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mercoledì 30 novembre 2016

SULLY

di Egidio Matinata

Un film di Clint Eastwood. Con Tom Hanks, Laura Linney, Anna Gunn, Aaron Eckhart, Sam Huntington.  Biopic/Drammatico. USA 2016. Durata: 95 Min.

Il 15 Gennaio 2009, il mondo assiste al "Miracolo sull'Hudson" quando il capitano Chesley "Sully" Sullenberger effettua un atterraggio di emergenza col suo aereo nelle acque gelide del fiume Hudson, salvando la vita a tutti i 155 passeggeri presenti a bordo. Tuttavia, anche se Sully viene elogiato dall'opinione pubblica e dai media, che considerano la sua un'impresa eroica senza precedenti, le autorità avviano delle indagini che minacciano di distruggere la sua reputazione e la sua carriera.

Ho quarant’anni di volo alle spalle, ma alla fine, sarò giudicato in base a 208 secondi.
Questa battuta riassume in parte ciò che viene raccontato nel film: lo straordinario che irrompe nell’ordinario, e il modo in cui da quel momento ci si relaziona ad esso.
Il capitano Sully, accolto all’unanimità come eroe dopo l’ammaraggio sull’Hudson, sarà costretto a fare i conti con se stesso e con coloro che avrebbero voluto trovare una crepa all’interno di una manovra perfetta, seppure fuori da ogni schema o regola manualistica.
Non a caso il film mostra più volte simulazioni di volo che si risolvono in falsi e tragici tentativi di atterraggio che membri dell’aeronautica (forse alla ricerca a tutti i costi di un colpevole) erano convinti fosse possibile.  
Giudici e boia (mascherati, in realtà) che però faranno l’errore di non tenere conto del fattore umano, altro tema portante della pellicola.

La storia, pur essendo straordinaria, viene raccontata facendo leva sull’umanità dei suoi protagonisti, senza voler premere il pedale della retorica, dell’enfasi o della spettacolarizzazione.
La sceneggiatura di Todd Komarnicki si lascia alle spalle qualunque schema da biopic classico per trovare una sua strada: la narrazione è semplice e diretta, ma non banale. La linea narrativa principale è perennemente interrotta da altre linee temporali e anche l’incidente viene decostruito più volte nell’arco dei novanta minuti. Tutto ciò non finisce per rendere il film frammentario, ma in realtà lo porta verso una coesione e concretezza maggiore.
E il volto che poteva dar vita ad una storia così profondamente umana non poteva che essere quello di Tom Hanks, il quale ha già dato modo nella sua carriera (anche recentemente con Captain Phillips) di poter impersonare l’everyman in una situazione fuori dall’ordinario.

Con Sully, Clint Eastwood si riconferma (come se ce ne fosse bisogno) uno dei più grandi maestri di cinema viventi. Il suo approccio alla materia trattata e l’opera in sé combaciano alla perfezione. Il film infatti è sobrio, sincero, diretto e senza sbavature.
Volendo, si potrebbe fare un paragone con Snowden di Oliver Stone, un buon film (con al centro un protagonista più problematico) che però eccede nel suo schierarsi da una parte per giungere ad una sorta di “beatificazione”.
Eastwood si limita a raccontare meravigliosamente bene, senza lasciare da parte le paure che questa storia evoca, ma con eleganza e pudore.

mercoledì 23 novembre 2016

IL SEGRETO DI PULCINELLA

di Matteo Marescalco

Segreto di Pulcinella è un'espressione idiomatica della lingua italiana: viene usata per indicare un segreto che non è più tale, qualcosa che è diventato di pubblico dominio nonostante i tentativi di tenerlo nascosto da parte di chi lo detiene. Quest'espressione, per certi versi, è molto simile ad un altro idiomatismo, questa volta, però, tipico della lingua inglese: elefante nella stanza indica una verità che, per quanto ovvia e appariscente, viene minimizzata o addirittura ignorata. L'idea alla base dell'espressione è che un elefante all'interno di una stanza sarebbe impossibile da non notare. Le persone presenti, quindi, fanno finta di non vederlo in modo tale da evitare di affrontare un problema serio. 

