di Matteo Marescalco
assolutamente “intatti”, senza provare alcuna
emozione, come se nulla fosse stato. Oppure, può capitare di
emozionarsi per il tempo esatto della visione. Infine, sul versante
opposto (e questa è, con buone probabilità, la prassi meno comune),
accade di lasciare un pezzo di cuore nell'universo finzionale creato
dal regista. Sensazione che non è detto si estingua dopo la prima
visione, anzi, spesso, accade esattamente il contrario. Questo è ciò
che avviene (per il sottoscritto) alla visione di ogni film di Wes
Anderson.
Presentato in
anteprima alla 64esima edizione del Festival internazionale del
Cinema di Berlino (e vincitore del Gran Premio della Giuria), The
Grand Budapest Hotel è l'ultimo lungometraggio del regista
texano, autore di un numero ancora esiguo di film (tuttavia, come ben
sapete, non è la quantità a contare, ma la qualità): Bottle
Rocket, Rushmore, I Tenenbaum, Le avventure
acquatiche di Steve Zissou, Il treno per il Darjeeling,
Fantastic Mr. Fox e Moonrise Kingdom.
Il racconto si
snoda attraverso tre epoche: la prima linea diegetica è ambientata
in epoca contemporanea e vede protagonista Tom Wilkinson, nei panni
del narratore onnisciente dell'episodio ambientato nel secondo
contesto temporale e autore del libro sul Grand Budapest; la seconda
linea è ambientata nel 1964 ed è caratterizzata dalla presenza di
Jason Schwartzmann, Jude Law (un giovane Wilkinson) e F. Murray
Abraham, che interpreta il ruolo di Zero Moustafa da adulto, e che
assume la voce narrante di ciò che accade nel terzo contesto
diegetico in cui è ambientata la vicenda principale. Ne sono
protagonisti Monsieur Gustave H., carismatico concierge del Grand
Budapest Hotel e il giovane Zero Moustafa, fattorino e suo protetto.
La morte di Madame D. (Tilda Swinton), che ha lasciato in eredità a
Gustave un prezioso quadro, e l'omicidio di cui viene accusato,
costringono i due protagonisti ad una serie di avventure che li
porteranno a contatto con una banda di carcerati, un maggiordomo un
po' vile, la famiglia di Madame D. (in cui spiccano i mefistofelici
Dmitri e il suo tirapiedi Jopling, rispettivamente Adrien Brody e
Willem Dafoe da Oscar) e con una squadra di polizia capitanata da un
Edward Norton ancora più svanito che in Moonrise Kingdom.
Tra fughe e
inseguimenti, amori e tradimenti, scontri a fuoco ed omicidi, Wes
Anderson ha, probabilmente, diretto il film della maturità, quello
che sancisce l'ingresso del giovane imberbe nel mondo degli adulti e che
segna un'importante svolta nella sua scrittura filmica e narrativa,
una cesura all'interno della sua filmografia. Fin dai tempi di
Rushmore (Bottle Rocket è più un gioco giovanile),
Wes Anderson e il termine “autore” sono andati parecchio
d'accordo: secondo le elaborazioni teoretiche della Nouvelle Vague, è
autore colui che riesce ad intraprendere e portare avanti, nel corso
degli anni, un percorso filmico coerente sul versante estetico e
tecnico che presenta una serie di topoi stilistici e narrativi, e che
infonde il proprio tocco anche alle sue pellicole di minore
interesse.
Tra gli autori
della nuova generazione, Wes Anderson è un unicum, il più
rilevante, eclettico e, in un certo senso, sovversivo. Creatore di un
universo cromaticamente saturo, popolato da creature disfunzionali,
alle prese con famiglie sfaldate, i cui membri sono spesso in
contrasto tra loro. Abile delineatore di caratteri idiosincratici e
contrastanti, animati da sentimenti opposti, mossi sia dal bene sia
dal male, Anderson è stato in grado di portare sullo schermo
personaggi dallo sguardo infantile, adulti immaturi e bambini troppo
maturi per la loro età anagrafica (che però infilano le dita nelle
prese di corrente, a volte), e, per citare Gianni Canova, “...ha
messo in discussione l'autorità dei padri, con nonchalance, come se
fosse ovvio, schierandosi dalla parte dei figli inadatti, incompresi
e impacciati. Dalla parte di Davide contro Golia”.
