di Matteo Marescalco
Nella
storia del cinema, i rapporti con il mondo della letteratura non sono
mai stati relegati a momenti collaterali e di scarso interesse. Anzi,
nei tempi in cui il cinema si affermava come grande strumento di
intrattenimento di massa e cercava di essere riconosciuto come arte,
la trasposizione di classici letterari era uno strumento utilizzato
che, da un lato, segnava il suo ruolo di subordinazione nei confronti
della letteratura ma che, dall'altro, gli consentiva, come detto, di
mirare ad un certo riconoscimento formale.
Così
come sono molto numerosi i casi di trasposizione letteraria, allo
stesso modo, i biopic su scrittori e letterati (e i film che
incastrano biopic e trasposizioni come, ad esempio, Shakespeare in
Love) si sono affermati come un genere a sé stante, in cui The end
of the tour si inserisce prepotentemente. Questo film di James
Ponsoldt è tratto da Come diventare se stessi: un viaggio con
David Foster Wallace di David
Lipski, cronaca degli ultimi giorni del tour di presentazione negli
Stati Uniti di Infinite Jest.
1996,
lo scrittore David Foster Wallace concede a David Lipski di Rolling
Stone un'intervista di cinque giorni. Lipski non si occupa solo di
giornalismo ma anche di narrativa e nutre una serie di pregiudizi
ideologici nei confronti dell'autore americano. Ma anche una buona
dose di sana invidia per la sua genialità. La convivenza tra i due
trasporta lo spettatore nel mondo privato di Wallace, quanto più
distante possibile dall'idea di scrittore maledetto dedito ad una
vita dissoluta. Anche se una serie di incertezze Wallace le portava
con sé: al punto tale da morire suicida nel 2008.
The
end of the tour è un malinconico viaggio in luoghi intimi che
stentiamo ad abbandonare dopo le due ore del lungometraggio, una
scoperta del lato più umano di sé, un dialogo, fatto di botte e
risposte, sulla vita e sulla cultura americana, sulle dipendenze e
sulle manie di Wallace, sulle sue debolezze e fragilità.
Ponsoldt
sfrutta il contrasto tra il gelido panorama esterno, costantemente
innevato, ed il tiepido cantuccio domestico in cui viveva Wallace per
delineare lo scontro tra due caratteri e due vite agli antipodi ma
che finiscono per specchiarsi. Debitore nei confronti della scuola
del Sundance, che tanti talenti ha sfornato, nel corso degli anni, ma
che, ultimamente, rischia di chiudersi in una sorta di
autoreferenzialità che ne mina la freschezza dello stile, il regista
costruisce un affresco sensibile che ha il suo centro focale nella
partita a scacchi tra due differenti solitudini e nella critica al
materialismo americano che ha tanto caratterizzato la scrittura di
Wallace.
-Lo
scrittore deve vivere poco. Piuttosto, deve saper osservare. Siamo,
più che altro, dei voyeur. Lo scrittore non è quello che balla al
centro della pista, ma più l'osservatore ai margini, quello che nota
le dinamiche immerso in un timido silenzio-.
Non
perdete questo delicato ritratto di uno scrittore ai margini della
pista.
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