Mary Griffo, co-fondatrice della Socialmovie s.r.l., società di produzioni e distribuzioni cinematografiche, ha sfruttato l'espressione Segreto di Pulcinella come titolo per il documentario incentrato sulla Terra dei Fuochi che ha scritto e diretto. Il lavoro della Griffo inizia con una serie di totali sulla città di Napoli: una terrazza affacciata sul panorama, le case, il golfo, il porto ed il Vesuvio sullo sfondo, con il sole che si appresta a sorgere e a svegliare un'intera città dal suo profondo sonno notturno. Ma il vero incipit del documentario è affidato a Bruno Leone, che da quasi vent'anni indossa 'o cammesone di Pulcinella e prolunga la tradizione che risale a girovaghi e saltimbanchi medievali. Leone è il burattinaio che fa da collante ai diversi punti di vista che il documentario presenta e da raccordo alle varie interviste. In un certo senso, è l'anima stessa di Napoli, rappresentata da una maschera della commedia dell'arte, per l'appunto quella di Pulcinella, a farsi inserto diegetico e a raccontare la storia della propria passione. 

C'era una volta un re, anzi no. C'era una volta un regno chiamato Campania Felix, dove la terra era fertile e bellissima e la gente aveva tanta roba buona da mangiare ed era felice. Uno degli aspetti più riusciti del documentario risiede nell'atmosfera fiabesca che lo caratterizza. Sarà proprio il burattino Pulcinella ad anticipare le storie che poi i personaggi intervistati raccontano, traghettando lo spettatore in una Campania Felix, quasi come fosse un luogo onirico, ormai lontano dall'attuale realtà dei fatti. Nella gran parte dei siti compresa tra la provincia di Napoli e quella di Caserta si consuma uno dei delitti ambientali più atroci: lo sversamento illegale di rifiuti industriali tossici che vengono poi dati alle fiamme per occultare le prove e che provocano anche un notevole livello di inquinamento atmosferico. Per tale ragione, il tasso di malattie tumorali che colpiscono gli abitanti della zona, è pericolosamente elevato. Secondo una ricerca condotta dall'Istituto superiore di sanità ci sarebbe un eccesso di mortalità e di ospedalizzazione nella popolazione residente nella Terra dei Fuochi per diverse patologie tumorali di cui soffrono anche bambini ricoverati nel primo anno di vita. Del problema della Terra dei Fuochi si parla da anni attraverso servizi e reportage che hanno descritto il biocidio locale. L'approccio di Mary Griffo alla materia trattata è differente: l'obiettivo della regista non è unicamente la realizzazione di un documentario-denuncia ma soprattutto di un lavoro che fosse, a tutti gli effetti, specchio della condizione umana, della fragilità dell'essere umano che vive quotidianamente in questo territorio di 1076 km2. 

L'apparizione di Bruno Leone e di Pulcinella, di Carmine Schiavone e di don Maurizio Patriciello, simbolo della lotta contro la distruzione del territorio campano, rappresentano il completamento di un quadro di cui madri che hanno perso i loro bambini e ragazzi e ragazze spaventati dal cibo che mangiano sono tante altre tessere fondamentali. Fino all'ispettore superiore della Polizia di Stato Roberto Mancini che, come un moderno Don Quijote della Terra dei Fuochi, ha provato a lottare contro i mulini a vento che massacrano il territorio campano. E che pochi altri Sancho Panza sono disposti a riconoscere. 

Gli ultimi dati non sono incoraggianti, i controlli e i pattugliamenti si sono ridotti progressivamente, le denunce sono crollate e il numero di roghi nel casertano è aumentato del 10% nel 2016. Insomma, la Terra dei Fuochi è ben lontana dall'immagine iniziale dell'alba che sfiora dolcemente la città di Napoli. Che sia solo un'utopia? No, finchè si lotta per assicurare un futuro migliore ai giovani e finchè la voglia di raccontare continui a tramandare senza avere paura e nascondere ma mettendo a nudo eventuali elefanti nelle stanze. 

*pubblicato per Cinemonitor.it

martedì 22 novembre 2016

MISS PEREGRINE-LA CASA DEI RAGAZZI SPECIALI. NUOVI SPOT-TV!

di Matteo Marescalco

L'ultimo film di Tim Burton, Miss Peregrine-La casa dei ragazzi speciali, sbarcherà nei cinema di tutta Italia il 15 Dicembre, dopo una serie di anteprime in sale selezionate l'8 Dicembre. Tratto dal romanzo La casa per bambini speciali di Miss Peregrine di Ransom Riggs, il film è incentrato sulla figura dell'adolescente Jacob Portman che, in seguito alla tragica morte dell'amato nonno, si reca in una piccola isola del Galles, alla ricerca della casa di Miss Peregrine, sulla quale il nonno aveva lasciato indizi misteriosi attraverso mondi e tempi alternativi. Il mistero si fa sempre più fitto man mano che Jake entra a conoscenza degli abitanti della casa, dotati di poteri speciali e di pericolosi nemici. Sarà compito suo e della sua "peculiarità" salvare i nuovi amici. 