E' lecito
parlare, in relazione ai suoi film, di universo Anderson, luogo
fiabesco caratterizzato da una
ricerca formale sui generis in forte
rottura con la tradizione del cinema americano “classico”,
segnata da un notevole grado di stravaganza e bizzarria, che ha reso
le opere del regista texano immediatamente riconoscibili anche ad
occhio meno allenato. Il cinema di Anderson è un'isola felice ma
malinconica, in cui domina un amaro happy ending, popolata da dolci
disadattati alla ricerca del loro posto nel mondo, costantemente
tallonati dai precisi movimenti geometrici e simmetrici della
macchina da presa, che li presenta tramite lunghe carrellate e
panoramiche e che, di frequente, li ingabbia in inquadrature frontali
che restituiscono il loro opprimente orizzonte vitale saturo di
oggetti che caratterizzano ulteriormente i loro proprietari
borderlines, così speciali, ma anche così ordinari (o mediocri) e
fragili. A puntellare ulteriormente questo contesto ci pensano i
brani rock e vintage anni '60 (i Kinks dominano le soundtracks) e gli
slow motion shot che, spesso, vengono applicati a sequenze dalla
particolare δύναμις emozionale.
Chiusa questa
parentesi, necessaria alla delineazione dei tratti stilistici
peculiari della poetica andersoniana, è opportuno tornare a
concentrarci sul film in questione.
The Grand
Budapest Hotel segna, come detto
precedentemente, un'evoluzione nello stile e nella narrazione
andersoniana. Innanzitutto, è il primo lungometraggio che Anderson
sceneggia da solo, senza la collaborazione dei suoi precedenti
co-sceneggiatori Owen Wilson, Noah Baumbach e Roman Coppola. Questa
solitudine sceneggiaturiale è stata foriera di un'evidente
cambiamento: la commedia ha lasciato spazio al thriller dai toni slapstick che, in
alcuni tratti della detection, raggiunge un discreto livello di
prominenza. A tal proposito si è parlato di ingresso nell'età
adulta di Wes Anderson: in relazione all'abbandono del genere puro e
al grado di attenzione riservato a personaggi che sono, per la prima
volta nel suo cinema, completamente negativi, a cui sembra essersi
accostato con sguardo meno fanciullesco e più disilluso. The
Grand Budapest Hotel, oltre ad
essere un esercizio ben elaborato sul piano diegetico con la presenza
di due narratori e l'intreccio di tre epoche storiche, è anche una
riflessione sull'attività del narrare, che consente di descrivere la
realtà a partire dai suoi aspetti più fantastici e meno realistici.
Su questo versante, il prologo si pone come una dichiarazione di
intenti del cinema di Wes Anderson, che è il regista degli aspetti
fiabeschi e dei personaggi inconsueti che vivono in un
mondo-giocattolo che sembra essere il capovolgimento di quello reale,
ma che finiscono inevitabilmente per cozzarvi contro.
Sul
versante tecnico, trova pieno compimento lo stile estetico del
regista che raggiunge l'apice della programmazione totale: gli
oggetti sulla scena sono disposti in perfetto ordine geometrico e
simmetrico, il punto focale dell'inquadratura coincide, come sempre,
con il centro dell'immagine filmica e i colori pastello della
fotografia di Robert Yeoman sono più saturi ed eccentrici che mai.
Se si vuole avere un'ulteriore conferma sulla meticolosità maniacale
di Anderson, basti pensare al fatto che il regista abbia realizzato
uno storyboard digitale dell'intero film, prima di iniziare le
riprese in live action. Più estremo de Le avventure
acquatiche di Steve Zissou, con
una gamma cromatica che va dalle tonalità del viola al rosso,
dall'ocra al nero, l'Hotel andersoniano (nei campi lunghi è
restituito tramite modellini animati in stop-motion) è costruito
tutto in accumulo: di personaggi, di oggetti, di sentimenti ed
emozioni. Il rischio (finora sfumato), per i
suoi progetti futuri, è che l'estetica prevalga sul racconto, la
perfezione geometrica sullo sguardo da fanciullo, la programmazione
totale sulla meraviglia, il manierismo sullo stile. La narrazione,
infatti, risulta essere un po' troppo prolissa e la descrizione
dettagliata del caleidoscopio di personaggi finisce per mettere in
secondo piano la storia d'amore tra Moustafa e Agata (Tony Revolori e
Saoirse Ronan).
Due
elementi che non possono essere tralasciati sono l'onnipresente
colonna sonora di Desplat che accompagna costantemente l'azione e i
tre differenti formati di proiezione che accompagnano le diverse
epoche storiche in cui è ambientata la vicenda.
Finora,
uno dei maggiori pregi del cinema di Anderson è stato quello di
riuscire a coinvolgere totalmente il fruitore nell'universo fittizio
del film, narrando le storie di personaggi che riescono a fare delle
proprie debolezze un punto di forza. Per questo, un film di Wes
Anderson non termina con la fine della proiezione. E' come se, usciti
dalla sala, la magia dei 24 frames al secondo proseguisse
ulteriormente ed illuminasse il mondo circostante, fino al prossimo
ingresso nell'universo andersoniano. Allora, saremo pronti ad
incontrare i nostri vecchi cari amici e parenti, che ammiriamo,
odiamo, invidiamo, evitiamo. Ma a cui vogliamo, inevitabilmente, un
gran bene.
Voto: ★★★★
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