diversi) che mina la tenuta complessiva del film.
Tuttavia, a maggior ragione, un film così martoriato, con un Ben Affleck in piena terapia riabilitativa
per dipendenza da alcool e reduce dal clamoroso insuccesso di
La legge della notte, che dice, insieme al suo Batman, di non essere più in grado di tenere le redini del gruppo (l'abisso della sua solitudine, del senso di colpa e del rancore non è mai stato così profondo), crea un incredibile
cortocircuito tra finzione e realtà ed attesta la perfezione dell'attore americano per quel ruolo.
E se il cuore del progetto DC risiedesse proprio nelle crepe che rendono la sua struttura traballante? Nella goffaggine quasi infantile che caratterizza l'ammissione di colpevolezza di Batman? Se fossero proprio i deragliamenti del tessuto produttivo a far tremare l'ossatura ma a mantenerla, allo stesso tempo, viva? Una clamorosa deflagrazione, nella sua imperfezione ben più perfetta di quella dei precedenti episodi, che porta ad una piena coincidenza tra vicende private e pubbliche e dota
Justice League di un cuore gigantesco (lo stesso che, a tempi alterni, abbatte Ben Affleck e gli dona nuova vita) difficilmente ravvisabile altrove.