Il cast del film annovera interpreti quali Eva Green (che aveva già lavorato con Tim Burton in Dark Shadows), Asa Butterfield (già visto in Hugo di Martin Scorsese ed alla sua prima collaborazione con il regista di Burbank), Judi Dench, Terence Stamp, Rupert Everett e Samuel L. Jackson

Il film, in uscita negli Stati Uniti il 30 Settembre, ha già incassato ottimi pareri da parte della critica oltreoceano. In occasione dell'uscita italiana, anche il regista Tim Burton sarà presente a Roma per presentare Miss Peregrine-La casa dei ragazzi speciali e per una conferenza con la stampa specializzata. 

Di seguito, vi sveliamo in anteprima, grazie a 20th Century Fox Italia che si occupa della distribuzione del film, tre nuovi spot TV del film, in attesa del 15 Dicembre! 
I restanti due spot sono disponibili ai seguenti link: 



venerdì 18 novembre 2016

LA MIA VITA DA ZUCCHINA

di Matteo Marescalco

In un contesto in cui la maggior parte dei film di animazione è realizzato tramite tecnologie digitali, un prodotto in stop-motion viene visto sempre con notevole sorpresa. Arriverà dal 2 Dicembre al cinema, distribuito da Teodora Film, La mia vita da zucchina, diretto da Claude Barras e scritto da Celine Sciamma (che ha tratto la sceneggiatura dal libro Autobiografia di una Zucchina di Gilles Paris), presentato trionfalmente alla Quinzaine des Realisateurs di Cannes.
Protagonista del film è un bambino di 9 anni, soprannominato Zucchina, che dopo la morte della madre viene mandato a vivere in una casa famiglia: grazie all'amicizia di un gruppo di coetanei, tra cui spicca Camille, Zucchina riuscirà a superare ogni difficoltà, abbracciando infine una nuova vita. 

La mia vita da Zucchina, come giù detto, è un film d'animazione in stop-motion, una tecnica simile a quella dell'animazione tradizionale, in cui però i disegni sono sostituiti da pupazzi, filmati fotogramma per fotogramma. Dal momento che i pupazzi restano immobili quando vengono filmati, la fluidità dei movimenti e le sottigliezze espressive sono determinati dalla qualità dell'animazione. Il diretto dell'animazione del film è Kim Keukeleire, già animatore di alcuni dei capolavori in stop-motion degli ultimi anni, da Galline in fuga degli Studi Aarman a Fantastic Mr Fox di Wes Anderson, fino ancora a Frankenweenie di Tim Burton. Questo tipo di animazione così artigianale si ricollega direttamente ai primordi del cinema, al lavoro manuale sulla pellicola ed alla magia legata alla possibilità di creare sogni con le proprie mani. 

Per questo semplice ed apparentemente motivo, La mia vita da zucchina non fatica a scaldare l'animo dello spettatore, cui contribuisce la vicenda portata in scena, racconto di formazione che spazia da I 400 colpi a Belle e Sebastien. La grafica del film è, al tempo stesso, realistica nella delineazione degli ambienti e stilizzata nelle espressioni dei personaggi: i loro occhi enormi, spalancati sul mondo, danno un contributo essenziale all'empatia e alle emozioni. E' la stessa forma del film che contribuisce ad ancorare la narrazione alla realtà e a non slegarla in modo eccessivo dal mondo che vuole raccontare: nel cinema, spesso, gli orfanotrofi sono rappresentati come ambienti opprimenti, in contrapposizione al mondo esterno, sinonimo di libertà. Nell'orfanotrofio in cui trascorrerà molti suoi giorni, Zucchina ha modo di conoscere altri bambini vittime di violenze e di soprusi, che riescono tuttavia a reagire grazie alla forza dei sentimenti e della loro amicizia. Tutto ciò è raccontato da Barras e Sciamma senza cadere nel pietismo e nel politically correct ma infrangendo diversi tabù, tra cui quelli sul sesso e sulle vicende raccontate dal punto di vista dei più piccoli (che spesso fa rima con semplicismo). Insomma, il nostro consiglio è di non perdere assolutamente questo piccolo gioiellino di animazione. Malinconico, triste e commovente. Ma carico della speranza che sa dare soltanto l'amicizia.

