di Matteo Marescalco
Era molto atteso il ritorno di Paolo Sorrentino al cinema, dopo la vittoria dell'Oscar al Miglior Film Straniero con La grande bellezza.
La curiosità, già elevata nei confronti dell'autore che, ricalcando Fellini, ha proposto una sua visione del vuoto della dolce vita romana ed è riuscito a conquistare (facilmente, visto l'argomento) il cuore della critica americana, è stata esponenzialmente incrementata all'annuncio del cast internazionale. Michael Caine, Harvey Keitel, Jane Fonda, Rachel Weisz e Paul Dano vanno ad aggiungersi a Sean Penn e Frances McDormand, diretti nel precedente This must be the place.
Dopo aver scandagliato le vie fisiche ed emozionali della città eterna, la macchina da presa di Sorrentino si sposta nuovamente all'estero.
Fred Ballinger e Mick Boyle sono amici di lungo corso. Il primo è un anziano direttore d'orchestra, il secondo un regista di fama internazionale. Entrambi stanno godendosi una vacanza in un hotel sulle Alpi svizzere, in compagnia di Lena, figlia nonché assistente personale di Fred, Jimmy, giovane attore frustrato che sta lavorando su un nuovo personaggio e nientepopodimeno che di un grottesco e surreale Diego Armando Maradona.
Fred ha smesso di dirigere da più di dieci anni e nemmeno l'invito della Regina Elisabetta lo convince a tornare sul palcoscenico. Mick, al contrario, sta preparando l'ultimo film della sua carriera, il suo testamento spirituale.
Nello Schatzalp Hotel di Davos, luogo-simulacro che sembra accogliere icone ed artisti cannibalizzati dalla propria arte, ansie e tormenti sulla giovinezza e sulla vecchiaia, sulla vita e sulla morte, prendono corpo e circondano i personaggi principali, vittime, tutti quanti, dell'enorme circo a cielo aperto che è la Vita.
Al termine della proiezione, si è pervasi da un'intensa malinconia, la stessa che provano i protagonisti del film, alpinisti sospesi a migliaia di metri da terra, in equilibrio precario su di un vuoto che rischia di inghiottirli, divorati dal Tempo che mozza gli artigli anche al leone. Naturale completamento de La grande bellezza (con cui condivide temi e personaggi trasfigurati in altri), Youth-La giovinezza esorta il suo protagonista a riflettere sul cammino che vale la pena intraprendere. Sacrificare se stessi (Harvey Keitel è la proiezione di Carlo Verdone) o provare ad andare avanti, spinti dalla forza che è nota con il nome di Amore? Fossilizzarsi sul proprio passato, ormai lontano anni luce, provando ad inseguire una bellezza irraggiungibile, vessata dalla decadenza, o vivere l'hic et nunc del presente, consapevoli che l'Arte trascende i confini di Spazio e Tempo?
«Siamo tutti sull'orlo della disperazione, non abbiamo altro rimedio che guardarci in faccia, farci compagnia, pigliarci un poco in giro..» sosteneva Jep Gambardella.
Quando tutto è finzione, eccetto che le emozioni e i sentimenti, quando gigantesche giraffe svaniscono e monaci buddisti levitano, cosa rimane costante nel tempo? La forma, l'estetica. La purezza dello sguardo. Che rischia, però, di essere fin troppo cristallino e disilluso.
A soli 44 anni, Paolo Sorrentino dirige il suo testamento spirituale, un 81/2 in netto anticipo sui tempi ma sfiancato, come un vecchio che fa tremendamente fatica a giungere al traguardo della sua vita.
Youth-La Giovinezza è un film ipertrofico sul versante visivo, che conferma tutte le debolezze del cinema di Sorrentino, auto-innalzatosi al ruolo di vate supremo.
Tra sogni e paure, occasioni perse ed allucinazioni, la macchina da presa sembra un trenino che gira e gira senza sapere mai dove andare a parare, chiuso tra gli asfittici spazi di un hotel che ospita egomostri vittime della propria arte.
Schiacciato da un surplus di aforismi didascalici e frasi da copertina, il film conferma l'incipiente vecchiaia artistica del suo autore, imbrigliato nelle solite riflessioni sui soliti temi.
Per citare una battuta: «Che peccato, tanto impegno per cosa? Per dei risultati così mediocri...».
Un po' di curiosità io me la serbo, almeno fino a domenica! Questi pareri contrastanti sono parecchio interessanti.
RispondiEliminaEh si, dimostrano che, quanto meno, si tratta di un'opera profondamente viva!
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