di Matteo Marescalco
Qual è il modo più appropriato, per iniziare a
parlare di un film di M. Night Shyamalan, di un malinconico "C'era
una volta...", che tanto si addice al regista indiano adottato
dalla Pennsylvania e alle sue storie di fantasmi?
Fantasmi
dell'immaginario e della coscienza. Segni di un tempo che fu, di
amori e di rapporti interrotti, tornati a galla per rimarginare
ferite ancora aperte. Fantasmi come storie che popolano la vita di
tutti. Ebbene. C'era una volta un ragazzino indiano, nato nel 1970. Facilmente immaginabile, quindi, che sia cresciuto, anche lui, con i film che hanno svezzato un'intera generazione, diretti da quei Marty, Steve e George che, a detta di Brian De Palma nel documentario dedicatogli da Noah Baumbach e Jake Paltrow, hanno fatto qualcosa di straordinario che non si ripeterà, animando, in quegli anni, i cambiamenti portati avanti dalla New Hollywood.
Dopo aver scritto e diretto Praying with anger e Ad occhi aperti, Shyamalan si afferma nel mondo del cinema con Il sesto senso, che ottiene un successo planetario. In questo dramma familiare, che prende come pretesto una ghost story, si impone il marchio di fabbrica che rende immediatamente riconoscibili i film del regista indiano: il twist ending. Si tratta di una rivelazione che, collocata a ridosso del finale del film, ne ribalta completamente la prospettiva e getta una luce differente su quanto visto.
La carriera
decolla con Unbreakable, atipico superhero movie, in cui ritorna
Bruce Willis nei panni di un personaggio-Edipo, foriero di ferite
morali e fisiche, segni di colpe ancestrali mai espiate. Oltre ad una
spiccata trattazione cromatica che spinge Shyamalan ad associare
singoli colori a particolari indizi sulla risoluzione dell'enigma,
iniziano ad emergere due fondamentali caratteristiche che lo rendono
uno dei maggiori storyteller del cinema americano contemporaneo. I
suoi film vivono degli atti di fede dei suoi personaggi (e,
soprattutto, dei suoi spettatori), adulti irrisolti che si trovano ad
affrontare eventi irrazionali esperibili solo tramite la loro parte
più infantile: la purezza e il candore dello sguardo convogliati
verso un estremo bisogno di raccontare storie. Ecco il primo
elemento: l'importanza, quasi fisiologica, di ordinare in forma di
racconto la propria esperienza vitale. Necessità che è, sempre,
filtrata da un diaframma che agisce da mediazione allo sguardo e
rende difficile l'esperienza della fede, sia esso il vetro (che rende
debole Samuel L. Jackson e cieco Bruce Willis in Unbreakable) o una
finestra (o un confine) che protegge dal mondo esterno o ancora un genere, sulla base del
quale modellare (ingabbiare) l'universo in fieri delle storie (il
critico di Lady in the water che crede che tutto sia, ormai, stato
detto). Ed ecco arrivare Signs e The Village ad incrementare ulteriormente il successo di Shyamalan.
Ma l'industria
americana, dopo averlo incoronato come il nuovo Steven Spielberg e
dopo gli insuccessi dei suoi ultimi film (E venne il giorno brucia particolarmente), respinge (a malincuore) il
suo enfant prodige relegandolo nel dimenticatoio. Servirà il volto
più noto del cinema horror recente, Jason Blum, ad offrire al
regista l'ultima possibilità. Il produttore affida a Shyamalan The
Visit, progetto low budget- 5 milioni cozzano contro le
cifre ben più elevate cui era abituato il regista indiano-
auspicandone la sua rinascita. Cosa che, in effetti, possiamo
felicemente dichiarare avvenuta con i 95 milioni di incassi
worldwide.
Protagonisti
del film sono due ragazzi che vanno a trovare per una settimana i nonni materni, mai
conosciuti prima a causa di un litigio con la madre dovuto a motivi
misteriosi. Rebecca ama il cinema e realizza
intervista video con la madre per ricostruire il suo rapporto con i
genitori. Tyler le fa da aiuto regista. Il found footage consente al
film di evolversi mediante i frammenti ripresi dai due fratelli che,
durante il giorno, parlano e giocano con i nonni gentili e
disponibili che, tuttavia, impongono loro un unico obbligo da
rispettare: i due ragazzini devono andare a letto entro le 21:30. E
così le prime giornate all'aria aperta trascorse nella villetta
isolata in Pennsylvania si trasformano in incubatrici di tensione.
Durante la notte accade qualcosa di strano ma come fare ad indagare
senza innestare nei nonni il germe del sospetto? Sarà l'obiettivo
della videocamera di Rebecca a rivelare la disturbante verità.
Come
nei precedenti film di Shyamalan, anche in The Visit, il genere è un
mero appiglio narrativo, un pretesto attorno al quale sviluppare il
vero centro focale del lungometraggio: un dramma familiare. Rebecca
effettua una ricerca sulle cause che hanno portato la madre e i
genitori a litigare e, nel finale, sarà l'innesto di un filmato
privato (la forma è quella di un racconto), come ne Il sesto senso,
in Lady in the water e nella lost Wayward
Pines (gli occhi meccanici che riprendono il mondo esterno), a
ri-mediare (al)la realtà.
Tutto
funziona in questo minuscolo progetto, dalla scelta di orchestrare
sapientemente i toni ironici che fanno da preludio ad inquietanti e
sporchi, nel vero senso della parola, stravolgimenti notturni
all'architettura delle inquadrature, pur in un prodotto, quale il
found footage, che farebbe pensare ad una certa casualità di scelta
nelle inquadrature. Il twist ending finale regge e conferma la piena
riabilitazione di un autore che, attingendo all'oscuro baratro della
paura primordiale, è finalmente riuscito a ritornare grande.
Nessun commento:
Posta un commento