mercoledì 16 novembre 2016

ANIMALI FANTASTICI E DOVE TROVARLI

di Matteo Marescalco

Il 16 Novembre 2001 arrivava nelle sale inglesi ed americane il primo episodio della saga di Harry Potter, che si sarebbe rivelata una delle più redditizie di sempre, tratta dal fenomeno editoriale creato da J.K. Rowling. La storia della letteratura per ragazzi si accingeva a cambiare per sempre. Chi ha avuto la fortuna di crescere con il magico mondo di Harry Potter e dei suoi amici, ha inevitabilmente fatto una serie di esperienze legate all'immaginazione che chi non ha letto i sette libri non ha mai provato.

Il 17 Novembre, a qualche anno di distanza dalla fine della saga cinematografica, arriverà al cinema Animali Fantastici e Dove Trovarli, spin-off del mondo di Harry Potter, creato dalla stessa penna che ha partorito l'universo del maghetto inglese e diretto da David Yates, autore degli ultimi quattro film a lui dedicati. Animali fantastici sposta l'attenzione verso l'altra metà del globo. La vicenda è ambientata negli Stati Uniti: il magico mondo newyorkese degli anni '20 è minacciato da pericoli sempre crescenti. Qualcosa di misterioso sta seminando la distruzione per le strade, rischiando di far uscire allo scoperto la comunità magica dinanzi ai No-Mag (il termine americano per Babbani). Nel frattempo, il potente ed oscuro mago Gellert Grindelwald, dopo aver messo in subbuglio l'Europa, è misteriosamente svanito nel nulla. Ignaro della difficile situazione, Newt Scamander arriva in  USA, alla fine di un viaggio che lo ha portato in giro per il mondo alla ricerca e al salvataggio di molte creature magiche, che porta continuamente con sè all'interno di un borsone dalle dimensioni insospettabili. A New York, ha modo di conoscere Jacob Kowalski, No-Mag che vivrà magiche avventure al fianco dell'eroe, l'ex Auror Tina Goldstein e la sorella Queenie. Tutti e quattro daranno vita ad un gruppo che affronterà le forze oscure che tormentano la città di New York. 

Era parecchio atteso dai fan di tutto il mondo il ritorno in sala dell'universo di Harry Potter e il debutto della Rowling come sceneggiatrice, ruolo che, tutto sommato, ha svolto con maestria ed attenzione. Ciò che può definirsi più soddisfacente riguarda, senza dubbio, la delineazione dei personaggi di contorno e la varietà delle situazioni descritte. La narrazione regge, nel suo essere a sè stante rispetto al mondo inglese di Harry Potter, è autoconclusiva ma getta comunque una serie di appigli per i quattro futuri episodi del brand Animali fantastici: vengono nominati Hogwarts, Albus Silente e una componente della famiglia Lestrange.  L'apparato visivo è ricco e restituisce l'ampiezza dell'elemento legato all'immagine Nella scrittura della Rowling. Come già detto, un plauso lo meritano i personaggi secondari: Jacob, Tina e Queenie sono più di meri comprimari. Sono degli outsider che si collocano sul solco scavato da Ron Weasley, Hermione Granger e gli altri perdenti che, nella saga di Harry Potter, grazie alla magia ma soprattutto all'amicizia e ai sentimenti, hanno la possibilità di riscattarsi. Risulta essere poco digeribile il personaggio di Newt Scamander, protagonista della vicenda incarnato da Eddie Redmayne, completamente privo di carisma e, per fortuna, relegato spesso ai margini della narrazione. Anche il cattivo è spesso sotto le righe e viene tolto di mezzo in un modo fin troppo ridicolo.

