di Egidio Matinata
Roy
Andersson, regista svedese sconosciuto ai più, è entrato a
gamba tesa nel cinema contemporaneo con la sua “trilogia
sull’essere un essere umano”.
Tre
film che abbandonano gli schemi narrativi consolidati mostrando i
personaggi e le loro azioni in un contesto e in alcune situazioni
spesso surreali. Caratterizzati da uno stile rigoroso e molto
personale, Canzoni dal secondo piano (2000, premio della
giuria a Cannes), You, the Living (2007) e Un piccione
seduto su un ramo riflette sull’esistenza (2014, Leone d’oro
a Venezia), possono essere visti come un unico film diviso in tre
parti. Non vengono portati avanti dei personaggi e una storia, ma
delle situazioni e dei temi che riguardano la vita di ognuno.
Infatti, cercare di riassumere in qualche modo le trame diventa
difficile, ma soprattutto riduttivo.
La
regia di Andersson è costruita per essere uno sguardo sul mondo da
lui creato (palesemente fittizio e allo stesso tempo reale); i
movimenti della macchina da presa si riducono a brevi carrellate,
nella maggior parte dei casi si assiste ad inquadrature fisse che
delimitano lo spazio in cui si muovono i personaggi. Sembra che il
modo contemporaneo possa essere analizzato, compreso e quindi
riprodotto unicamente attraverso la chiave del grottesco; tutte le
azioni si basano sulla divisione, ma anche la coincidenza, del comico
e del tragico, del banale e dell’essenziale, della bellezza e della
meschinità, dell’ironia e della tragedia.
Le
potenti immagini, pittoriche e ipnotiche, mettono in mostra
un’umanità “imbalsamata” nel suo continuo errare senza una
meta precisa; i personaggi si incontrano, si scontrano, entrano in
contatto, ma senza arrivare (quasi) mai a creare un rapporto vero. Le
parole non hanno la forza necessaria per creare una vera
comunicazione, un ponte tra sé e gli altri (e anche i film stessi
potrebbero farne a meno; anche se muti non perderebbero minimamente
la loro forza espressiva).
In
tutte le situazioni un senso di colpa opprimente aleggia sovrano, e
nessuno ne è escluso.
Ma quale colpa?
Forse la colpa che ha le sue radici nel passato ma che continua a
perpetuarsi anche nel presente (le scene agghiaccianti del sacrificio
della bambina e di una tribù africana da parte di membri dell’alta
società); o forse è la colpa di non riuscire a ribellarsi al
quotidiano, alle catene di una società che nullifica l’individuo
rendendolo oppresso, schiavo della sua stessa vita. In questo
contesto, però, lo sguardo del regista non muove un’accusa contro
questo mondo e coloro che lo abitano; è uno sguardo compassionevole
e comprensivo, quasi affettuoso, verso creature vulnerabili. Lo
sguardo di Roy Andersson è lucido e critico, il suo tocco è
delicato e sensibile.
«In
generale la trilogia chiede agli spettatori di esaminare se stessi;
chiedendo loro «Cosa stiamo facendo? Dove siamo diretti?», intende
generare riflessione e contemplazione in merito alla nostra esistenza
con una dose abbondante di tragicommedia, passione per la vita, e un
rispetto fondamentale per l’esistenza umana. La trilogia mostra
un’umanità potenzialmente diretta verso l’apocalisse, ma dice
anche che il risultato è nelle nostre mani».
mannaggiaicinemadicatania che non ne han portato nessuno!!! DEVO vederli!
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