Il film nel complesso funziona, nonostante alcuni difetti nella delineazione dei suoi personaggi principali. Non ci resta che attendere gli ulteriori sviluppi cui incorrerà questo mondo magico per avere una visione totale di quest'operazione commerciale. 

lunedì 14 novembre 2016

QUEL BRAVO RAGAZZO

di Emanuele Paglialonga


-La tv è come la mafia: non se ne esce se non da morti-, sentenziava laconico in Boris-Il film René Ferretti (aka Francesco Pannofino), regista di fiction orride, quando Sergio gli proponeva di girare un film per il grande schermo. Non ci credeva minimamente che avrebbe funzionato, tant’è che La casta divenne Natale con la casta
Come da tradizione, tutti i comici televisivi italiani finiscono per compiere il passo verso il grande schermo. Per alcuni è andata bene (Aldo, Giovanni e Giacomo, Ficarra e Picone e ovviamente Checco Zalone), per altri meno (I Soliti Idioti, Pio e Amedeo, per citare i casi più recenti).  
Per quanto divertenti sembrino in televisione, il film a soggetto è un’altra cosa, e prima di tutto bisogna scriverlo bene. Se regge nella sua interezza si potranno inserire tutti i lazzi e le trovate comiche che si ritengono necessarie. Se non regge, diventa mediocre e fastidioso. 

Con Quel bravo ragazzo è il turno di  Herbert Ballerina, al secolo Luigi Luciano: la spalla secolare di Maccio Capatonda si affranca e diventa protagonista. Il plot è piuttosto semplice: un boss mafioso vicino alla morte scopre di avere un figlio di trentacinque anni e il suo ultimo desiderio è che a lui venga affidato il suo impero mafioso, ignorando che il giovane, Leone (Herbert Ballerina appunto), sia un ingenuo e goffo combinaguai. 
Leone non è quindi evidentemente all’altezza dell’incarico affidatogli. E Herbert Ballerina invece è in grado di reggere un film da protagonista? Assolutamente sì. La sua è ormai a tutti gli effetti una maschera: se quella di Zalone è diventata quella dell’ignorante e dello scemo che non vuole andare in guerra, quella di Herbert Ballerina è invece quello scemo che nemmeno sa cos’è la guerra, dell’ingenuo di buonissimo cuore che crederà a qualsiasi bugia gli venga raccontata (vedi il suo Fernandello nella sitcom Infinity Mariottide). 

Pur essendo la storia assai semplice, il film è onesto, privo di qualsiasi tipo di volgarità, banalità e ipocrisia: Quel bravo ragazzo rispetta lo spettatore e si colloca nel nobilissimo settore del cazzeggio fatto con professionalità. I fan (ma anche non i fan) non rimarranno delusi e ne usciranno senz’altro divertiti. Senza impegno, ma neanche con superficialità.
Dietro ogni battuta “stupida” e surreale di Maccio Capatonda e Herbert Ballerina c’è l’intelligenza di Marcello Macchia e Luigi Luciano, così come dietro questo film c’è il buon lavoro svolto in fase di sceneggiatura da Luciano assieme a Gianluca Ansanelli, Enrico Lando, Andrea Agnello e Ciro Zecca, e in fase di regia da Enrico Lando. 

In un inizio di stagione non scoppiettante dal punto di vista degli incassi per il cinema italiano, Quel bravo ragazzo potrebbe rivelarsi un’interessante sorpresa, come accadde nel 2009 per Cado dalle nubi, il film che lanciò Zalone sul grande schermo. L’appuntamento è per giovedì 17 novembre.
Quando la spalla diventa protagonista (e funziona).

giovedì 10 novembre 2016

COME DIVENTARE GRANDI NONOSTANTE I GENITORI

di Matteo Marescalco

Se c'è un genere cinematografico che in Italia difficilmente si produce ed arriva in sala, si tratta, senza dubbio, della categoria del film per adolescenti. Alla decima edizione della Festa del Cinema di Roma, è stato presentato Microbo e Gasolio di Michel Gondry. Quest'anno, invece, abbiamo avuto l'occasione di vedere Goodbye Berlin di Fatih Akin. Quindi, mi riferisco a due prodotti rigorosamente young-adult (rivolti ad un ben preciso target, quello compreso tra i 14 e i 20 anni di età, all'incirca) diretti da registi di spicco dei loro rispettivi Paesi (Francia e Germania/Turchia), autori di film che hanno ottenuto, negli anni, ampio consenso critico.
I recenti Un bacio di Ivan Cotroneo e L'estate addosso di Gabriele Muccino hanno provato a colmare questa carenza produttiva nel cinema italiano, con un'ulteriore campagna di promozione (almeno nel caso del primo film) lungo tutta la penisola italiana. 

Come diventare grandi nonostante i genitori ha nel brand di Alex&Co., sit-com targata Disney Channel, il proprio punto di partenza, da cui si sono abilmente smarcati, nello sviluppo della narrazione, lo sceneggiatore Gennaro Nunziante ed il regista Luca Lucini, che torna al genere young-adult dopo Tre metri sopra il cielo. Il film ruota attorno al classico scontro genitori-figli: in un liceo di Milano arriva una nuova preside (Margherita Buy) che decide di non aderire al concorso scolastico nazionale per band. Il gruppo di Alex, con la passione sfrenata per la musica, subisce un duro colpo. Anche i genitori corrono a protestare ma non ricevono alcuna risposta dalla preside. Continuare a dare libero sfogo alla propria passione o concentrarsi unicamente sugli studi scolastici? I genitori consigliano ai ragazzi di sottostare alla decisione della preside ma i giovani, con orgoglio, decidono di iscriversi ugualmente al concorso, sfidando scuola e genitori. In questo loro cammino, conosceranno la musica, approfondiranno il loro rapporto d'amicizia ed incontreranno anche un celebre musicista e produttore internazionale interpretato da Matthew Modine. 

Se l'idea di creare a tavolino un prodotto del genere (senza finanziamenti pubblici) per un target di adolescenti è lodevole, il risultato finale è un po' problematico. Il peso di una recitazione fittizia si scaglia contro i giovani protagonisti, artificiosi e patinati al limite del sopportabile, anche nelle sequenze in cui dovrebbero semplicemente interpretare se stessi. Non è soltanto la recitazione a causare una sensazione del genere. Per tutta la durata del lungometraggio, infatti, è tutto fin troppo pulito: dalla scuola che gli Alex&Co. frequentano fino alle canzonette che cantano; o, ancora, dalle abitazioni dei genitori fino alle passioni sentimentali che nascono tra i ragazzi. L'anestetizzazione totale delle sensazioni è il problema principale di cui soffre Come diventare grandi nonostante i genitori. I ragazzi protagonisti non sfiorano minimamente le vette di realismo e "sporcizia" raggiunte dai loro coetanei di Sing Street di John Carney, presentato all'ultima edizione della Festa del Cinema di Roma, rimanendo in sospeso tra le figurine da almanacco e gli "artisti" da talent-show. Il twist-ending finale, poi, non riesce ad evitare l'immancabile morale che precipita il prodotto in un inutile didascalismo. 
Peccato. Non è il caso di stroncare un film del genere ma il paragone con Sing Street, Microbo e Gasolio e Goodbye Berlin sorge spontaneo e non fa bene al film di Lucini e Nunziante. Ed è inevitabile rintracciare una falsità di fondo che ne inficia il risultato finale. 

lunedì 7 novembre 2016

FAI BEI SOGNI

di Matteo Marescalco

Nella prima parte di Fai bei sogni, ultimo film di Marco Bellocchio, è sorprendente la quantità di inquadrature che recano, ai propri margini o sullo sfondo, icone religiose. Ciò è segno di una cura e di un'attenzione formale nei confronti dell'immagine che risulta essere costantemente elaborata e mai lasciata al caso, sinonimo indelebile di un lavoro pittorico che commistiona tematiche sociali a bellezza di natura eidetica (considerando la radice del termine). Non c'è un'immagine che scampi ad una certa tensione etica, così come il protagonista del film, da bambino e dopo la morte della madre, cerca il Dio che gliel'ha sottratta, identificandolo nella luce che, probabilmente, è la caratteristica che più manca al film tratto dal romanzo di Massimo Gramellini. Le atmosfere sono cupe, la religiosità opprime le immagini che, tuttavia, restano grigiastre, laiche, concentrate sugli esseri umani che le popolano, travestiti da animali sociali ma che, più volte, vengono smascherati dal protagonista, interpretato da un intenso Valerio Mastandrea. Dalla scena del funerale che sancisce la morte della madre e di una modalità di concepire la vita, vittima anch'essa di una buona dose di omologazione sociale, fino al luciferino uomo ricco interpretato da Fabrizio Gifuni, la cui integrità dura pochissimi minuti.

La Storia deflagra in mille schegge in Fai bei sogni, accostandosi all'intimismo della vicenda vissuta dai suoi protagonisti. Scorre lungo gli argini dei mezzi di comunicazione, come fosse un semplice riflesso, venendo sovente attraversata e realmente vissuta nell'ambito di particolari plot-point. Frammenti di eventi e personaggi misteriosi appaiono e si congiungono, vengono restituiti dalle finestre-sul-mondo, si riflettono vicendevolmente e finiscono per mescolarsi, come materia vivente e plasmabile. Quest'ultimo film di Bellocchio è una giostra di fantasmi i cui numi tutelari sono Belfagor e Nosferatu, creature della notte, volti iconici e macchinici, che rappresentano la totale assenza umana ma che si ergono a consiglieri del piccolo Massimo. Il cinema stesso, con le sue ombre e le sue apparizioni, vive nella narrazione seriale e nel racconto spezzato di Fai bei sogni che applica un costante ridimensionamento dell'ambiente familiare. Dall'intero appartamento ad un semplice cerchio in cui lasciarsi andare, per una volta, e ballare, rivivendo emozioni mai più provate dopo la morte della madre. Fino ad una scatola di ricordi in cui rinchiudersi, nella placidità di un sogno, ed evadere. E fuggire la transitorietà della vita. Che è un po' quello che si fa al cinema, dove si sogna di svegliarsi per le due ore del film e di fuggire l'assenza che ci perseguita giorno dopo giorno.

venerdì 4 novembre 2016

CHE VUOI CHE SIA

di Matteo Marescalco

Ne è passato di tempo da quando un giovane Edoardo Leo presentava alla seconda edizione dell'Ortigia Film Fest (allora, Avamposto Maniace) il suo primo lungometraggio da regista, Diciotto anni dopo. Imberbe, sguardo insicuro ma con tanta voglia di fare, il giovane attore, svincolatosi dalla televisione, si apprestava a diventare uno dei volti di punta della nuova commedia italiana, passando all'altro lato della barricata. Sei anni dopo, Leo ha raggiunto una maturità artistica e una consapevolezza del proprio personaggio che lo dotano di un carisma del tutto particolare. Da Diciotto anni dopo a Che vuoi che sia, l'intervallo di attesa tra film e film si è progressivamente ridotto, passando da tre anni a due ed infine ad uno solo. Segno del fatto che Leo è sempre più importante per l'industria cinematografica italiana. 

In modo molto simile a Smetto quando voglio (e ad altri film interpretati da Edoardo Leo), Che vuoi che sia ha il suo punto di partenza nella relazione tra i personaggi principali, Claudio e Anna. Lui è ingegnere informatico, lei insegnante precaria. I due continuano a rimandare il progetto di un figlio nell'attesa che la loro situazione economica migliori. Le speranze della coppia sono riposte in una applicazione web ideata da Claudio, ma il crowdfunding lanciato per svilupparla non dà i risultati auspicati. Una sera, dopo alcuni eccessi alcolici ed in preda all'amarezza, Claudio lancia una sfida al popolo di Internet: nel caso in cui il crowdfunding raggiunga la cifra necessaria (20mila euro), lui e Anna registreranno un video hard. Inaspettatamente, la provocazione ha un grande successo e le offerte raggiungono la cifra di 150mila euro. Che fare? Rinunciare e continuare a barcamenarsi nella speranza che la situazione migliori o trasformare l'errore di una notte in una trovata redditizia, pur mettendo in vendita la propria intimità, con l'unico obiettivo di mantenere la propria futura famiglia?

In questo suo ultimo film da regista, c'è tutto del personaggio-tipo che Leo ha interpretato negli ultimi anni. Un giovane laureato di classe media, nè indigente nè benestante, che fatica ad andare avanti ma prova a realizzare i propri sogni, con mezzi legali e non. Lo spettro di Smetto quando voglio aleggia attorno a Che vuoi che sia, dotato, tuttavia, di un nucleo più amaro. In conferenza, il regista ed attore ha parlato del suo tentativo di interpretare personaggi antipatici e di svincolarsi dal ragazzo della porta accanto. -Ho una forte passione per i grandi stronzi della commedia all'italiana, che volevano mostrarsi antipatici. Per me diventa una missione prendere un personaggio orribile e trasformarlo in simpatico, per spingere il pubblico a provare empatia nei suoi confronti. Credo che la commedia debba disturbare e il primo rimprovero che mi faccio è di non essere eccessivamente cattivo nei film che interpreto-. 

Un problema che emerge, al termine della visione del film, riguarda gli eccessivi elementi che vengono tirati in ballo, dalla relazione di coppia al rapporto che ognuno di noi ha con la tecnologia, dalle modalità attraverso le quali l'ecosistema digitale ha rivoluzionato il mondo fino ancora al voyeurismo e all'incursione del pubblico nello spazio privato. La carne al fuoco è troppa e Leo, da autore intelligente qual è, pecca di presunzione, finendo per innervare la sua commedia agrodolce di venature eccessivamente intellettualistiche e superficiali. Che vuoi che sia fallisce quando prova a portare in scena una critica sociale senza averne la forza e la profondità necessarie. Peccato, il mood di fondo è giusto ma le ramificazioni finiscono per intaccarne lo spirito. 

mercoledì 2 novembre 2016

OASIS: SUPERSONIC

di Matteo Marescalco

«Credo che il concerto di Knewborth sia stato l'ultimo grande evento pubblico prima della diffusione capillare di Internet. Da quel momento in poi, i concerti sono cambiati, tutti hanno potuto accedere alle canzoni tramite Internet, niente è più stato come prima». Le parole di Noel Gallagher collocate all'inizio e alla fine di questo documentario dedicato alla rapida ascesa degli Oasis chiudono il cerchio (si parte da Knewborth e a Knewborth si ritorna) dell'omaggio alla band inglese ma dimostrano anche che l'intento di Mat Whitecross lo supera, spingendosi oltre. 

Nell'Agosto 1996, gli Oasis, band che fino a tre anni prima suonava nei sobborghi inglesi, fu protagonista di qualcosa mai visto prima. I concerti a Knewborth con un pubblico di 250.000 persone (e 2 milioni e mezzo di persone alla ricerca dei biglietti) furono gli eventi più seguiti e desiderati del periodo. Al culmine del successo, gli Oasis erano diventati l'unica band al mondo che contava, senza alcun concorrente che potesse minimamente minacciare il successo dei fratelli Gallagher. Ma cosa si nasconde dietro questa ascesa planetaria?

L'intero documentario è costruito su materiale di repertorio, con i due cantanti e i restanti membri della band che intervengono tramite le loro voci. Il mancato consenso di Liam e Noel a farsi intervistare insieme ha spinto i realizzatori del film ad optare per le voice-over che danno agli spettatori la sensazione di un dialogo a due. La prima parte del documentario è, senza dubbio, la più preziosa e la più emozionante, incentrata com'è sulla nascita della band dominata dai Caino ed Abele della musica. Si respira tutta l'aria delle zone popolari di Manchester da cui provengono i due fratelli, sensazione che è ulteriormente stimolata dalla scelta di inserire, durante l'arco narrativo, irriverenti animazioni che restano fedeli allo spirito del gruppo. I sostanziosi 120 minuti del documentario ruotano attorno al rapporto tra Liam e Noel, riuscendo a sfruttare i litigi e le riappacificazioni tra i due come plot-point della narrazione. E così via fino al fallimentare concerto del 1994 al Whisky A Go Go di Hollywood, durante il quale Noel ha lasciato un pezzo di sè su quel palco, quella sera. Ancora il successo in Giappone e la fama dilagante in Inghilterra. Eventi che non scalfiscono minimamente la voglia del gruppo di fare buona musica per i fan piuttosto che musica elegante per i critici e di lanciare messaggi buonisti. I due fratelli sono troppo scomodi per vivere insieme nello stesso gruppo, vittime di un'infanzia caratterizzata dall'abbandono del padre, che picchiava la madre, e dalla chiusura in se stesso di Noel che, a differenza di Liam, preferiva vivere in solitudine. Ne deriva un ritratto degli Oasis come di un gruppo caratterizzato da due anime opposte. Le stesse che, in fin dei conti, animano i sistemi analogici e quelli digitali. Forse, risulta essere un po' semplicistica l'accusa finale nei confronti delle tecnologie digitali che portano la musica dappertutto e dell'industria musicale, cui viene imputato lo schiacciamento di sound posteriore a Knewborth e la commercializzazione della band, ridotta sempre più a mero brand. 

Ma questi piccoli difetti non si rimproverano a Whitecross. La wilderness, il titanismo e la romantica follia dei fratelli Gallagher sono tutti stati restituiti dal documentario e lievi problemi nella loro gestione non fanno altro che riflettere il comportamento e il carattere degli Oasis, eccessivi e sfrenati ma sempre consapevoli del fatto che la loro buona musica sarebbe rimasta a vita e che nulla sia più bello di un concerto, di una pinta di birra e di una bella ragazza. Le ragioni per cui hanno iniziato a fare musica.